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Atti persecutori: incontro con la vittima non esclude reato

La Corte di Cassazione conferma una condanna per atti persecutori, stabilendo che i contatti sporadici tra la vittima e il suo persecutore non interrompono la continuità del reato. Questo principio è particolarmente valido quando tali incontri avvengono nel tentativo di tutelare l’equilibrio di un figlio minore. La sentenza chiarisce che l’abitualità della condotta persecutoria e lo stato d’ansia generato nella vittima sono gli elementi decisivi, non gli occasionali tentativi di riappacificazione.

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Pubblicato il 28 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Atti persecutori: il contatto con la vittima non esclude il reato

Il reato di atti persecutori, meglio conosciuto come stalking, presenta contorni complessi, specialmente quando la dinamica relazionale tra vittima e persecutore è influenzata dalla presenza di figli. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti, stabilendo che un riavvicinamento temporaneo o un contatto episodico tra le parti non è sufficiente a escludere la sussistenza del reato, soprattutto se motivato dalla necessità di proteggere la serenità dei minori.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda un uomo condannato in primo e secondo grado per il delitto di atti persecutori ai danni dell’ex moglie. L’imputato, attraverso condotte reiterate, aveva generato nella donna un profondo stato d’ansia e paura, costringendola a modificare le proprie abitudini di vita. La vittima, infatti, aveva dichiarato di aver rinunciato a semplici attività quotidiane, come uscire la sera o accompagnare il figlio agli allenamenti, per timore di incontrare l’ex coniuge e subire aggressioni.

I Motivi del Ricorso: Atti persecutori e il Riavvicinamento della Vittima

L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su due motivi principali.

La presunta inattendibilità della vittima

In primo luogo, la difesa sosteneva che le dichiarazioni della persona offesa fossero inattendibili. A loro dire, il fatto che la donna avesse in alcune occasioni accettato di incontrare l’ex marito contraddiceva lo stato di paura da lei denunciato. Secondo questa tesi, tali incontri avrebbero dovuto interrompere la continuità della condotta persecutoria.

Il rifiuto di nuove prove

In secondo luogo, il ricorrente lamentava la mancata ammissione in appello di nuovi documenti. Tali documenti avrebbero dovuto attestare un percorso di psicoterapia intrapreso dall’uomo dopo i fatti contestati, grazie al quale aveva superato le proprie difficoltà caratteriali e riottenuto la piena responsabilità genitoriale. Secondo la difesa, questa documentazione era rilevante per una valutazione più mite della sua personalità e, di conseguenza, per la determinazione della pena.

Le Motivazioni della Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, ritenendolo infondato in ogni sua parte. Le motivazioni della decisione sono cruciali per comprendere la natura del reato di atti persecutori.

La continuità del reato non è interrotta da contatti sporadici

La Corte ha ribadito un principio consolidato: nel reato di atti persecutori, l’attendibilità delle dichiarazioni della vittima non è scalfita dalla circostanza che, nel periodo delle vessazioni, vi siano stati momenti transitori di attenuazione del malessere o tentativi di dialogo. Anzi, la giurisprudenza ha più volte chiarito che neppure un temporaneo ed episodico riavvicinamento interrompe l’abitualità del reato.

Nel caso specifico, i giudici hanno sottolineato come gli incontri fossero stati accettati dalla donna per evitare un’ulteriore esasperazione del clima familiare, che sarebbe andata a danno del figlio minore. Il tentativo di mantenere un clima sereno nell’interesse superiore del figlio non può essere interpretato come un consenso alle condotte persecutorie o come una negazione dello stato di ansia. Al contrario, questi tentativi spesso peggiorano la situazione, innescando comportamenti ancora più molesti e aggressivi da parte del persecutore.

L’irrilevanza della prova ‘post factum’

Per quanto riguarda il secondo motivo, la Cassazione ha ritenuto corretta la decisione della Corte d’Appello di non ammettere la nuova documentazione. Le prove relative al percorso di riabilitazione dell’imputato erano state definite ‘post factum’, ovvero successive ai fatti per cui si procedeva. Tali prove non erano rilevanti per dimostrare l’innocenza dell’imputato rispetto al reato già commesso, ma riguardavano unicamente il suo comportamento successivo. Sebbene un cambiamento positivo possa essere valutato in altre sedi, non è un elemento decisivo per riaprire l’istruttoria in appello al fine di provare i fatti di reato.

Le Conclusioni

La sentenza in esame rafforza la tutela delle vittime di stalking, specialmente in contesti familiari complessi. Si afferma con chiarezza che il criterio per valutare il reato di atti persecutori è l’oggettiva idoneità della condotta a generare un progressivo accumulo di disagio psicologico, indipendentemente dai tentativi della vittima di gestire la situazione per proteggere sé stessa o i propri figli. Il comportamento della vittima, quando volto a mitigare il conflitto nell’interesse dei minori, non può mai diventare un’arma a favore del persecutore per negare la propria responsabilità.

Se la vittima di stalking cerca un contatto con il persecutore, il reato sussiste comunque?
Sì. Secondo la Corte, il reato di atti persecutori sussiste anche se la vittima ha vissuto momenti transitori di attenuazione del malessere in cui ha ripristinato il dialogo. Un riavvicinamento temporaneo ed episodico non interrompe l’abitualità del reato né inficia la continuità delle condotte.

Perché le dichiarazioni della persona offesa sono state considerate attendibili nonostante i contatti con l’imputato?
Le dichiarazioni sono state ritenute attendibili perché i contatti erano finalizzati a evitare un’esasperazione del clima genitoriale a danno del figlio minore. La Corte ha riconosciuto che il tentativo di ripristinare un clima di serenità nel superiore interesse dei figli non smentisce lo stato di ansia e paura causato dalle condotte persecutorie.

È possibile presentare in appello prove che dimostrano un cambiamento di personalità dell’imputato avvenuto dopo i fatti?
No, non ai fini della prova dei fatti di reato. La Corte ha stabilito che la documentazione che attesta un percorso riabilitativo ‘post factum’ (cioè dopo i fatti contestati) non è rilevante per la prova del reato commesso, ma attiene a un comportamento successivo dell’imputato. Pertanto, non è una prova decisiva che giustifichi la riapertura del processo in appello.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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