Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 12423 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 12423 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 20/02/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME nato in Albania il 15/10/1952 NOMECOGNOME nato a Bari il 26/06/1957
avverso la sentenza del 13/03/2024 della Corte d’assise d’appello di Bari visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; letta la memoria dell’Avv. NOME COGNOME difensore di COGNOME COGNOME indirizzata alla Settima sezione penale della Corte di cassazione; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME la quale ha concluso chiedendo che i ricorsi siano dichiarati
inammissibili;
lette le note difensive dell’Avv. NOME COGNOME difensore di COGNOME COGNOME anche di replica alle conclusioni del Pubblico Ministero, il quale ha concluso insistendo per l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 13/03/2024, la Corte d’assise d’appello di Bari, in parziale riforma della sentenza del 20/04/2023 della Corte d’assise di Bari, per quanto qui interessa: a) riconosciute all’imputato le circostanze attenuanti generiche,
rideterminava in 4 anni e 6 mesi di reclusione ed C 1.200,00 di multa la pena irrogata a NOME COGNOME per i reati, unificati dal vincolo della continuazione, tentata estorsione ai danni di NOME COGNOME e di NOME COGNOME di cui al capo 4) dell’imputazione e di estorsione continuata in concorso (con NOME COGNOME ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 5) dell’imputazione, confermando la condanna del COGNOME per tali reati; b) riconosciute all’imputato le circostanze attenuant generiche, rideterminava in 4 anni e 2 mesi di reclusione ed C 800,00 di multa la pena irrogata a NOME COGNOME per il reato di estorsione continuata in concorso (con NOME COGNOME ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 5) dell’imputazione, confermando la condanna del COGNOME per tale reato; c) condannava gli imputati NOME COGNOME e NOME COGNOME «alla rifusione delle ulteriori spese di giudizio sostenute dalle parti civili», che liquidava «in complessivi C 5.000,00 oltre spese generali in misura del 15% ed altri accessori come per legge».
Avverso tale sentenza del 13/03/2024 della Corte d’assise d’appello di Bari, hanno proposto ricorsi per cassazione, per il tramite dei propri rispettivi difensori, gli imputati NOME COGNOME e NOME COGNOME
Il ricorso di NOME COGNOME, a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a u unico motivo, con il quale il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., la contraddittorietà della motivazione «in ordine alla omessa concessione delle attenuanti generiche nella massima estensione».
Il ricorrente deduce che l’offerta risarcitoria, «dell’ammontare complessivo di C 3.000,00», alla quale egli aveva proceduto «nell’interesse di tutte le parti civili costituite» (che l’avevano rifiutata), in quanto rappresentava il massimo sforzo economico che era per lui possibile, manifestando, perciò, la sua concreta resipiscenza, «avrebbe meritato una valorizzazione maggiore e tale da consentire la concessione delle generiche nella massima estensione» e sarebbe anzi stata «valutabile come una offerta totale», atteso anche che i testimoni che erano stati escussi nel corso del dibattimento – in particolare: NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME -, «hanno dichiarato di aver pagato per un certo periodo e, in alcuni casi, mai pagato a fronte della richiesta ricevuta».
Secondo il ricorrente, in aggiunta a tale elemento positivo della formulata offerta risarcitoria, anche il suo stato di incensurato e il suo «atteggiamento collaborativo, volto ad agevolare l’espletamento dell’attività istruttoria», avrebbero giustificato la diminuzione di pena per le riconosciute circostanze attenuanti generiche nella misura massima di un terzo.
Il ricorso di NOME COGNOME a firma dell’avv. NOME COGNOME, è affidato a tre motivi.
4.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., il «difetto», la contraddittorietà e l’illogicità del
motivazione, nonché il «travisamento delle prove», con riguardo al mancato riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di lieve entità introdotta con la sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2023.
Il COGNOME lamenta la mancanza di motivazione al riguardo, nonostante il proprio motivo di appello relativo all’invocato riconoscimento della suddetta circostanza attenuante non fosse stato oggetto di rinuncia e nonostante la sussistenza dei presupposti per lo stesso riconoscimento fosse stata argomentata nella memoria depositata il 13/03/2024 e in sede di discussione.
Il ricorrente ribadisce la sussistenza nella specie dei presupposti per il riconoscimento dell’invocata circostanza attenuante, attesa la ridotta entità dell’offesa che era stata arrecata alla vittima NOME COGNOME e la non elevata utilità pretesa, ed evidenzia in proposito che: 1) il reato a lui attribuito «si inserisce in un contesto fattuale e temporaneo avulso da quello riguardante l’omicidio di NOME COGNOME dell’11/03/2021», essendo stato commesso «da agosto 2015 sino a dicembre 2017»; 2) il COGNOME, al quale egli era legato da un rapporto di amicizia, non aveva sporto denuncia nei suoi confronti, «non figura quale persona offesa dal reato» ed era stato sentito a sommarie informazioni molti anni dopo i fatti (il 24/03/2021); 3) nessuno degli altri condomini del condominio di Bari, INDIRIZZO lo aveva mai menzionato; 4) dalle dichiarazioni che erano state rese dal COGNOME nel corso del dibattimento (il 20/12/2022), era emerso come l’azione delittuosa fosse stata «occasionale e singolare».
Il COGNOME sottolinea a quest’ultimo proposito come il COGNOME avesse: lasciato intendere che gli incontri con gli imputati «si verificavano casualmente, quando capitava di incontrarsi» («No, che tutti i giorni, ci trovavamo, no tutti i giorni»); sminuito l’accaduto («non volevo perdere la testa per queste cazzate»); specificato di non avere mai subito violenze, di non avere mai dato soldi al COGNOME e di non avere mai dato soldi a NOME COGNOME in presenza del COGNOME; escluso di avere avuto paura del COGNOME («No, non avevo paura, perché dovevo avere?»), al quale era legato da un rapporto di amicizia.
Il ricorrente aggiunge come anche la Corte d’assise di Bari avesse affermato che «il giorno in cui NOME e NOME gli avevano portato il contratto e avevano fatto questione per l’ammontare del canone, i due lo avevano minacciato di mandarlo al cimitero se non avesse pagato, minaccia che il solo NOME aveva ripetuto anche numerose altre volte e in conseguenza della quale egli aveva pagato» (pagg. 54-55 della sentenza di primo grado).
Il COGNOME contesta ancora che i connotati dell’episodio quali erano emersi nel corso del dibattimento non troverebbero rispondenza nella ricostruzione che, dello stesso episodio, è stata fatta dalla Corte d’assise d’appello di Bari. Denuncia in particolare che, nel motivare l’entità della diminuzione di pena per le
riconosciute circostanze attenuanti generiche, la Corte d’assise d’appello avrebbe travisato la prova, avendo definito «un mera congettura» (pag. 13 della sentenza impugnata) l’esistenza di un rapporto di amicizia tra il COGNOME e il COGNOME, laddove questi aveva espressamente affermato la sussistenza di un tale rapporto («No, di amicizia»), il quale trovava del resto conferma nella già evidenziata mancanza di timore del COGNOME nei confronti del COGNOME.
Il ricorrente contesta ancora l’affermazione della Corte d’assise d’appello relativa all’asserita sussistenza del «dato obiettivo rappresentato dall’avvenuto incasso del pagamento indebito in plurime occasioni, evidentemente sintomatico del timore patito dal COGNOME» (pag. 13 della sentenza impugnata), atteso che, come già detto, il COGNOME aveva escluso di avere subito un effetto intimidatorio, come pure di avere versato del denaro nelle mani del COGNOME o in sua presenza.
4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce «iolazione di legge per difetto e manifesta illogicità di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio ed al mancato riconoscimento dell’ipotesi della lieve entità del fatto».
Il COGNOME afferma che la denunciata carenza motivazionale con riguardo al mancato riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di lieve entità avrebbe reso illogico il ragionamento della Corte d’assise d’appello di Bari «anche in ordine al trattamento sanzionatorio».
Il ricorrente contesta anzitutto il rilievo che è stato attribuito dalla Cort d’assise d’appello ai suoi «numerosi precedenti penali sintomatici della sua caratura criminale» (pag. 13 della sentenza impugnata), nonostante il carattere risalente di tali precedenti e «il difetto di recidiva specifica». Rappresenta in proposito che, fatta eccezione per una condanna nel 2020 al pagamento di una multa per il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali, l’ultima condanna alla pena della reclusione che egli aveva riportato gli era stata inflitta dalla Corte d’appello di Bari con sentenza del 29/05/2006 ed era relativa a fatti che risalivano al periodo compreso tra il 1998 e il 1999, a far data dal quale egli «risulta avulso da qualsiasi contesto criminoso».
Il COGNOME contesta poi la motivazione che è stata resa dalla Corte d’assise d’appello di Bari (nel terzo, quarto e quinto capoverso della pag. 13 della sentenza impugnata) a sostegno della diminuzione di pena per le riconosciute circostanze attenuanti generiche in misura inferiore a un terzo ed evidenzia in proposito che, dalle dichiarazioni fatte dal COGNOME in sede dibattimentale, sarebbe emerso: che il COGNOME, ancorché presente all’atto della sottoscrizione del contratto di locazione dell’immobile, non avrebbe intimato al COGNOME di pagare la somma imposta dal Mucollari ma avrebbe suggerito a quest’ultimo di trovare un accordo con lo stesso COGNOME («Con NOME siamo rimasti d’accordo»), né vi sarebbe stata un’intimazione in grado di suscitare timore («No non avevo paura, perché dovevo
avere?); la natura amicale del rapporto tra lo stesso COGNOME e il COGNOME («No, di amicizia»), la quale non era, perciò, «una mera congettura di matrice difensiva», come affermato dalla Corte d’assise d’appello di Bari.
Da ciò discenderebbe «l’irrazionalità del ragionamento sotteso alla mancata concessione delle attenuanti generiche nella massima estensione» e che, «contrariamente a quanto affermato dall’impugnata sentenza, vi è ragione di ritenere che la risalenza nel tempo dei trascorsi giudiziari annoverati dall’odierno prevenuto unitamente alle risultanze probatorie relative alle concrete modalità e circostanze dell’azione nonché all’entità (tenue) del danno, condurrebbero ad un esito diverso».
4.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce «iolazione dell’art. 133 c.p. per difetto ed illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell’unitarietà della condotta».
4.3.1. Il COGNOME lamenta che la sentenza impugnata «non offre una motivazione neanche in merito alla rilevata unitarietà della condotta contestata, eccepita dalla difesa nel motivo d’appello riguardante il trattamento sanzionatorio», atteso che vi sarebbe «ragione di ritenere che la condotta posta in essere dall’odierno imputato non sia sfociata in una pluralità di episodi estorsivi (da rinvenirsi nel pagamento mensile del canone di locazione), bensì in un unico evento rinvenibile nella stipula del contratto di locazione stesso che avrebbe prodotto l’effetto dell’indebito versamento dei canoni mensili». Tale circostanza sarebbe stata rilevata anche nella sentenza di primo grado (alle pagg. 54-55) e troverebbe conferma nelle dichiarazioni che erano state rese dal COGNOME.
4.3.2. Il ricorrente denuncia, infine, che la Corte d’assise d’appello di Bari avrebbe «erroneamente ed ingiustamente condannato il COGNOME alla rifusione delle ulteriori spese di giudizio sostenute dalle parti civili», atteso che, nel giudizio non vi era stata alcuna costituzione di parte civile nei suoi confronti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile perché è proposto per un motivo non consentito.
La giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nell’affermare che la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (tra le tantissime Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283-01).
Anche successivamente, è stato ribadito che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243-01).
Nel caso in esame, la Corte d’assise d’appello di Bari ha ritenuto che la diminuzione di pena per le riconosciute circostanze attenuati generiche non potesse essere operata nella misura massima di un terzo in quanto si doveva tenere conto, da un lato, della parzialità del risarcimento che era stato offerto dall’imputato alle parti civili – sicché la stessa diminuzione doveva essere effettuata in misura «congrua» rispetto all’entità dello stesso offerto parziale risarcimento – e, dall’altro lato, della gravità dei delitti che erano stati commessi dall’imputato, alla luce, in particolare, dell’intensità del dolo intenzionale che aveva connotato le sue condotte minacciose e violente.
Diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, tale motivazione risulta del tutto priva di contraddizioni e di qualsivoglia violazione di legge ma, al contrario, del tutto congrua, atteso che essa dà adeguatamente conto dell’impiego, da parte della Corte d’assise d’appello di Bari, dei criteri di cui all’art 133 cod. pen. – dovendosi peraltro ritenere generiche le doglianze del ricorrente in ordine all’asserita integralità del risarcimento del danno da lui offerto -, con la conseguenza che, poiché la valutazione discrezionale del giudice di merito non può essere rivalutata in questa sede di legittimità, il motivo si deve ritenere non consentito.
Il ricorso di NOME COGNOME è fondato soltanto limitatamente alla doglianza, che è stata formulata nell’ambito del terzo motivo, con la quale il ricorrente ha lamentato di essere stato condannato «alla rifusione delle ulteriori spese di giudizio sostenute dalle parti civili», mentre è inammissibile nel resto, per essere le ulteriori doglianze non consentite.
2.1. Il primo motivo non è consentito, attesa l’inammissibilità, per difetto di specificità, del motivo di appello del COGNOME relativo all’invocato riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di lieve entità.
Con il tale motivo di appello, l’imputato aveva argomentato la lieve entità del fatto di estorsione a lui attribuito deducendo esclusivamente che essa sarebbe stata «desumibile non soltanto dal rapporto di amicizia che il Bakaj ha dichiarato
sussistere con il COGNOME, ma anche in ragione della ridotta entità dell’offesa e del danno rilevabili nel caso di specie» (pag. 22 dell’atto di appello).
In proposito, si deve rilevare: a) quanto all’argomento che ha riguardo al rapporto di amicizia che sarebbe sussistito con la persona offesa NOME COGNOME, come l’esistenza di un tale rapporto amicale non appaia in alcun modo di per sé indice di lieve entità del fatto (rendendolo, caso mai, più riprovevole); b) quanto all’argomento che ha riguardo alla «ridotta entità dell’offesa e del danno», come tale entità «ridotta» dell’offesa e dal danno che erano stati cagionati al COGNOME fosse stata meramente enunciata, atteso che l’appellante non aveva in alcun modo indicato per quali ragioni l’entità dell’offesa e del danno arrecati alla persona offesa si dovesse ritenere, appunto, «ridotta».
Ne discende che il motivo di appello del COGNOME sul punto era inammissibile per difetto di specificità, vizio che, secondo un principio che è costantemente affermato nella giurisprudenza di legittimità, è rilevabile anche nel giudizio di cassazione, a norma dell’art. 591, comma 4, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 38683 del 26/04/2017, COGNOME, Rv. 270799-01; Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017, P., Rv. 271193-01).
Da tale dichiarata inammissibilità del motivo di appello per difetto di specificità discende che il corrispondente motivo di ricorso per cassazione risulta non consentito.
2.2. Il secondo motivo non è consentito.
Come si è già detto esaminando il ricorso di NOME COGNOME, la giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nell’affermare che la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gl elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (tra le tantissime: Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, cit.).
Anche successivamente, è stato ribadito che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, cit.).
Nel caso in esame, premesso che la pena base che è stata irrogata dalla Corte d’assise d’appello di Bari corrisponde, quanto alla pena detentiva, al minimo edittale di 5 anni di reclusione (mentre, quanto all’irrogata pena pecuniaria di C 1.200,00 di multa, essa supera di poco il minimo edittale di C 1.000,00 di multa), la stessa Corte d’assise d’appello ha ritenuto che la diminuzione di pena per le riconosciute circostanze attenuati generiche non potesse essere operata nella misura massima di un terzo in quanto si doveva tenere conto: da un lato, della parzialità del risarcimento che era stato offerto dall’imputato alla persona offesa; dall’altro lato, dei numerosi precedenti penali del COGNOME (i quali sussistevano a prescindere dal fatto che potessero essere relativi a fatti non recenti); infine, della gravità del delitto che era stato commesso dall’imputato, alla luce, in particolare, della serietà delle minacce che erano state rivolte al COGNOME (che era stato minacciato di morte: «se non paghi ti facciamo andare al cimitero»).
Diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, tale motivazione risulta priva di illogicità manifeste e di qualsivoglia violazione di legge ma, al contrario, congrua, atteso che essa dà adeguatamente conto dell’impiego, da parte della Corte d’assise d’appello di Bari, dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., con l conseguenza che, poiché la valutazione discrezionale del giudice di merito non può essere rivalutata in questa sede di legittimità, il motivo si deve ritenere non consentito.
2.3. Il terzo motivo è fondato limitatamente alla doglianza con la quale il ricorrente ha lamentato di essere stato condannato «alla rifusione delle ulteriori spese di giudizio sostenute dalle parti civili», mentre non è consentito nella restante parte in cui il ricorrente si è doluto del «mancato riconoscimento dell’unitarietà della condotta».
2.3.1. Cominciando da quest’ultima doglianza, con essa il COGNOME ha lamentato che la Corte d’assise d’appello di Bari abbia ritenuto la sussistenza di plurimi reati di estorsione ai danni del COGNOME, unificati dal vincolo della continuazione, anziché di un unico reato.
A tale proposito, si deve osservare come la Corte d’assise d’appello di Bari abbia correttamente rilevato come il COGNOME avesse rinunciato ai motivi sulla responsabilità per il reato continuato così come esso gli era stato contestato nel capo 5) dell’imputazione, con la conseguenza che la doglianza de quo, involgendo aspetti che attenevano, appunto, alla responsabilità per il suddetto reato continuato (e all’applicazione del conseguente aumento di pena per la continuazione), non poteva che essere rigettata.
Per la medesima ragione – che il ricorrente ha peraltro trascurato di considerare – la stessa doglianza non è consentita in questa sede.
2.3.2. Il motivo è invece fondato nella parte in cui, con esso, il ricorrente ha lamentato di essere stato condannato «alla rifusione delle ulteriori spese di giudizio sostenute dalle parti civili».
Come si è visto nella parte in fatto (al punto 1), la Corte d’assise d’appello di Bari ha condannato gli imputati NOME COGNOME e NOME COGNOME «alla rifusione delle ulteriori spese di giudizio sostenute dalle parti civili» (che ha liquidato « complessivi € 5.000,00 oltre spese generali in misura del 15% ed altri accessori come per legge»).
Tuttavia, nel processo non vi era stata alcuna costituzione di parte civile nei confronti del COGNOME, con la conseguenza che, come è stato giustamente rappresentato dal ricorrente, egli non avrebbe dovuto essere condannato alla rifusione delle spese processuali relative a una, inesistente, azione civile nei suoi confronti.
In conclusione: a) la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti di NOME COGNOME limitatamente alle statuizioni civili, che devono essere eliminate; b) il ricorso del COGNOME deve essere dichiarato inammissibile nel resto; c) il ricorso di NOME COGNOME deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di € 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME COGNOME limitatamente alle statuizioni civili che elimina. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso. Dichiara inammissibile il ricorso di COGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 20/02/2025.