Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 45429 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 45429 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/09/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
NOME nata a Napoli il 07/12/1951;
COGNOME NOMECOGNOME nato a Napoli il 16/03/1955;
3 NOME COGNOME nato a Napoli il 24/04/1985;
4 COGNOME NOME nato a Napoli il 16/01/1990;
5 NOME NOME nato a Napoli il 16/04/1984;
avverso la sentenza emessa il 21/12/2023 dalla Corte di appello di Napoli visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi;
udita la relazione del Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto di annullare la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME limitatamente alla riduzione della pena conseguente al riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 416 bis.1, terzo comma, 3 cod. pen., con rinvio per un nuovo esame sul punto, e di dichiarare inammissibile nel resto il ricorso di COGNOME e i restanti ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza emessa all’esito del giudizio abbreviato in data 25 maggio 2022 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, nei confronti degli imputati appellanti NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME:
GLYPH ha sostituito la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici applicata nei confronti di NOME COGNOME con l’interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di cinque anni e ha revocato la pena accessoria dell’interdizione legale;
-ha assolto NOME COGNOME dal reato al medesimo ascritto al capo 65) perché il fatto non sussiste e, per l’effetto, ha rideterminato la pena per il reato residuo di cui al capo 64) in due anni, due mesi e venti giorni di reclusione, revocando l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni;
-ha confermato nel resto la sentenza impugnata, condannando gli appellanti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME al pagamento delle spese processuali del grado.
L’avvocato NOME COGNOME difensore di NOME COGNOME, gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME, difensori di NOME COGNOME, l’avvocato NOME COGNOME, difensore di NOME COGNOME e di NOME COGNOME e l’avvocato NOME COGNOME, difensore di NOME COGNOME, ricorrono avverso questa sentenza e ne chiedono l’annullamento.
L’avvocato NOME COGNOME nell’interesse di NOME COGNOME, deduce due motivi.
3.1. Con il primo motivo, il difensore censura l’erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione in ordine alla riduzione della pena nella sola misura di un terzo, a seguito del riconoscimento della circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all’art. 416 bis.1, terzo comma, cod. pen.
La Corte di appello, infatti, non avrebbe applicato l’attenuante nella massima estensione, in considerazione delle circostanze di fatto e, segnatamente, della «(protratta significativa partecipazione ad associazione camorristica di fatto cessata solo in conseguenza delle richieste estorsive personalmente subite), nonché della personalità dell’agente (che di fatto continuava a operare dell’illecito sino al 2015, allorquando aveva la disponibilità di banconote contraffatte e di armi clandestine)».
Questa motivazione, tuttavia, sarebbe illegittima, in quanto la
giurisprudenza di legittimità, a più riprese, ha rilevato che, nell’attenuante di cui all’art. 416 bis.1, terzo comma, cod. pen., la gravità dei delitti commessi non può incidere sull’entità della riduzione della pena da riconoscere
3.2. Con il secondo motivo il difensore deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Il difensore rileva che, chiedendo l’applicazione delle attenuanti generiche nell’atto di appello, non aveva inteso sollecitare un doppio vaglio delle dichiarazioni rese dal ricorrente nella sua collaborazione, circostanza non consentita in quanto concreterebbe un bis in idem sostanziale, ma solo evidenziare che la scelta di collaborazione era stata assunta dall’imputato da libero, quando neppure era indagato, mentre tutti gli altri coimputati erano stati attinti dalla custodi cautelare; era, peraltro, stato proprio il ricorrente a determinarsi per primo e a convincere il padre ad intraprendere la medesima scelta collaborativa.
Sarebbe, peraltro, stato l’imputato a confessare delitti per i quali le indagini non erano neppure iniziate e a far rinvenire le banconote false di cui al capo 68) e le armi di cui al capo 135).
Il comportamento processuale assunto dal ricorrente, fin dalla fase delle indagini preliminari, sarebbe sintomatico della sua ridotta capacità criminale, in quanto il ricorrente si sarebbe schierato contro il clan di appartenenza, recidendo ogni collegamento con lo stesso.
3.3. Con il terzo motivo il difensore deduce la manifesta illogicità della motivazione relativa al diniego delle attenuanti generiche, in quanto la Corte di appello non avrebbe considerato che, come già rilevato nella sentenza di prime grado, il ricorrente, a seguito di minacce ricevute nel 2009 e di seguito reiterate sino al 2015, aveva deciso di allontanarsi dalla Campania, aprendo un’attività di ristorazione a Udine, e, successivamente, rientrato a Caserta alla fine del 2014, si era defilato dal clan COGNOME.
Gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME difensori di NOME COGNOME propongono due motivi.
4.1. I difensori, con il primo motivo, deducono che la Corte di appello avrebbe motivato in modo carente e illogico la responsabilità penale della ricorrente per il reato di ricettazione e, con il secondo motivo, i medesimi vizi della motivazione, con riferimento al dolo del reato accertato.
La ricorrente sarebbe, infatti, stata condannata per il delitto di ricettazione sulla base dell’interpretazione di un’intercettazione, che avrebbe dimostrato la percezione da parte sua di una somma di danaro di provenienza illecita, una tangente versata da un ignoto imprenditore al sodalizio camorristico diretto dal
marito della ricorrente, per evitare ritorsioni in occasioni di lavori edili eseguiti società con NOME COGNOME, cugino di NOME COGNOME.
Illogico sarebbe, tuttavia, ritenere che NOME COGNOME, esponente di vertice del clan COGNOME, abbia sottoposto a estorsione NOME COGNOME, suo cugino,, e il suo socio; questa valutazione, infatti, contrasterebbe con la massima di esperienza secondo la quale se l’estortore appartiene ad un sodalizio criminale, non sottopone a ricatto persone alle quali è legato da vincoli di parentela.
La Corte di appello, tuttavia, non avrebbe risposto alle censure proposte dalla difesa nell’atto di appello; illogica sarebbe, comunque, l’interpretazione della predetta intercettazione e, comunque, la stessa sarebbe inidonea a superare lo standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Nessuna prova, infatti, dimostrerebbe la provenienza della somma ricevuta dalla ricorrente dall’estorsione ipotizzata.
4.2. Il difensore con il secondo motivo ha censurato la violazione dell’art. 648 cod. pen. e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del dolo della ricorrente.
Non vi sarebbe, infatti, prova, oltre ogni ragionevole dubbio, del dolo della ricorrente all’atto della ricezione della somma di danaro e gli elementi indiziari addotti dalla Corte di appello sarebbero stati illogicamente interpretati.
La ricorrente, infatti, all’atto della ricezione della somma di danaro sarebbe stata ignara della provenienza della stessa e avrebbe chiesto al COGNOME chiarimenti sul punto.
L’avvocato NOME COGNOME nell’interesse di NOME COGNOME censura la violazione di legge e il vizio di motivazione nel riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen. con riferimento al reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 64).
La Corte di appello, infatti, ha ritenuto integrata l’aggravante, con riferimento all’essersi avvalso del metodo camorristico, in ragione di presunte attività intimidatorie poste in essere dal coimputato NOME COGNOME, esponente del clan COGNOME e figlio di NOME COGNOME, pur di completare i lavori per la realizzazione dell’agenzia di scommesse.
Ad avviso del ricorrente, la sola appartenenza di COGNOME al clan COGNOME, dunque, avrebbe illegittimamente fondato l’applicazione dell’aggravante, senza che mai, tale qualifica fosse stata spesa da COGNOME stesso o da COGNOME.
Il ricorrente sarebbe, tuttavia, risultato estraneo al network criminale e questa circostanza avrebbe dovuto suggerire maggiore cautela alla Corte di appello nell’applicare la circostanza aggravante.
D’altra parte, tanto sotto il profilo del nesso di strumentalità dell’attività
economica rispetto al conseguimento degli interessi propri del sodalizio, che della finalità della condotta del soggetto sul piano della c.d. causalità agevolatrice, non vi sarebbe prova della sussistenza dell’aggravante.
L’avvocato NOME COGNOME nell’interesse di NOME COGNOME censura la violazione di legge e il vizio di motivazione, in quanto la Corte di appello ha ritenuto integrata la condotta di usura di cui al capo 43), pur in assenza di una precisa individuazione dell’arco temporale entro il quale la somma mutuata da COGNOME doveva essere restituita dalla persona offesa NOME COGNOME
Questa carenza, infatti, vizierebbe radicalmente la sentenza, in quanto renderebbe impossibile stabilire l’ammontare degli interessi corrisposti.
Le intercettazioni, pur provando l’esistenza di un rapporto debitorio di COGNOME nei confronti dell’imputato, non consentirebbero di comprendere gli estremi del rapporto creditizio.
Pur essendo verosimile che la somma mutuata dall’imputato ammontasse a duemila euro, difetterebbe in radice sia l’individuazione del termine per la restituzione, che la durata del rapporto creditizio; la mancanza di tali elementi non consentirebbe di determinare la misura dell’interesse richiesto e, in ipotesi, di qualificarlo come usurario.
La Corte di appello avrebbe, dunque, posto a fondamento del proprio apprezzamento l’intercettazione della conversazione del 3 ottobre 2012 (riportata anche nel ricorso), ma dalla stessa non sarebbe possibile inferire la scadenza della prima rata e quale fosse il termine per la restituzione del prestito pattuito.
L’avvocato NOME COGNOME, difensore di NOME COGNOME, propone due. motivi.
7.1. Con il primo motivo, il difensore censura la violazione di legge in ordine , al riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen., sia con riferimento alla finalità agevolatrice del sodalizio camorristico, che dell’essersi avvalso del metodo mafioso, in relazione al delitto di usura contestato al capo 15).
Il difensore rileva che NOME COGNOME, vero dominus di questo episodio criminoso, avrebbe deciso di collaborare con la giustizia e avrebbe reso dichiarazioni nelle quali, pur ammettendo la propria responsabilità, non avrebbe coinvolto il ricorrente nella condotta antigiuridica.
La Corte di appello ha rigettato la censura proposta sul punto, rilevando che nessuna richiesta specifica era stata rivolta al dichiarante dalla difesa e che, peraltro, il rito abbreviato non ammetteva integrazioni.
Ad avviso del difensore, tuttavia, la scelta di collaborazione di COGNOME era
intervenuta proprio nelle more della celebrazione del giudizio abbreviato e le contestazioni erano ben note, tanto al pubblico ministero, che alla difesa; la carenza istruttoria, consistente nell’assenza di dichiarazioni riferibili all’imputato, non potrebbe, del resto, essere addebitata alla difesa.
L’aggravante, che postula il dolo specifico di favorire l’organizzazione criminale, sarebbe insussistente, in quanto COGNOME aveva intrattenuto rapporti solo con COGNOME e non si potevano considerare i contatti precedenti del ricorrente con COGNOME, per asserire che lo stesso avesse avuto cognizione della condizione di assoggettamento e di omertà propria della forza intimidatrice del vincolo associativo.
La Corte di appello, peraltro, avrebbe valorizzato in proposito l’assenza di condotte violente, ancorché tale elemento dimostrasse proprio l’assenza dell’aggravante contestata.
7.2. Con il secondo motivo il difensore deduce la violazione di legge in ordine al riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 644, quinto comma, cod. pen. in relazione all’usura di cui al capo 15).
L’imputato, infatti, non avrebbe avuto consapevolezza dello stato di bisogno della persona offesa, NOME COGNOME, almeno al momento della pattuizione, avendo NOME COGNOME appreso dello stesso solo in occasione della conversazione del 9 agosto 2012 con NOME COGNOME.
La Corte di appello, tuttavia, avrebbe obliterato che questa conversazione sarebbe intervenuta mezz’ora prima del coinvolgimento di Marano nella vicenda.
Proprio il richiamo a questa conversazione dimostrerebbe che l’imputato non avesse consapevolezza dello stato di bisogno della persona offesa, in quanto la dazione asseritamente usuraria sarebbe intervenuta quasi un mese prima della stessa conversazione.
Non essendo stata richiesta la trattazione orale del procedimento, il ricorso è stato trattato con procedura scritta.
Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 4 giugno 2024, il Procuratore generale, NOME COGNOME ha chiesto di annullare la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME limitatamente alla riduzione della pena conseguente al riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 416 bis.1, terzo comma, cod. pen., con rinvio per un nuovo esame sul punto, e di dichiarare inammissibili il ricorso di COGNOME nel resto e i restanti ricorsi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto da NOME COGNOME deve essere accolto nei limiti che
di seguito si precisano; gli ulteriori ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
2. Il ricorso di NOME COGNOME.
L’avvocato NOME COGNOME nell’interesse di NOME COGNOME, deduce due motivi.
2.1. Con il primo motivo, il difensore censura l’erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione in ordine alla riduzione della pena nella sola misura di un terzo, a seguito del riconoscimento della circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all’art. 416 bis.1, terzo comma, cod. pen.
2.2. Il motivo è fondato.
La Corte di appello ha, infatti, riconosciuto all’imputato l’attenuante ad effetto speciale per la dissociazione di cui all’art. 8 legge 12 luglio 1991, n. 203 e ha ridotto la pena nella misura minima di un terzo, esclusivamente in ragione delle modalità e gravità dei fatti commessi e della personalità del ricorrente, senza fare alcun riferimento alla qualità della collaborazione prestata ai fini della ricostruzione degli addebiti.
Questa motivazione, tuttavia, è illegittima.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, la circostanza attenuante speciale per la dissociazione di cui all’art. 8 legge 12 luglio 1991, n. 203 si fonda sul mero presupposto dell’utilità obiettiva della collaborazione prestata dal partecipe all’associazione di tipo mafioso e non può,, pertanto, essere disconosciuta, o, se riconosciuta, la sua incidenza nel calcolo della pena non può essere ridimensionata, in ragione di valutazioni inerenti alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato, ovvero alle motivazioni che hanno determinato l’imputato alla collaborazione (ex plurimis: Sez. 2 n. 18875 d& 30/04/2021, COGNOME Rv. 281287; Sez. 1, n. 31413 del 19/06/2015, Ponticelli, Rv. 264756; Sez. 2, n. 34148 del 05/05/2015, COGNOME, Rv. 264529 – 01; Sez. 6, n. 10740 del 16/12/2010 (dep. 2011), COGNOME, Rv. 249373).
La Corte di appello ha, dunque, escluso l’applicazione dell’attenuante nella massima estensione sulla base di una motivazione che contrasta con il dettato della legge.
Si impone, dunque, l’annullamento della sentenza impugnata sul punto, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli, che provvederà ad uniformarsi ai principi stabiliti da questa Suprema Corte.
2.3. Con il secondo motivo il difensore deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, in quanto la Corte di appello non avrebbe considerato che la scelta di collaborazione era stata assunta dall’imputato in stato di libertà, quando neppure era indagato, mentre tutti gli altri coimputati erano stati attinti dalla
custodia cautelare; era, peraltro, stato proprio il ricorrente a determinarsi per primo e a convincere il padre ad intraprendere la medesima scelta di collaborazione con l’autorità giudiziaria.
Con il terzo motivo il difensore deduce la manifesta illogicità della motivazione relativa al diniego delle attenuanti generiche, in quanto la Corte di appello non avrebbe considerato che, come già rilevato nella sentenza di primo grado, il ricorrente, a seguito di minacce ricevute nel 2009 e di seguito reiterate sino al 2015, aveva deciso di allontanarsi dalla Campania, aprendo un’attività di ristorazione a Udine, e, successivamente rientrato a Caserta alla fine del 2014, di defilarsi dal clan COGNOME.
2.5. Entrambi i motivi sono infondati.
La decisione sulla concessione o sul diniego delle attenuanti generiche è, infatti, rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, che nell’esercizio del relativo potere agisce con insindacabile apprezzamento, sottratto al controllo di legittimità, a meno che non sia viziato da errori logico-giuridici.
Per principio di diritto assolutamente consolidato ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle. attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (ex plurimis: Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane ed altri, Rv. 248244).
Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche, il giudice può, dunque, limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente (v., da ultimo, Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549).
La Corte di appello ha, dunque, correttamente applicato questi principi, in quanto ha ritenuto ostative all’applicazione delle attenuanti generiche la gravità dei fatti per cui si procede (e, segnatamente, la protratta partecipazione dell’imputato ad un’associazione camorristica, di fatto cessata solo in conseguenza delle richieste estorsive personalmente subite) e la personalità del ricorrente, che di fatto ha continuato a commettere illeciti sino al 2015, quando è stato trovato in possesso di banconote contraffatte e di armi clandestine.
I giudici di appello hanno, inoltre, non incongruamente rilevato che «il comportamento processuale assunto, ovvero le dichiarazioni auto-accusatorie rese
nell’ambito di un percorso di collaborazione con la giustizia e il proficui contributo alle indagini non fondano di per sé la riconducibilità delle suddette attenuanti generiche, trattandosi di elementi già valutati al fine del riconoscimento della circostanza attenuante di cui al terzo comma dell’art. 416 bis.1 cod. pen.».
La motivazione, non potendo essere ritenuta manifestamente illogica, non esorbita dall’ambito di apprezzamento del giudice di merito, e non è illegittima, ancorché la Corte di appello abbia posto a fondamento dell’esclusione delle attenuanti generiche anche circostanze già valorizzate per escludere nella massima estensione l’applicazione dell’attenuante della circostanza attenuante speciale per la dissociazione di cui all’art. 8 legge 12 luglio 1991, n. 203.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, ai fini della determinazione della pena, il giudice può tenere conto più volte del medesimo dato di fatto sotto differenti profili e per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del ne bis in idem (Sez. 3, n. 17054 dei 13/12/2018 (dep. 18/04/2019), M., Rv. 275904 – 03, nella specie la Corte ha ritenuto immune da vizi la motivazione della Corte d’appello che ha fatto riferimento ai medesimi elementi indicativi della gravità del fatto per determinare la pena in misura superiore al minimo e per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche; Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015, Rechici, Rv. 264378 – 01; Sez. 2, n. 933 del 11/10/2013 (dep. 2014), NOME COGNOME Rv. 258011 – 01).
La violazione di legge e il vizio di motivazione denunciati sono, dunque, insussistenti.
3. Il ricorso di NOME COGNOME.
Gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME difensori di NOME COGNOME propongono due motivi.
3.1. I difensori, con il primo motivo, deducono la motivazione carente e illogica del giudizio di responsabilità penale della ricorrente per il reato di ricettazione e, con il secondo motivo, censurano i medesimi vizi, con riferimento al dolo del reato accertato.
Ad avviso dei difensori, infatti, sarebbe stato manifestamente illogico ritenere che NOME COGNOME, esponente di vertice del clan COGNOME, abbia sottoposto a estorsione NOME COGNOME, suo cugino, e il suo socio; questa valutazione, infatti, contrasterebbe con la massima di esperienza secondo la quale se l’estortore appartiene ad un sodalizio criminale, non sottopone a ricatto persone alle quali è legato da vincoli di parentela.
3.2. Il motivo è inammissibile, in quanto meramente riproduttivo delle censure proposte nell’atto di appello, che sono state congruamente disattese dalla
Corte di appello di Napoli e, comunque, sono manifestamente infondate.
La Corte di appello ha, infatti, non incongruamente ritenuto che la somma di denaro ricevuta dalla ricorrente fosse il provento di un’estorsione perpetrata dai vertici del clan COGNOME (nella persona di NOME COGNOME), ai danni del socio di NOME COGNOME NOME, cugino di NOME COGNOME, marito dell’imputata.
Questi avrebbe “spontaneamente” versato la tangente per evitare ritorsioni postume, in relazione a lavori già eseguiti, ma senza previa autorizzazione del clan.
Indipendentemente dal dubbio fondamento della massima di esperienza invocata dalla ricorrente, deve rilevarsi che la motivazione sul punto non può essere ritenuta manifestamente illogica, in quanto la persona che, quale vittima dell’estorsione, ha effettuato l’esborso in favore del sodalizio criminoso era il socio di NOME COGNOME e non un suo familiare o, comunque, un affiliato al clan di camorra.
La Corte ha, inoltre, disatteso puntualmente le censure proposte dalla difesa nell’atto di appello con riguardo alla mancata dimostrazione del reato presupposto, fornendo una lettura coerente delle intercettazioni.
Secondo le Sezioni unite di questa Corte, del resto, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715).
3.3. Il difensore con il secondo motivo ha censurato la violazione dell’art. 648 cod. pen. e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del dolo della ricorrente, in quanto non vi sarebbe la prova oltre ogni ragionevole dubbio del dolo della stessa all’atto della ricezione della somma e gli elementi indiziari addotti dalla Corte di appello sarebbero stati illogicamente interpretati.
3.4. Il motivo è parimenti inammissibile.
La Corte di appello ha congruamente rilevato che NOME, all’atto della ricezione della somma di 5.000 euro, sapeva che la stessa era di spettanza del marito detenuto e, dunque, di provenienza illecita, in quanto la sua richiesta di chiarimenti sulla provenienza esatta del danaro era intervenuta nel contesto di un confronto con i plenipotenziari del clan sulla spartizione dei proventi dell’organizzazione criminale.
Non ricorre, dunque, alcuna illogicità nella lettura delle conversazioni da cui la Corte ha tratto la prova della sussistenza del dolo in merito alla provenienza delittuosa della somma ricevuta, in quanto, anche in questo caso, la difesa si limita a richiedere una differente valutazione di elementi probatori, non consentita in sede di legittimità.
Esula, infatti, dai poteri della Corte di Cassazione quello della “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata, in via esclusiva, al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 47289 del 10/12/2003, COGNOME, Rv. 226074; Sez. U, n. 6402, 30 aprile 1997, COGNOME, Rv. 207044).
Sono, tuttavia, precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (ex multis: Sez. 6, n. 47204, del 7/10/2015, COGNOME, Rv. 265482).
5. Il ricorso di NOME COGNOME.
5.1. L’avvocato NOME COGNOME, nell’interesse di NOME COGNOME, censura la violazione di legge e il vizio di motivazione nel riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen. con riferimento al reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 64), per avere agito con metodo camorristico.
5.2. Il motivo è inammissibile, in quanto aspecifico.
La Corte di appello ha, infatti, ritenuto sussistente l’aggravante tanto sotto il profilo dell’essersi avvalso del metodo mafioso, che quello dell’agevolazione del sodalizio camorristico clan COGNOME e il ricorrente ha formulato censure esclusivamente sotto il primo profilo.
Ove sia contestata l’aggravante di cui all’art. 7 del D.L. n. 152 del 13 maggio 1991, nella duplice accezione del metodo e dell’agevolazione mafiosa, non sussiste l’interesse dell’indagato a ricorrere in cassazione ove contesti una sola delle declinazioni della circostanza, non derivando dall’eventuale accoglimento del ricorso alcuna concreta utilità (Sez. 6, n. 550 del 31/10/2018, COGNOME, Rv. 27493601).
È, infatti, inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione che si limiti alla critica di una sola delle rationes decidendi poste a fondamento della decisione, ove a fondamento della motivazione del provvedimento impugnato ne siano ravvisabili plurime, autonome ed autosufficienti (Sez. 3, n. 30021 del 14/07/2011, F., Rv. 250972, nella specie, l’ordinanza impugnata aveva motivato il permanere delle esigenze cautelari richiamando il pericolo di fuga ed il pericolo di reiterazione dei reati, quest’ultima non investita con il ricorso per cassazione; Sez. 3, n. 2754 del 06/12/2017, dep. 2018, Bimonte, Rv. 272448 – 01).
Quanto al profilo del metodo mafioso, la Corte di appello ha, peraltro,
congruamente rilevato che COGNOME ha rappresentato ai propri interlocutori di operare in sinergia con NOME COGNOME, esponente di punta del clan COGNOME, al fine di intimidire le vittime, e che lo stesso COGNOME non avrebbe esitato a ricorrere alla forza di intimidazione che risultava dall’appartenenza, a livello apicale, al clan predetto, per risolvere le problematiche che gli venivano prospettate (pag. 26 della sentenza impugnata).
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, del resto, ai fini della configurabilità dell’aggravante del “metodo mafioso”, di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., è sufficiente, in un territorio in cui è radica un’organizzazione mafiosa storica, che il soggetto agente si riferisca implicitamente al potere criminale della consorteria, in quanto tale potere è di per sé noto alla collettività (ex plurimis: Sez. 2, n. 34786 deI31/05/2023, Cersosimo, Rv. 284950-01; Sez. 2 n. 19245 del 30/03/2017, Paiano, Rv. 269938)
6. Il ricorso di NOME COGNOME.
6.1. L’avvocato NOME COGNOME nell’interesse di NOME COGNOME censura la violazione di legge e il vizio di motivazione, in quanto la Corte di appello ha ritenuto integrata la condotta di usura di cui al capo 43), pur in assenza di una precisa individuazione dell’arco temporale entro il quale la somma mutuata da COGNOME doveva essere restituita dalla persona offesa NOME COGNOME
6.2. Il motivo è inammissibile per aspecificità e in quanto sollecita una rinnovata valutazione delle risultanze delle intercettazioni, non consentita in sede di legittimità.
La Corte di appello, a seguito di un analitico esame delle intercettazioni telefoniche, ha, peraltro, congruamente accertato, pur in assenza di documentazione, il carattere usurario delle somme versate dalla vittima a saldo del debito contratto con il ricorrente.
Nella valutazione non illogica dei giudici di appello, la vittima, infatti, ha restituito, nell’arco di pochi mesi, all’imputato cinque rate da seicento euro l’una (e, dunque, 3.000 euro complessivi), a fronte della somma mutuata di C. 2.000,00 (con un guadagno in cinque mesi pari al 50% del credito erogato) (pagg. 17-18 della sentenza impugnata).
7. Il ricorso di NOME COGNOME.
L’avvocato NOME COGNOME, difensore di NOME COGNOME, propone due motivi.
7.1. Con il primo motivo, il difensore censura la violazione di legge in ordine al riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen., sia con riferimento alla finalità agevolatrice del sodalizio camorristico, che
dell’essersi avvalso del metodo mafioso, in relazione al delitto di usura contestato al capo 15).
Il difensore rileva che NOME COGNOME, vero dominus di questo episodio criminoso, avrebbe deciso di collaborare con la giustizia e avrebbe reso dichiarazioni nelle quali, pur ammettendo la propria responsabilità, non avrebbe coinvolto il ricorrente nella condotta antigiuridica.
La Corte di appello ha rigettato la censura proposta sul punto, rilevando che nessuna richiesta specifica era stata rivolta al dichiarante dalla difesa e che, peraltro, il rito abbreviato non ammetteva integrazioni.
7.2. Il motivo è inammissibile e, comunque, manifestamente infondato.
La Corte di appello ha ritenuto sussistente l’aggravante tanto sotto il profilo del metodo mafioso, che quello dell’agevolazione del sodalizio camorristico denominato clan COGNOME e il ricorrente ha formulato censure solo sotto il primo profilo.
La Corte di appello ha, inoltre, rigettato la censura della difesa, congruamente motivando in ordine alla certa consapevolezza da parte del ricorrente di agevolare con le condotte in esame il clan COGNOME.
Le intercettazioni telefoniche, infatti, hanno dimostrato non solo l’azione congiunta di Marano con NOME COGNOME in relazione al delitto contestato, ma anche i frequenti contatti tra COGNOME e Marano.
Nella valutazione non illogica della Corte di appello, il mancato ricorso alla violenza, peraltro, non esclude il delitto di estorsione contestato, ma conferma proprio le condizioni di assoggettamento e di omertà proprie della forza intimidatrice del vincolo associativo, che ha consentito a Marano, forte anche delle minacce e dell’aggressività manifestata da COGNOME, di recarsi più volte dalla vittima per ottenere la restituzione di quanto richiesto (pag. 20-21 della sentenza impugnata; pag. 174-182 della sentenza di primo grado).
7.3. Con il secondo motivo il difensore deduce la violazione di legge in ordine al riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 644, quinto comma, cod. pen. in relazione all’usura di cui al capo 15), in quanto l’imputato non avrebbe avuto consapevolezza dello stato di bisogno della persona offesa.
7.4. Il motivo è inammissibile per aspecificità, in quanto il ricorrente ha censurato solo una delle due rationes decidendi poste a fondamento dell’applicazione della predetta aggravante.
La Corte di appello ha, infatti, applicato la predetta aggravante, richiamando la conversazione del 9 agosto 2012 in cui COGNOME ha conferito al ricorrente l’incarico di provvedere della riscossione del debito usurario e questa intercettazione è, di poco, successiva a quella in cui il medesimo COGNOME ha appreso da COGNOME COGNOME della situazione personale dell’imprenditore usurato.
-V
Secondo la Corte di appello, dunque, sarebbe verosimile che, nell’arco temporale di una sola mezz’ora, COGNOME, si sia premurato di riferire a Marano dello stato di bisogno della vittima, nel momento in cui gli conferiva l’incarico di riscuotere la rata del prestito usurario.
La Corte di appello ha, tuttavia, posto a fondamento dell’applicazione della predetta aggravante anche un ulteriore argomento dirimente, non censurato nel motivo di ricorso.
Le condizioni di bisogno in cui versava la vittima NOMECOGNOME p sarebbero, infatti, risultate dalle stesse condizioni del prestito, negoziato da un imprenditore nel settore dei giocattoli, già più volte protestato e sottoposto a richiesta di fallimento; il prestito era, inoltre, stato stipulato, al di fuori del cir istituzionale, per un importo limitato (700 euro) e a condizioni gravose.
I giudici di appello hanno, peraltro, ulteriormente dimostrato le condizioni di bisogno del mutuatario NOME COGNOME rilevando che per il medesimo, assillato da ristrettezze economiche, avevano rilievo anche somme non elevate (come era dimostrato dalla conversazione del 10 luglio 2012, nella quale NOME COGNOME si lamentava con NOME COGNOME per la mancanza di 30 euro dalla somma ricevuta.1
Alla stregua di tali rilievi, deve essere annullata la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME limitatamente alla circostanza attenuante di cui all’art. 416-bis.1, terzo comma, cod. pen., rinviando ad altra sezione della Corte di appello per nuovo giudizio sul punto; il ricorso di COGNOME NOME deve essere rigettato nel resto.
I ricorsi di COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME NOME devono essere dichiarati inammissibili e i predetti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali.
In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza «versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», deve, altresì, disporsi che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME limitatamente alla circostanza attenuante di cui all’art. 416-bis.1, terzo comma, cod. pen., e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. Rigetta nel resto il ricorso di NOME COGNOME. Dichiara inammissibili i ricorsi di NOME Maria, COGNOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME e condanna i predetti ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma
di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 18 settembre 2024.