Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 2155 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 2155 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
AVVENTURATO NOMECOGNOME nato ad Acerra il 6.3.1987
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli del 16.2.2024
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procur generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 12.6.2024, la Corte d’Appello di Napoli h riformato parzialmente la sentenza del Tribunale di Nola che in data 23.3.202 aveva condannato AVVENTURATO NOME alla pena di nove anni di reclusione per i reati di cui agli artt. 4 L. n. 110 del 1975, 56-575, 416-bis.1 cod. pen rideterminato la pena in sei anni e due mesi di reclusione.
Nel resto, la Corte d’Appello ha rigettato l’appello in ordine alla manc concessione della circostanza attenuante di cui all’art. 416-bis.1, comma 3, pen., condividendo la motivazione del giudice di primo grado, il quale h evidenziato che le dichiarazioni di COGNOME fossero intervenute in una fase cui il quadro probatorio era già solido, al punto da determinare la condanna de
altri imputati giudicati separatamente, e fossero inoltre risultate in contrasto con quanto già accertato, nonché mosse da intenti auto calunniatori. In realtà, le dinamiche criminali sottostanti all’agguato oggetto del giudizio – evidenziano i giudici di secondo grado – risultavano già compiutamente delineate in base al contenuto delle intercettazioni telefoniche, che sono riportate nella sentenza di primo grado e che sono esplicite sul punto, con la conseguenza che non può riconoscersi alcuna decisività alle dichiarazioni di COGNOME
Anche il Tribunale di Noia, nella sentenza di primo grado, aveva precisato, nel negare la circostanza attenuante invocata pure in appello, che l’imputato non solo aveva fornito una ricostruzione – evidentemente finalizzata ad attenuare le proprie responsabilità – non perfettamente coincidente con quella emersa dalle risultanze processuali, ma di fatto non aveva offerto alcun elemento aggiuntivo rispetto a un quadro probatorio già di per sé granitico e resistente.
Avverso la predetta sentenza, ha proposto ricorso il difensore di AVVENTURATO NOMECOGNOME articolandolo in un unico motivo, con cui deduce, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. la violazione dell’art. 416-bis.1, comma 3, cod. pen., in relazione al mancato riconoscimento dell’attenuante della dissociazione, con conseguente illegittimo eccesso di pena.
Il diniego dell’attenuante della collaborazione – sostiene il ricorso – contrasta con i principi più volte espressi dalla giurisprudenza, la quale individua come requisito per la concessione dell’attenuante l’utilità obiettiva della collaborazione. Nel caso di specie, il ricorrente ha ricostruito con dovizia di particolari tutte le fasi dell’evento delittuoso, come si legge alla pag. 31 della sentenza di primo grado, senza tacere alcunché in ordine al movente, alle armi utilizzate, ai ruoli ricoperti dai suoi sodali, con la descrizione esatta di luoghi, orari e dinamica dei fatti.
I giudici di merito, invece, hanno negato l’attenuante, sulla base dell’argomento che le dinamiche criminali sottostanti all’agguato risultavano già completamente dal contenuto delle captazioni telefoniche riportate nella sentenza di primo grado, con la conseguenza che le dichiarazioni dell’imputato non avevano rivestito alcuna decisività. Ma questa argomentazione è contraria all’orientamento della giurisprudenza di legittimità che esclude la sussistenza dell’attenuante solo quando gli altri concorrenti nel reato siano stati già condannati con sentenza definitiva, circostanza che non ricorre nel caso di specie.
Le intercettazioni costituivano un elemento probatorio rilevante, ma assolutamente parziale per la ricostruzione della vicenda criminosa, tanto è vero che nessuna di esse svela il movente del tentato omicidio, né ricostruisce lo scenario criminale in cui è maturato il delitto: una contesa, insorta tra la vittima e il gruppo di cui faceva parte l’imputato, nella gestione dei traffici illeciti s
territorio di Acerra, con la conseguente necessità di impartire alla vittima una lezione per costringerlo a trasferirsi. Questi elementi sarebbero rimasti ignoti senza la collaborazione di COGNOME le cui dichiarazioni sono state importanti anche per fornire una ricostruzione precisa delle aree sottoposte all’influenza della consorteria di cui faceva parte e hanno riguardato non solo i reati, ma anche i ruoli ricoperti dai suoi sodali e le modalità operative nel clan.
Invece, le intercettazioni non sarebbero state sufficienti perché, per certi versi, sono apparse addirittura fuorvianti, come quando s’è inizialmente ritenuto che il movente dell’azione fosse da ricondursi a motivi di tipo sentimentale, in base a una conversazione della moglie della vittima con una persona con cui aveva intrattenuto in passato un rapporto di natura sentimentale. È lo stesso giudice di primo grado che si affida totalmente alle dichiarazioni del ricorrente quando afferma che “chiudono il cerchio” in ordine alla responsabilità degli imputati. La Corte, quindi, ha errato attribuire una valenza decisiva agli elementi di riscontro, così svalutando la credibilità soggettiva del dichiarante.
Con requisitoria scritta del 30.9.2024, il Sostituto Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso, in quanto i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione del principio secondo cui l’attenuante della collaborazione può essere concessa solo quando il contributo dichiarativo sia da considerarsi determinante per la decisione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato per le ragioni che di seguito si esporranno, non prima di aver premesso che, sul punto specificamente oggetto di ricorso, si è in presenza di una c.d. “doppia conforme”, la quale ricorre quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado, sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nel valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12.6.2019, E., Rv. 277218 – 01; sez. 3, n. 44418 del 16.7.2013, COGNOME, Rv. 257595 – 01).
La sentenza impugnata, richiamando espressamente anche la motivazione della pronuncia di primo grado, ha negato la concessione della circostanza attenuante della collaborazione, essenzialmente sulla base del fatto che le dichiarazioni del ricorrente fossero intervenute in una fase in cui la prova della
responsabilità dei coimputati, giudicati separatamente, era già stata acquisita e che, pertanto, non potessero considerarsi decisive.
In questo modo, la Corte d’Appello di Napoli ha fatto corretta applicazione dei principi costantemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità sulla applicazione della attenuante della collaborazione con riferimento alla obiettiva utilità del contributo del dichiarante.
Questa Corte, invero, ha più volte ribadito che l’applicazione della circostanza attenuante della collaborazione non può essere legata ad un mero atteggiamento di resipiscenza, ad una confessione delle proprie responsabilità o alla descrizione di circostanze di secondaria importanza, ma richiede una concreta e fattiva attività di collaborazione dell’imputato, volta ad evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori e a coadiuvare gli organi inquirenti nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e la cattura degli autori dei delitt (Sez. 1, n. 52513 del 14/6/2018, Rv. 274190 – 01; Sez. 6, n. 36570 del 26/6/2012, Rv. 253393 – 01; Sez. 1, n. 9276 del 13/12/2006, dep. 2007, Rv. 236230 – 01).
La decisività delle dichiarazioni del collaboratore resta un requisito imprescindibile per la concessione dell’attenuante speciale, tanto che non da ora si è ritenuto che l’applicazione della diminuente resta esclusa quando il contributo intervenga in presenza di un quadro probatorio che aveva già consentito l’individuazione dei concorrenti nel reato (Sez. 1, n. 9245 del 07/10/1996, Rv. 205230 – 01; Sez. 3, n. 3078 del 12/12/2012, dep. 2013, Rv. 254142 – 01).
3. Ciò detto, il ricorso contesta, più che altro, la persuasività della motivazione della sentenza impugnata e sollecita una diversa valutazione dei significati attribuiti dai giudici di merito alle prove disponibili al fine di ritenere non decisiva la collaborazione del ricorrente.
In particolare, rimarca che nel suo esame il ricorrente abbia ricostruito con dovizia di particolari l’evento oggetto dell’accertamento processuale e abbia in tal modo integrato le emergenze solo parziali delle intercettazioni, che non svelavano lo scenario criminale in cui era maturato il delitto e che anzi per certi versi erano addirittura fuorvianti.
Ma, così facendo, il ricorso chiede, in sede di legittimità, di attribuire alle singole prove un differente significato rispetto a quello individuato dai giudici di merito e propone di adottare nuovi parametri di valutazione dei fatti come emergenti da quelle fonti, indicandoli come maggiormente plausibili rispetto a quelli adottati nei precedenti gradi di giudizio.
Preclusa ogni possibilità di una rilettura dei dati processuali da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, qui basti evidenziare che la motivazione
della sentenza di primo grado dà diffusamente e logicamente atto dei plurimi elementi – tratti dagli accertamenti di polizia giudiziaria, dalle dichiarazioni delle persone informate sui fatti, dalla visione delle immagini estrapolate dai sistemi di videosorveglianza presenti nella zona del fatto, dalle intercettazioni telefoniche e ambientali – sulla scorta dei quali è stato possibile ricavare dinamica e movente dell’azione delittuosa nonché affermare la responsabilità penale di COGNOME.
E’ vero – come evidenzia il ricorso – che il Tribunale di Noia richiama da ultimo anche “l’ammissione degli addebiti” da parte di COGNOME, ma lo fa – a citare testualmente il relativo passaggio – per “chiudere il cerchio in ordine alla pacifica responsabilità dell’odierno imputato e dei suoi sodali”. In tal modo, tuttavia, la sentenza rende evidente, sia pure attraverso l’utilizzo di una espressione gergale, che le dichiarazioni di COGNOME sono tutt’al più un ulteriore riscontro e, dunque, costituiscono, per definizione, nulla più che una conferma della ricostruzione del fatto già ampiamente operata per altra via, tanto è vero che non si esita a definire “pacifica” (vale a dire, incontestabile) la responsabilità di tutti gli originari imputat a prescindere dall’esame del ricorrente.
Questo vuol dire che non residua spazio, sulla base della non illogica e nient’affatto contraddittoria motivazione della sentenza, per ritenere che le dichiarazioni di COGNOME rivestissero il carattere della decisività, richiesto dall’art. 416-bis.1, comma 3, cod. pen. per l’applicazione della attenuante della collaborazione.
Alla luce di quanto fin qui osservato, pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 18.10.2024