Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 11970 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 11970 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 26/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI VENEZIA nel procedimento a carico di: COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) nato il DATA_NASCITA nel procedimento a carico di quest’ultimo
inoltre:
RAGIONE_SOCIALE
avverso la sentenza del 28/03/2023 della CORTE ASSISE APPELLO di VENEZIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME AVV_NOTAIO NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto AVV_NOTAIO NOME COGNOME AVV_NOTAIO che ha concluso chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi.
udito il difensore
AVV_NOTAIO NOME COGNOME difensore della parte civile RAGIONE_SOCIALE, si associa alle conclusioni del AVV_NOTAIO Generale per il ricorso proposto dall’imputato; chiede la conferma della sentenza impugnata; si riporta alle conclusioni che deposita unitamente alla nota spese;
l’AVV_NOTAIO NOME COGNOME NOME, difensore di fiducia dell’imputato NOME COGNOME NOME, si riporta ai motivi di ricorso e della memoria
depositata ed insiste per l’accoglimento; in via subordinata solleva questione di legittimità Costituzionale, ai sensi dell’ad 23 comma 2 della legge 87/53, dell’ad 581 quater c.p.p. in relazione artt. 3 e 24 della Cost.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 28 marzo 2023, la Corte di assise di appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza della Corte di assise di Treviso, ritenuta, per il delitto contestato a NOME COGNOME al capo B ai sensi dell’art. 280 cod. pen., l’ipotesi dell’attentato alla sola “incolumità” delle persone (e non anche alla “vita” delle stesse), per finalità di terrorismo, rideterminava la pena complessiva in anni 14 e mesi 10 di reclusione (dagli anni 28 di reclusione irrogati dal primo giudice).
Al COGNOME risultano così, ora, contestati i seguenti delitti:
al capo B, il delitto di cui all’art. 280 cod. pen., relativo alla sola incolumità personale, per avere, in concorso con altri, collocato nella scala di sicurezza della sede di Villorba di Treviso del partito politico della RAGIONE_SOCIALE due congegni esplosivi micidiali (due pentole a pressione contenti materiale esplodente), facendone scoppiare uno la notte del 12 agosto 2018 e collegando l’altro ad una trappola d’inciampo, affinché esplodesse all’arrivo delle forze dell’ordine, rivendicando l’attentato con un comunicato pubblicato fra il 12 ed il 15 agosto 2018, su un sito internet di area anarchica;
al capo C, il delitto di cui agli artt. 270 bis 1 cod. pen. e 9 e 12 legge n. 497 del 1974, per avere, in concorso con altri, fabbricato e portato in luogo pubblico, per finalità di terrorismo, i due ricordati congegni micidiali, al fine di commettere il reato sub B.
1.1. In risposta ai dedotti motivi di appello, per quanto qui di interesse, la Corte territoriale osservava quanto segue.
L’individuazione dell’imputato come l’autore del fatto – peraltro non specificamente contestata in ricorso – derivava dal reperimento di tracce biologiche al medesimo attribuibili su varie componenti dell’ordigno non esploso e della busta contenente la rivendicazione dell’attentato inviata ad un quotidiano trevigiano e dagli ulteriori elementi circostanziali evidenziati dalla Corte d’appello a pagina 34 e ss. dell’impugnata sentenza.
Infondato era l’assunto difensivo volto a sostenere l’ipotesi del reato impossibile, non potendosi considerare, il gesto dell’imputato, solo dimostrativo.
In particolare, il secondo ordigno, destinato ad esplodere all’arrivo degli uomini delle forze dell’ordine (che sarebbero sopraggiunti dopo lo scoppio del primo), era certamente un congegno insidioso, con chiara potenzialità offensiva.
Doveva poi considerarsi come, non solo non fosse stato segnalato il luogo in cui questo ordigno era stato collocato, ma che lo stesso, munito di innesco a strappo, era stato occultato fra altri oggetti lasciati sul posto.
Tanto che i primi intervenuti (prima ancora degli operanti), tali COGNOME e COGNOME (che occupavano dei locali adiacenti alla sede della RAGIONE_SOCIALE), e poi gli operanti stessi, pur vedendo il cartello sul quale vi era scritto “bomba” (accompagnato da un nastro colorato), non riuscendo a scorgerla a prima vista, avevano ritenuto si trattasse di un falso avvertimento.
Tanto che gli operanti avevano perlustrato i luoghi senza chiedere il previo intervento degli artificieri.
E, ancora, dopo l’esplosione del primo ordigno, l’imputato non era intervenuto in alcun modo per segnalare la presenza del secondo (anche nel rivendicare l’attentato aveva fatto riferimento ad una sola bomba) così lasciandone intatte l’insidiosità e la potenzialità offensiva.
Anche il tenore degli scritti pubblicati in precedenza dall’imputato escludeva che l’attentato fosse solo dimostrativo, visto che in essi aveva sostenuto la necessità di passare all’azione violenta e, quindi, non più solo dimostrativa.
Quanto alla idoneità del secondo ordigno allo scoppio, contestata dalla difesa in base al risultato negativo del primo esperimento peritale, del 26 luglio 2021, la Corte osservava come i successivi tentativi, in cui si era più adeguatamente ricostruito l’ordigno (destrutturato dai precedenti interventi, il primo dei quali ad opera degli artificieri, sul posto), avevano consentito di dimostrarne la perfetta funzionalità, sia nell’innesco, sia nella parte esplodente.
Del resto, l’imputato, evidentemente conscio di ciò, aveva dotato l’ordigno di un interruttore di armamento, proprio al fine di consentire, a se stesso, di operare sul medesimo in tutta sicurezza.
Quanto alla qualificazione giuridica del fatto contestato al capo B (l’avere, l’imputato, attentato anche alla “vita” persone, oltre che alla loro “incolumità personale”), la Corte osservava che lo stesso perito aveva riferito come la materia esplodente (inserita nella pentola che ne costituiva l’involucro) fosse di scarsa qualità, la densità di caricamento fosse ridotta e l’innesco debole (anche in relazione alla proiezione all’esterno dei chiodi che vi erano stati inseriti), tanto che, negli esperimenti fatti, la pentola stessa non si era frammentata nello scoppio ed il coperchio aveva fatto da scudo ai chiodi, causandone, in sostanza, la mera caduta a terra a non più di un metro e mezzo di distanza.
Era in base a tali risultati che il perito aveva concluso che l’ordigno avrebbe potuto costituire un pericolo per la “vita” degli operanti solo ove gli stessi si fossero trovati a stretto contatto con il medesimo. Nell’ulteriore raggio di 4 metri, invece, l’ordigno avrebbe potuto costituire solo un pericolo per l’ “incolumità” delle persone.
Si doveva anche considerare, secondo la Corte veneziana, che questo era stato collocato sotto la scala antincendio, ad una certa distanza dal filo che
l’avrebbe innescato, così che la persona che l’avrebbe attivato (inciampando sul filo) sarebbe stata colpita a distanza e in parti del corpo non vitali.
La Corte riteneva pertanto, d’ufficio (non avendo l’appellante argomentato sul punto), di riqualificare la condotta contestata al prevenuto al capo B nel senso indicato in dispositivo e, quindi, ritenendo l’attentato alla sola “incolumità” delle persone e non alla loro “vita” (da cui era derivata la sostanziale riduzione della pena).
Né, aggiungeva la Corte, potevano trarsi diverse conclusioni dallo scritto del prevenuto, del giugno 2018, evidenziato dalla Corte di assise di prime cure, in cui sotto il titolo de “i/ culto dell’odio”, l’imputato aveva auspicato un passaggio all’azione, ipotizzando anche l’eventualità di attentare alla vita degli appartenenti ai Corpi di polizia, posto che l’espressione di un’idea non necessariamente comporta il passaggio all’atto.
Quanto al trattamento sanzionatorio, il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche era impedito, per la Corte, dalla gravità del fatto e dall’intensità del dolo e la pena complessivamente irrogata (dalla Corte d’appello medesima, dopo la riqualificazione del capo B) adeguata al disvalore del fatto.
Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso il AVV_NOTAIO generale della Repubblica presso la Corte di appello di Venezia e, per l’imputato COGNOME, il suo difensore, AVV_NOTAIO.
2.1. Il AVV_NOTAIO generale deduce, con l’unico motivo, il vizio di motivazione limitatamente alla derubricazione della condotta contestata al capo B, per l’avvenuta esclusione della ipotesi dell’attentato alla “vita”, oltre che all “incolumità”, delle persone.
Si era infatti accertato che gli ordigni, abilmente confezionati, erano oggettivamente pericolosi e che l’intera operazione era stata congegnata in modo da attirare il personale delle forze dell’ordine sul posto, perché cadesse nel tranello predisposto, determinando così, a distanza ravvicinata, lo scoppio del secondo ordigno.
Ed era in relazione a tale secondo momento che doveva ritenersi sussistente l’attentato alla vita delle persone, posto che la pentola in questione conteneva oltre un chilo di polvere pirica, un artificio pirotecnico, un innesco ed un elevato numero di chiodi.
Doveva poi considerarsi che si era contestato un delitto di attentato, che anticipa la rilevanza penale della condotta anche rispetto al tentativo, incidendo pertanto sulla valutazione della idoneità ed univocità degli atti, rispetto all’intento perseguito dal suo autore.
Reso, quest’ultimo, evidente, in concreto, dagli scritti pubblicati attribuibili allo stesso imputato. In quello del 13 giugno 2018, si era affermato, infatti, che “uccidere” non era “bello” ma “lo fai come mezzo della tua liberazione senza ipocrisie”.
Pensiero che l’imputato aveva ribadito nelle spontanee dichiarazioni rese nel presente processo ove, pur non ammettendo la propria responsabilità nell’attentato, aveva solidarizzato con “la lotta anarchica contro il capitale e lo Stato razzista” ed aveva giustificato la violenza se rivolta a particolari obiettivi e proprio nei confronti di “politici, sbirri e loro tirapiedi” (destinatari, i secondi, dell’attentato presso la sede della RAGIONE_SOCIALE).
La Corte d’appello, poi, aveva dubitato della potenzialità offensiva del secondo ordigno, omettendo però di considerare che la perizia aveva accertato come la sua esplosione avrebbe generato temperature di 1.000 gradi, seppure per poche frazioni di secondo, e si sarebbe propagata entro un raggio di 4 metri, tale da comprendere anche la zona di innesco (ove era collocato il filo che l’avrebbe attivata); scagliando, altresì, intorno a sé i 5.000 chiodi che conteneva, che ne avrebbero aumentato la potenzialità lesiva.
Non vi era poi alcuna prova che l’attentatore avesse, in ipotesi, compiuto precedenti esprimenti per constatare la pericolosità dello scoppio, accertandosi così del fatto che l’ordigno avrebbe potuto procurare solo delle lesioni, escludendo la possibilità che ne derivasse la morte.
E comunque doveva ritenersi che il dolo del reato potesse configurarsi, come nel tentativo, anche nella forma alternativa (e, quindi, anche ponendo in pericolo, non la sola “incolumità” delle persone ma anche la loro “vita”).
2.2. L’AVV_NOTAIO, per l’imputato, deduce, con l’unico, complesso motivo, il vizio di motivazione per essere la stessa – in ordine alla ritenuta responsabilità penale dell’imputato per i delitti ascrittigli – assente, illogic e contraddittoria.
Quanto all’assenza di motivazione, la Corte aveva omesso di considerare le articolate deduzione difensive contenute nell’atto di appello.
Si era, in tale sede, osservato, infatti, che i periti avevano, ciascuno, ricondotto il mancato scoppio dell’ordigno al primo esperimento a diverse possibili ipotesi, così però non riuscendo a congruamente giustificarlo.
Del resto, l’ordigno stesso era stato disinnescato sul posto dagli artificieri e, quindi, sottoposto a determinanti modifiche.
Così da non potersi più concretamente accertare la sua potenziale offensività. E da imporre di ritenere l’ipotesi del reato impossibile (anche considerando che minime variazioni del medesimo ne avrebbero potuto impedire l’esplosione).
La motivazione della Corte era poi contraddittoria laddove aveva, prima, constatato che la riproduzione dell’ordigno non esploso era avvenuta ad opera di esperti del ramo per, poi, affermare che solo le ulteriori riproduzioni erano state compiute senza gli errori commessi nella prima.
La motivazione della Corte era anche illogica laddove, sempre al fine di argomentare l’irrilevanza dell’esito negativo del primo esperimento sull’ordigno, si era ipotizzata una maggiore professionalità nel confezionarlo dell’attentatore rispetto a quella del perito che l’aveva replicato.
Non considerando neppure le critiche mosse dal consulente di parte in ordine alla costruzione della parte elettrica del congegno.
Lo stesso perito, poi, aveva osservato come scarsa fosse la qualità dell’esplosivo, di origine artigianale, come la densità di caricamento fosse ridotta, come l’innesco fosse debole e come la catena incendiaria mal progettata.
Né potevano trarsi argomenti se non congetturali dallo scoppio del primo ordigno. Risultato essere di ben minore complessità.
Il AVV_NOTAIO generale della Repubblica presso questa Corte, nella persona del sostituto NOME COGNOME, ha concluso per l’inammissibilità di entrambi i ricorsi.
Il difensore ha inviato memoria con la quale ha invocato (non avendo allegato al ricorso il mandato ivi previsto per l’imputato assente) l’inapplicabilità del disposto dell’art. 581, comma 1 quater, al giudizio in cassazione e, comunque, al caso di specie, ampiamente argomentando (dando conto delle diverse interpretazioni rinvenibili nella giurisprudenza di questa Corte) e sollevando anche un’eventuale eccezione di illegittimità della norma.
Il difensore della parte civile RAGIONE_SOCIALE inviava memoria con la quale concludeva per l’accoglimento del ricorso della pubblica accusa e l’inammissibilità dei motivi di ricorso dedotti dall’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi promossi dalla pubblica accusa e dal difensore dell’imputato sono, entrambi, manifestamente infondati.
Al capo B della rubrica (l’imputato, già in prime cure, era stato assolto dalla condotta contestata al capo A, ai sensi dell’art. 285 cod. pen., per avere commesso, collocando i due ordigni di cui si è detto, un fatto diretto a procurare
una “strage”) è contestato al COGNOME il delitto di cui all’art. 280 cod. pen., che, sotto la rubrica “Attentato per finalità terroristiche o di eversione”, punisce:
“Chiunque per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico attenta alla vita od alla incolumità di una persona, è punito, nel primo caso, con la reclusione non inferiore ad anni venti e, nel secondo caso, con la reclusione non inferiore ad anni sei.”
Lo stesso articolo prevede, nei commi successivi, le circostanze aggravanti derivanti dal fatto che all’attentato conseguano lesioni personali o la morte delle vittime; o che lo stesso sia rivolto contro persone che esercitano funzioni giudiziarie o penitenziarie ovvero di sicurezza pubblica nell’esercizio o a causa delle loro funzioni (quest’ultima aggravante contestata e ricorrente nell’odierno caso concreto).
Era anche contestata all’imputato, sempre al capo B, la condotta punita dall’art. 280 bis cod. pen., per avere compiuto atti diretti – consistiti sempre nel collocamento degli ordigni – a danneggiare cose mobili o immobili altrui e, al capo C, la fabbricazione ed il porto in luogo pubblico degli stessi, due contestazioni che altro non erano che l’ulteriore conseguenza della condotta contestata al COGNOME al capo B ai sensi dell’art. 280 cod. pen.
Più in generale, in ordine al delitto di cui all’art. 280 cod. pen., questa Corte, ha già avuto modo di precisare quanto appresso.
In riferimento all’elemento oggettivo del reato – l’attentato alla vita o alla incolumità delle persone per finalità di terrorismo o di eversione dell’io l di e democratico – si è affermato, pur con risalente pronuncia, che, in tema di attentato punito ai sensi dell’art. 280 cod. pen. (il cui primo comma, di cui si discute, è stato aggiunto dalla legge 6 febbraio 1980 n. 15, non subendo poi ulteriori modifiche), caratterizzandosi la detta figura di reato essenzialmente per la presenza delle summenzionate finalità, e non per le caratteristiche obiettive delle condotte in cui essa può estrinsecarsi (le quali non si differenziano apprezzabilmente, nella previsione normativa, da quelle che, altrimenti, renderebbero configurabili altre e più comuni ipotesi di reato, quali le lesioni volontarie o l’omicidio, tentati o consumati), ne deriva che, al pari di quanto si verifica con riguardo alle comuni figure di delitto tentato, anche nel delitto di attentato, deve verificarsi che gli att commessi siano tali da dimostrarsi, in linea di fatto, come idonei ed inequivocabilmente diretti alla messa in pericolo della vita e della incolumità delle persone (Sez. 1, n. 11344 del 10/05/1993, COGNOME, Rv. 195756).
Del resto, la stessa lettera della norma chiarisce come sia punibile chi “attenti” – espressione che richiama il concetto di “messa in pericolo” – all’incolumità o alla vita altrui, ponendole in concreto, e non solo in astratto, pericolo, condotta che
finisce per essere connotata (così distinguendosi, come aveva precisato la citata sentenza, da reati comuni quali le tentate lesioni personali o il tentato omicidio; eventi, le lesioni personali e l’omicidio, che, appunto, nell’art. 280 costituiscono solo una ragione di aggravamento della pena) dalle finalità perseguite (che ne giustificano l’autonomia normativa), di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico.
Diversamente, poi, dal reato di strage, in cui il pericolo concreto deve riguardare un numero tendenzialmente indiscriminato di persone (e che, per tal ragione, non è stato ritenuto sussistere nel caso di specie neppure dalla Corte di assise di prime cure), si è, invece, puntualizzato come, per l’integrazione del delitto di cui all’art. 280 cod. pen., sia necessario, ma anche sufficiente, il compimento, per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, di atti diretti in modo non equivoco a provocare morte o lesioni in danno anche di una sola persona, essendo l’incolumità e la vita del singolo individuo beni giuridici primari ed essenziali per lo Stato-istituzione (Sez. 6, n. 34782 del 30/04/2015, Gai, Rv. 264417).
Così da configurarsi, il delitto contestato nell’odierno caso di specie anche in riferimento al solo individuo che avrebbe innescato il secondo ordigno (il primo era stato fatto esplodere in un momento in cui i locali erano deserti), inciampando sul filo ad esso collegato.
In riferimento all’elemento soggettivo del reato, questa Corte aveva precisato quanto segue.
In ordine al requisito della idoneità ed alla univocità degli atti – riguardato sul versante psicologico e volitivo – si è detto che, per integrare il delitto di attentato per finalità terroristiche o eversive di cui all’art. 280 cod. pen., non è sufficiente la sola rappresentazione ed accettazione del rischio dell’evento lesivo, ma è necessario che la condotta dell’agente sia diretta a ledere la vita o l’incolumità di una persona, quali beni protetti dalla norma (Sez. 1, n. 47479 del 16/07/2015, COGNOME, Rv. NUMERO_DOCUMENTO).
Quanto ai fini – di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico perseguiti, si è precisato che, per la configurabilità del delitto di attentato per finalità terroristiche o di eversione, ex art. 280 cod. pen., è necessario che la condotta di chi attenta alla vita o alla incolumità di una persona, finalizzata al terrorismo secondo le definizioni di cui all’art. 270 sexies cod. pen., possa, per natura o contesto, arrecare grave danno al Paese ovvero che la stessa, tenuto conto del contesto oggettivo e soggettivo in cui si inserisce, sia volta alla sostanziale deviazione dai principi che regolano l’essenza della vita democratica (Sez. 6, n. 34782 del 30/04/2015, Gai, Rv. 264418).
Requisito – quello relativo al fine perseguito – che l’imputato non ha contestato, risultando, del resto, evidente sia dalla collocazione degli ordigni, sia dagli scritti di rivendicazione, esplicitamente rivolti contro le autorità politiche ( diretto bersaglio, il partito della RAGIONE_SOCIALE, faceva parte, nell’agosto 2018, della maggioranza di governo) e gli uomini delle forze dell’ordine.
Quanto, infine, alle caratteristiche del dolo, si è precisato che, per il delitto di attentato per finalità terroristiche o eversive di cui all’art. 280 cod. pen., è sufficiente il dolo diretto, ossia che la condotta dell’agente sia intenzionalmente diretta a ledere la vita o l’incolumità di una o più persone, quali beni protetti dalla norma, non essendo, invece, necessario il dolo intenzionale, rappresentato dalla specifica finalità di uccidere o ledere, quale perseguimento dell’evento come scopo finale dell’azione (Sez. 1, n. 25158 del 03/02/2022, A., Rv. 283477).
Precisazione che trova logico supporto nella ricordata struttura del reato, che prevede come le lesioni e la morte che dall’attentato eventualmente derivino sono contemplate solo come aggravanti del reato, già altrimenti perfezionatosi.
Peraltro, come si è visto, collegando l’evento lesivo – le lesioni o la morte all’attentato stesso in base al solo nesso di causalità “se dall’attentato alla incolumità di una persona deriva una lesione gravissima, si applica la pena .. ; se ne deriva una lesione grave, si applica la pena.. ; se dai fatti di cui ai commi precedenti deriva la morte della persona si applicano nel caso di attentato alla vita, l’ergastolo e, nel caso di attentato alla incolumità, la reclusione .. così che l’elemento soggettivo – rispetto a tali ulteriori eventi – deve essere individuato non nel dolo diretto (che deve sorreggere solo il concreto pericolo arrecato alla incolumità ed alla vita delle persone) ma nella prevedibilità dei menzionati eventi (non diversamente, ad esempio, dell’evento morte rispetto ai delitti di cui agli artt. 584 cod. pen., l’omicidio preterintenzionale, e 586 cod. pen., la morte come conseguenza di altro delitto).
Evento lesivo comunque non verificatosi nell’odierno caso concreto, avendo sventato, gli uomini delle forze dell’ordine che avevano rinvenuto il secondo ordigno senza farlo esplodere, nonostante fosse mancata ogni indicazione della presenza dello stesso nella immediata rivendicazione dello scoppio del primo.
Così inquadrato il (principale) delitto contestato al NOME, devono ora affrontarsi le più specifiche censure, proposte nel ricorso, in ordine alla sua responsabilità.
Censure che s’incentrano, in buona sostanza, sull’assunta inidoneità allo scoppio del secondo ordigno, inidoneità che sarebbe stata svelata nel primo esperimento peritale nel corso del quale, ricostruito il congegno, non ne era seguito lo scoppio.
Sul punto, però – e si tratta di una questione in fatto – la Corte di assise di appello aveva congruamente motivato.
Si deve, infatti, considerare che la difesa aveva, innanzitutto, dedotto la configurabilità dell’ipotesi prevista dall’art. 49, comma 2, cod. pen., il reato impossibile.
Ipotesi che, secondo il costante orientamento ermeneutico di questa Corte, ricorre soltanto quando l’inidoneità dell’azione – da valutarsi con riferimento al tempo del commesso reato in base al criterio di accertamento della prognosi postuma – deve essere assoluta, nel senso che la condotta dell’agente deve essere priva di astratta determinabilità causale nella produzione dell’evento, per inefficienza strutturale o strumentale del mezzo usato, indipendentemente da cause estranee o estrinseche, ancorché riferibili all’agente (da ultimo Sez. 1, n. 870 del 17/10/2019, dep. 13/01/2020, Mazzarella Rv. 278085).
E’, allora, del tutto evidente come un ordigno che, pur ricostruito dopo il suo necessario disinnesco nell’immediatezza, da esperti del settore, che, su tre tentativi, esploda in due occasioni, e proprio nelle seconda e nella terza, quando lo stesso era stato ancor più attentamente (visto il primo esperimento fallito) ricostruito, non possa essere considerato inidoneo allo scoppio (ipotesi che avrebbe potuto al più prospettarsi solo se tutti gli esperimenti fossero falliti).
Del resto, lo stesso suo costruttore aveva inserito un interruttore di sicurezza per poterlo maneggiare senza pericolo, così dimostrando di essere pienamente consapevole della sua potenzialità offensiva.
Quanto, poi, alla sua efficacia, i risultati del secondo e del terzo esperimento l’avevano attestata senza margini di dubbio, avendo cagionato, in entrambi i casi, una deflagrazione potenzialmente lesiva della incolumità delle persone che si fossero trovate entri i quattro metri di distanza dallo scoppio.
A tale ultimo proposito e venendo così all’esame della censura proposta dal AVV_NOTAIO generale in ordine alla esclusione dell’ipotesi dell’attentato alla “vita” delle persone, occorre, innanzitutto, ricordare le conclusioni peritali sulla potenzialità offensiva del secondo ordigno.
Il perito, colonnello COGNOME, aveva ricordato la Corte d’appello, aveva, innanzitutto, osservato come la materia esplodente fosse di qualità scadente e di origine artigianale, come la densità di caricamento fosse ridotta e come l’innesco (la capacità di proiettare all’esterno della pentola di chiodi) fosse debole, visto che la pentola, dopo lo scoppio dell’ordigno in essa contenuto, era rimasta in posizione verticale nel medesimo punto in cui era stata appoggiata, senza subire frammentazioni e che il coperchio della pentola aveva fatto scudo, contenendo la
proiezione dei chiodi che proiettati contro lo stesso (non essendosi la pentola rotta) erano ricaduti a terra.
Così da indurre il perito a concludere, sulla base degli esperimenti fatti, che lo scoppio del congegno avrebbe potuto comportare un pericolo per la vita solo per chi si fosse trovato a stretto contatto del medesimo, mentre, nel raggio di quattro metri avrebbe potuto costituire un pericolo per la sola incolumità delle persone, determinando loro delle mere lesioni.
Si doveva poi ricordare come l’ordigno fosse stato collocato sotto la scala antincendio mentre il filo, che l’avrebbe innescato, era stato posto sulla rampa della stessa, ma oltre la seconda metà all’altezza dell’ottavo/nono gradino, così da porsi ad una certa distanza dalla zona dello scoppio e da frapporre fra esso e la potenziale vittima la struttura stessa della scala, tanto da doversi concludere che, al più, nel raggio del pericolo accertato (di quattro metri), potevano rientrare i soli arti inferiori della vittima.
Così che il percorso argomentativo seguito dalla corte d’appello per escludere il pericolo per la “vita”, riconoscendo soltanto quello per l’ “incolumità” delle persone, risulta scevro da manifeste aporie logiche.
Quanto poi alle intenzioni manifestate dall’imputato nei suoi scritti – e riportate nel ricorso della pubblica accusa per dimostrare l’intenzione dell’imputato di attentare alla vita degli uomini delle forze dell’ordine – oltre alla considerazione, della Corte d’appello, circa la necessaria prova che dall’intenzione si intenda realmente passare all’atto, resta la inidoneità oggettiva dell’ordigno – per come era stato collocato e per come era previsto il suo innesco – a costituire un concreto pericolo di causazione dell’evento più grave, così dovendosene, escludere, come aveva concluso la Corte territoriale, la ricorrenza.
Tornando al ricorso dell’imputato, si osserva come, alle ragioni di inammissibilità del ricorso dell’imputato, si aggiunge anche l’ulteriore motivo derivante dalla disciplina prevista, anche per il ricorso in cassazione, dall’art. 581, comma 1 quater, del codice di rito, pur oggetto della memoria del medesimo.
Si è infatti ormai consolidata la giurisprudenza di questa Corte circa l’applicabilità di tali disposizioni – il deposito, con l’atto di impugnazione della dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato e, nel caso di assenza nel precedente grado di giudizio, del mandato al difensore rilasciato in epoca successiva alla pronuncia da impugnare – secondo cui gli oneri previsti nella citata norma si applicano anche al giudizio di cassazione, quantomeno in riferimento al mandato ad impugnare (non essendo prevista, nella fase di legittimità, alcuna citazione dell’imputato; si veda Sez. 2, n. 47927 del 20/10/2023, COGNOME, Rv. 285525; Sez. 2, n. 47327 del 03/11/2023, NOME, Rv. 285444), senza che ciò
legittimi dubbi di costituzionalità della norma (vedi, per tutte, la pronuncia da ultimo citata).
Né le precedenti (alla presentazione dell’impugnazione) pronunce di questa Corte, citate in ricorso, possono avere indotto in errore il difensore del ricorrente in ordine alla applicabilità della norma in oggetto alla fase di legittimità, riguardando tutte diversi tipi di procedimento, il processo esecutivo la sentenza Sez. 1, n. 43523 del 28/06/2023, Cop, Rv. 285396, il processo cautelare le sentenze Sez. 4, n. 22140 del 03/05/2023, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 284645 e Sez. 1, n. 29321 del 07/06/2023, COGNOME, Rv. 284996.
Su queste, pertanto, il difensore non avrebbe potuto fare l’affidamento che rivendica.
All’inammissibilità del ricorso dell’imputato segue la condanna del medesimo al pagamento delle spese processuali e versando lo stesso in colpa anche al pagamento di euro 3.000 alla Cassa delle ammende, e la condanna del predetto alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile che si liquidano nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi del P.g. e di COGNOME NOME NOME e condanna quest’ultimo al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi euro 5.500,00, oltre accessori di legge.
Così deciso, in Roma il 26 gennaio 2024.