Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 20996 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 20996 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 28/05/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
1.COGNOME nato a NAPOLI il 10/08/1976
2.NOME nato a BARI il 10/05/1982
avverso la sentenza del 31/01/2025 della CORTE APPELLO di BARI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Bari, con sentenza del 31 gennaio 2025, confermava la sentenza di primo grado con la quale NOME COGNOME e NOME COGNOME erano stati condannati per il reato di estorsione aggravata.
Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il difensore di COGNOME eccependo:
2.1. illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta attendibilità della persona offesa: la Corte di appello avrebbe dovuto focalizzare la propria analisi preliminare sulla credibilità soggettiva della persona offesa, fortemente
compromessa dalla acquisizione di una ordinanza di custodia cautelare a suo carico, e verificare la compatibilità tra il narrato della stessa e gli altri elementi probatori acquisiti; in particolare, il fatto che la persona offesa COGNOME fosse chiamata a rispondere, nella sua qualità di promotore, di un reato associativo, lo collocava in una dimensione di illiceità che non poteva certo attribuire una patente di verità a tutto ciò che affermava, soprattutto alla luce delle numerose anomalie presenti nella sua denuncia;
2.2. inosservanza dell’art. 629 cod. pen. con riferimento alla qualità del danno e dell’ingiusto profitto: considerata la provenienza illecita del denaro chiesto alla persona offesa, ci si doveva chiedere se l’atto di disposizione estorto fosse meritevole di tutela, trattandosi di somme transitate contra legem dalla sua sfera giuridica soggettiva, e se la persona offesa avesse effettivamente subìto un danno; il fatto poi che la persona offesa non avesse disconosciuto il suo debito, poteva comportare che la fattispecie andasse inquadrata in quella prevista dall’art. 612 cod. pen.;
2.3. erronea applicazione dell’art. 69 cod. pen. e motivazione contraddittoria con riferimento al giudizio di bilanciamento delle circostanze ritenute equivalenti alle aggravanti, nonostante la non applicazione della recidiva.
Propone ricorso il difensore di NOME COGNOME eccependo:
3.1. illogicità della motivazione per quanto riguardava la ritenuta attendibilità della persona offesa: la Corte di appello avrebbe dovuto cercare riscontri a quanto dichiarato da COGNOME e ciò era ancora più grave nel caso di Partipilo, poiché la persona offesa aveva riferito che quest’ultimo era lontano dal luogo in cui si era consumata l’eventuale estorsione, circostanza confermata anche dai militari intervenuti; la teste NOME, segretaria della persona offesa, aveva riferito come all’interno degli uffici ci fosse il solo COGNOME mentre nulla aveva dichiarato circa il Partipilo, che verosimilmente era rimasto all’esterno, per cui gli erano rimaste estranee le motivazioni per le quali COGNOME aveva incontrato COGNOME;
3.2. inosservanza dell’art. 110 cod. pen. per quanto atteneva alle autonome specifiche condotte dei singoli;
3.3. erronea applicazione dell’art. 69 cod. pen. e motivazione contraddittoria con riferimento al bilanciamento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle contestate circostanze aggravanti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono entrambi inammissibili.
1.1. Relativamente al primo motivo proposto da entrambi i ricorrenti, si deve rilevare che riguardo alla valutazione delle dichiarazioni della persona offesa, il Collegio condivide la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di responsabilità, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che in tal caso deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone.
Peraltro, questa Corte, anche quando prende in considerazione la possibilità di valutare l’attendibilità estrinseca della testimonianza dell’offeso attraverso la individuazione di precisi riscontri, si esprime in termini di “opportunità” e non di “necessità”, lasciando al giudice di merito un ampio margine di apprezzamento circa le modalità di controllo della attendibilità nel caso concreto; inoltre, costituisce principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione secondo la quale la valutazione della attendibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni ( ex plurimis , Sez. 6, n. 27322 del 14/04/2008, De Ritis, Rv. 240524-01; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, COGNOME, Rv. 239342-01; Sez. 6, n. 443 del 04/11/2004, dep. 2005, COGNOME, Rv. 230899-01; Sez. 3, n. 3348 del 13/11/2003, dep. 2004, COGNOME, Rv. 227493-01).
Contraddizioni che non si rinvengono nel caso in esame, nel quale la Corte di appello ha fornito congrua motivazione della attendibilità del racconto della persona offesa, come già aveva fatto il giudice di primo grado; sul punto, si deve rilevare come, nella fattispecie, si sia al cospetto di una c.d. “doppia conforme” e cioè una doppia pronuncia di eguale segno per cui il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della motivazione del provvedimento di secondo grado; il vizio di motivazione può infatti essere fatto valere solo nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione ha riformato quella di primo grado nei punti che in questa sede ci occupano, non potendo, nel caso di c.d. “doppia conforme”, superarsi il limite del devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alle critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (cfr., Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, COGNOME Rv. 243636-01; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, COGNOME, Rv. 237207-01; Sez. 2, n. 5223 del
24/01/2007, Medina, Rv. 236130-01; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258432-01).
Fermo quanto precede, va evidenziato come la Corte di appello abbia riconosciuto che la versione dei fatti di COGNOME è stata riscontrata sia dalla conversazione avuta con COGNOME NOME (soggetto che i ricorrenti avevano affermato essere il loro mandante per riscuotere un credito da questi vantato) che dal contenuto del Dvd consegnato da COGNOME, in cui erano riportate le conversazioni dalle quali emergevano le minacce poste in essere (pag. 8) e le richieste di incontro, sottolineando poi come i ricorrenti si fossero recati presso l’ufficio della persona offesa e lo avessero raggiunto anche davanti alla caserma dei Carabinieri.
1.2. Quanto alla posizione di COGNOME, la Corte di appello ha osservato che lo stesso non aveva soltanto fornito passaggi a Zazzera in tutti gli incontri tra quest’ultimo e la persona offesa, ma era stato indicato da COGNOME come autore di minacce anch’egl i, oltre al fatto che era presente al momento della corresponsione della somma di 2.000,00 euro da COGNOME a Zazzera, anche se era rimasto all’interno del l ‘autovettura; la Corte di appello ha anche ritenuto irrilevante l’emissione di una misura custodial e a carico di COGNOME in quanto relativa a fatti differenti a quelli del presente procedimento, semmai confermativi della disponibilità di denaro in capo ad COGNOME che giustificavano una richiesta estorsiva.
1.3. Del tutto generica è l’eccezione sulla mancanza di un profitto tutelabile, basato sulla considerazione che il denaro di COGNOME fosse di provenienza illecita, circostanza sulla quale non vi è stato alcun accertamento; comunque, come osservato dal procuratore generale nella sua requisitoria, il motivo parte dalla inaccettabile premessa secondo cui il reato in esame appresterebbe tutela solo alle persone che dimostrino di aver lecitamente acquisito il proprio patrimonio.
Invero, si è affermato in giurisprudenza che, nel reato di estorsione, l’oggetto della tutela giuridica è costituito dal duplice interesse pubblico della inviolabilità del patrimonio e della libertà personale: pertanto, ai fini della configurabilità del reato, è del tutto irrilevante che il patrimonio della vittima sia costituito anche da proventi di attività illecite (cfr., Sez. 3, n. 27257 del 11/05/2007, Prifti, Rv. 237211).
Neppure può essere accolta l’eccezione (secondo motivo proposto nell’interesse di COGNOME) secondo la quale il non aver disconosciuto il debito porterebbe alla insussistenza del requisito di ingiustizia del profitto e quindi alla configurabilità del reato di cui all’art. 612 cod. pen.: pretendere con minaccia un pagamento asseritamente dovuto (o comunque, non contestato) integra in ogni caso l’ingiustizia del profitto ai fini della configurabilità del reato di estorsione.
1.4. Quanto al terzo motivo proposto da entrambi i ricorrenti, si deve ribadire che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti sono censurabili in cassazione soltanto nelle ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico, essendo sufficiente a giustificare la soluzione della equivalenza aver ritenuto detta soluzione la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (cfr., Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017, COGNOME, Rv. 270450-01); nel caso in esame, vi è congrua motivazione a pag. 20 della sentenza impugnata.
Per le considerazioni esposte, dunque, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili . Ai sensi dell’art. 616 c od. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, le parti private che lo hanno proposto devono essere condannate al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di € 3.000,00, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 28/05/2025