Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 1938 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 1938 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 27/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a PALERMO il 08/08/1963
avverso la sentenza del 12/03/2024 della CORTE RAGIONE_SOCIALE APPELLO di MESSINA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo
Fl-PC-c-efteleele-ellfeekTtele il rigetto di entrambi i ricorsi.
udito il difensore
L’avvocato NOME COGNOME NOME del foro di VIBO VALENTIA, sostituto processuale come da nomina depositata in udienza, dell’Avv. COGNOME del foro di COGNOME in difesa di COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME NOME conclude riportandosi alle conclusioni scritte.
L’avvocato COGNOME del foro di ROMA in difesa di VIRGA NOME conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso.
L’avvocato NOME COGNOME del foro di MESSINA in difesa di COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe la Corte di assise di appello di Messina ha confermato la sentenza in data 13 febbraio 2023 della Corte di assise di Messina, che dichiarava NOME COGNOME responsabile, in qualità di mandante, dell’omicidio, aggravato dalla premeditazione e ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen., di NOME COGNOME attinto da diversi colpi di arma da fuoco in più parti del corpo, nonché colpito al volto con una pietra, in INDIRIZZO del comune di Acquedolci (ME) il 29 settembre 2001, e lo condannava alla pena dell’ergastolo, oltre che alle pene accessorie e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite.
Avverso la suddetta sentenza propone ricorso per cassazione NOME COGNOME tramite due distinti atti, rispettivamente a firma dell’avv. NOME COGNOME e dell’avv. NOME COGNOME.
2.1. Il ricorso dell’avv. COGNOME si articola in quattro motivi.
2.1.1. Con il primo motivo la difesa deduce violazione degli artt. 125, 192, 210 e 546 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 575 e 577 cod. pen. e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME.
Si duole il difensore che il percorso argomentativo a sostegno della decisione adottata tradisca un palese malgoverno delle regole di valutazione della prova dichiarativa, al pari della sentenza di primo grado, le cui argomentazioni al riguardo sono state acriticamente recepite, in assenza di adeguato confronto con le censure sviluppate nell’atto di appello.
Evidenzia che erroneamente si sostiene l’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni di COGNOME, che, invece, sembrano essere frutto di una sospetta operazione di correzione e allineamento.
Rileva che numerose sono le incertezze e/o contraddizioni di dette dichiarazioni in relazione alla riunione prodromica all’omicidio, tenuta, sul finire dell’estate 2001, per valutare le condotte realizzate da NOME COGNOME, soggetto contiguo alle famiglie mafiose capeggiate da NOME COGNOME e NOME COGNOME, entrambe attive nei comuni posti al confine tra la provincia messinese e quella palermitana, il quale, secondo lo stesso collaboratore, avrebbe compiuto a titolo autonomo richieste estorsive a danno di ditte impegnate nei lavori per la
realizzazione dell’autostrada di collegamento di Messina a Palermo o comunque avrebbe trattenuto per sé i proventi delle stesse.
Osserva il difensore che le prime incertezze mostrate dal collaboratore sono sui partecipi a detta riunione, avendo, invero, lo stesso indicato nei verbali di interrogatorio dell’i e del 9 luglio 2020, oltre che in altre due dichiarazioni, come presente NOME COGNOME che, invece, dalle dichiarazioni del teste di NOME.g. COGNOME è risultato detenuto ininterrottamente da aprile 1999 ad aprile 2019; e avendo, solo dopo quattro ore dall’inizio dell’interrogatorio dell’i luglio, inserito tra i presenti NOME COGNOME ricordando che c’era un NOME (e trascurando che NOME era anche COGNOME).
Rileva che all’udienza del 12 gennaio 2022 il collaboratore, dopo avere descritto la fase esecutiva del delitto, ammettendovi la propria partecipazione, e le ragioni dell’omicidio nei termini di cui sopra, ha specificato che a tale riunione partecipavano egli stesso, in qualità di rappresentante del gruppo dei Batanesi, nonché NOME COGNOME appartenente al mandamento di Mistretta, NOME COGNOME, esponente apicale del mandamento di San Mauro Castelverde, non conosciuto dal dichiarante e presentatogli in quell’incontro, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Lamenta il suddetto difensore che le rettifiche operate dal collaboratore in dibattimento avrebbero necessitato di un adeguato approfondimento e che, invece, erroneamente i Giudici di merito hanno finito per attribuire efficacia sanante delle dichiarazioni incerte di COGNOME sulla presenza di COGNOME alle dichiarazioni di COGNOME che si è limitato a confermare tale presenza, dicendo di essersi, però, allontanato prima del conferimento del mandato omicidiario che COGNOME attribuisce a COGNOME e COGNOME, i quali, dopo l’allontanamento di COGNOME, gli avrebbero ordinato di uccidere quest’ultimo. Secondo la difesa la Corte territoriale omette di considerare che l’unico riscontro alle dichiarazioni accusatorie di COGNOME nei confronti di COGNOME poteva provenire da COGNOME e non da COGNOME che si è limitato a confermare la presenza di COGNOME.
Rileva l’avv. COGNOME che erroneamente i Giudici di merito hanno ritenuto legittimo utilizzare la frazione dichiarativa che riguarda l’accusa mossa da COGNOME all’odierno ricorrente, senza considerarne le criticità tali da impedire il positivo vaglio preliminare di attendibilità, già evidenziate o ulteriori (come ad esempio il fatto che nel verbale dell’i
luglio 2020 il collaboratore dichiarava di avere confessato a COGNOME l’esecuzione dell’omicidio, mentre in dibattimento, dopo avere definito la propria posizione col giudizio abbreviato e preso atto delle dichiarazioni di COGNOME, che sul punto non aveva confermato, ha detto di non avere mai parlato con alcuno dell’esecuzione dell’omicidio). E senza considerare che il mendacio commesso da COGNOME in relazione all’individuazione del complice materiale dell’omicidio in NOME COGNOME, nelle more deceduto, anziché in quello effettivo, NOME COGNOME inteso COGNOME (come da dichiarazioni concordanti di altri collaboratori), fosse relativo ad una parte rilevante del suo narrato e tale da inficiare l’attendibilità soggettiva del dichiarante.
2.1.2. Col secondo motivo dell’atto a firma del suddetto avvocato si denuncia violazione dei summenzionati articoli e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME e NOME COGNOME e alla loro convergenza sul nucleo fondamentale dell’imputazione.
Si duole il difensore che il ragionamento dei Giudici di merito non sia coerente con i principi che sovrintendono alla c.d. convergenza del molteplice, ma tenti di recuperare la chiamata in correità di COGNOME, intrinsecamente inattendibile, attraverso le suddette dichiarazioni individuate come riscontri individualizzanti, sovrapponendo il vaglio dell’attendibilità intrinseca con quello dell’attendibilità estrinseca.
Lamenta che l’affidabilità di NOME COGNOME nei cui confronti risulta essere stato revocato il programma di protezione, per avere realizzato estorsioni durante lo stesso e avere rilasciato false dichiarazioni finalizzate alla rivisitazione di una sentenza di condanna nei confronti di tale NOME COGNOME non è stata approfondita.
Rileva che COGNOME non ha riferito di avere convocato alla riunione COGNOME, smentendo quest’ultimo su tale punto, e che, solo su sollecitazione del P.m., ha ricordato la presenza di COGNOME a detta riunione. E inoltre che entrambi i collaboratori, pur menzionando i soggetti ai quali si accompagnavano e chi accompagnava COGNOME, non hanno specificato con chi fosse giunto al casolare COGNOME.
Osserva il difensore che non solo COGNOME ha riferito di essersi allontanato dal casolare prima della deliberazione di uccidere NOME e che, comunque, lo stesso nella fase delle indagini riferiva che COGNOME gli aveva detto che se la sarebbe vista lui con NOME, dopo le giustificazioni rese da quest’ultimo.
Sottolinea, quindi, che l’unica fonte dichiarativa che ha individuato la presenza di COGNOME al momento della deliberazione omicidiaria è quella inattendibile, per quanto evidenziato, di COGNOME; e che sorprendentemente la Corte territoriale motiva ritenendo tale lacuna colmata da un elemento di natura logica, quale il fatto che, a fronte anche del contesto in cui maturava l’omicidio descritto da COGNOME, la decisione omicidiaria non poteva che essere stata presa da entrambi i soggetti rimasti nel casolare con il destinatario dell’incarico e, quindi, da COGNOME e COGNOME.
Con riguardo, poi, a Giuffrè, la difesa osserva che in dibattimento il collaboratore ha riferito della causale dell’omicidio (individuata nel fatto che la vittima avanzava pretese estorsive nei confronti dell’impresa dell’ing. NOME COGNOME, contiguo alla mafia, e che ciò avrebbe infastidito NOME COGNOME, essendosi il suddetto imprenditore impegnato a versare nelle casse della sua consorteria una parte dei profitti della sua impresa) e dell’informazione postuma di avere risolto il problema di NOME fornitagli da NOME mimando, nel corso di un incontro in un casolare, il gesto dell’esplosione del colpo di pistola e facendogli così intuire che NOME era stato ucciso.
Rileva che tale mimica non può considerarsi un adeguato riscontro individualizzante a carico dell’imputato; e che in tal modo viene sacrificato il racconto di COGNOME che ha individuato in COGNOME il soggetto che aveva assunto in modo esclusivo l’impegno di sistemare la cosa.
Osserva che anche NOME COGNOME ha riferito di avere ricevuto la comunicazione da parte di COGNOME che a conferirgli il mandato omicidiario era stato NOME COGNOME; e che a tale riguardo la Corte territoriale, pur riconoscendo la valenza dimostrativa delle dichiarazioni del medesimo in relazione al complice materiale di COGNOME diverso da quello dal medesimo individuato (avendo il collaboratore riferito che, durante la detenzione nel carcere di Piacenza, NOME COGNOME COGNOME gli aveva confidato di avere preso parte all’omicidio di NOME COGNOME; venendo in ciò riscontrato dalle dichiarazioni di NOME COGNOME, anch’esso intraneo al clan dei Batanesi, che ha ricordato di avere appreso, nel corso di un colloquio con altri detenuti e precisamente Galati, COGNOME, COGNOME e COGNOME, di un contributo prestato da NOME COGNOME nell’omicidio di COGNOME), non considera significativa
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l’omessa indicazione da parte di COGNOME di COGNOME come mandante dell’omicidio.
2.1.3 Con il terzo motivo del proprio atto l’avv. COGNOME deduce violazione dei suddetti articoli e vizio di motivazione in relazione all’erronea valutazione della causale come non esclusivamente riconducibile a Rampulla.
Il difensore rileva che anche in ordine alla causale dell’omicidio sussistono discrasie tra i collaboratori.
Invero, secondo il collaboratore COGNOME COGNOME era morto per avere avanzato richieste estorsive a imprese impegnate nei lavori della summenzionata autostrada già sottoposte al pizzo e per essersi appropriato di parte dei profitti estorsivi, per come confidatogli da alcuni imprenditori vicini al suo gruppo criminale e da COGNOME e COGNOME.
Secondo, poi, il collaboratore COGNOME detta causale era piuttosto da individuarsi nel fastidio che NOME dava durante la realizzazione dei lavori alle imprese dell’ing. COGNOME.
COGNOME ha offerto, invece, elementi tali da ritenere unico mandante COGNOME.
Osserva il difensore che in tal senso è stata anche la testimonianza, trascurata dalla Corte territoriale, del Comandante dei carabinieri di Mistretta, NOME COGNOME che ha riferito che dalle intercettazioni disposte per la cattura del latitante NOME COGNOME sull’utenza cellulare di NOME COGNOME, sorella di NOME, emergevano stretti rapporti con i COGNOME di COGNOME, nell’ambito dei quali si manifestò un acceso confronto tra quest’ultimo e NOME, in data 19 febbraio 2001, a partire dal quale COGNOME non volle più incontrare NOME.
2.1.4. Col quarto motivo dell’atto si deduce violazione degli artt. 133 e 62-bis cod. pen. e vizio di motivazione in merito al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
La Corte territoriale avrebbe negato le circostanze attenuanti generiche senza considerare il tempo decorso dalla data di commissione del fatto e il comportamento tenuto da COGNOME quantomeno dal 2012 ad oggi. E non avrebbe valutato che i precedenti penali di cui al certificato del casellario giudiziale debbano ritenersi compensati dal comportamento processuale e comunque di distacco dal contesto associativo in cui maturava l’omicidio oggetto di imputazione a partire da tale data, come dal medesimo imputato riferito nel corso delle sue spontanee dichiarazioni dibattimentali.
2.2. L’atto a firma dell’avv. COGNOME COGNOME si articola in due motivi di impugnazione.
2.2.1. Con il primo motivo si rilevano violazione degli artt. 110 e 575 cod. pen. in relazione all’art. 192 cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
Osserva il difensore che le indagini circa l’omicidio di NOME COGNOME nonostante le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME intervenute rispettivamente nel 2002 e nel 2010, non portavano ad alcun esito e che il procedimento in esame ha tratto origine dalle dichiarazioni collaborative rese da NOME COGNOME a distanza di diciannove anni dal fatto di sangue.
Rileva che, quindi, il tema centrale del presente procedimento è costituito dalla chiamata in correità di COGNOME nei confronti di COGNOME dal suddetto indicato come mandante, in uno con NOME COGNOME, dell’omicidio in esame.
Evidenzia che l’oggettiva falsità delle dichiarazioni di COGNOME relative al concorrente materiale dell’omicidio, indicato in NOME COGNOME (deceduto) e quindi in una persona diversa da quella che effettivamente aveva ucciso COGNOME, NOME COGNOME detto “COGNOME“, avrebbe dovuto portare la Corte territoriale ad escludere la validità della collaborazione; e che non è condivisibile la valutazione dei Giudici di merito sulla credibilità frazionata del collaboratore, avendo, invero, questi mentito su una circostanza rilevante, essendo stato, altresì, accertato che l’autore materiale era presente alla riunione o comunque era nei pressi del casolare in cui detta riunione si teneva.
Osserva che, diversamente da come sostenuto dai Giudici del merito, vi è totale interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti; e che il mendacio del collaboratore è macroscopico e tale da comprometterne la credibilità soggettiva.
Rileva la difesa che si aggiungono ulteriori criticità della chiamata in correità, quali l’iniziale diniego di un proprio coinvolgimento in omicidi, l’indicazione come luogo di riunione di un casolare di Finale e solo successivamente di Tusa (rettifica secondo la difesa dovuta alla contaminazione con le dichiarazioni di COGNOME, conosciute per l’accesso del collaboratore al rito abbreviato), l’individuazione dei soggetti presenti alla riunione, tra i quali inizialmente non era menzionato COGNOME ma COGNOME nonostante fosse detenuto all’epoca del fatto, l’informazione a COGNOME sull’esecuzione dell’omicidio (COGNOME riferisce di avere avvisato COGNOME personalmente, mentre quest’ultimo nega).
Sottolinea, sempre la difesa, che le dichiarazioni di COGNOME, alle quali, peraltro, COGNOME è sospettato di essersi allineato, non fungono da riscontro a quelle di quest’ultimo circa il ruolo di mandante di COGNOME, avendo il primo dichiarato di essersi allontanato prima del conferimento del mandato omicidiario; e che il riscontro logico individuato dalla Corte territoriale nella necessità di un comune accordo tra COGNOME e COGNOME, emergente dallo stesso contesto descritto da COGNOME, non ha valenza individualizzante e sembra essere un elemento congetturale, smentito dallo stesso COGNOME quando riferisce di non avere mai saputo chi prese la decisione dell’omicidio e che COGNOME gli avrebbe detto che di COGNOME se ne sarebbe occupato lui, nonché da NOME COGNOME quando dichiara che COGNOME gli avrebbe indicato solo COGNOME come mandante.
La difesa censura anche la parte motiva in cui vengono individuate quale riscontro alla chiamata in correità di COGNOME le dichiarazioni di COGNOME che, peraltro, in dibattimento, a distanza di venti anni dal fatto, offre, creando non pochi sospetti di inattendibilità, particolari non riferiti precedentemente, come il fatto che nell’incontro con COGNOME aveva mimato il gesto della pistola e una supposta attribuzione a sé del fatto. Rileva a tale riguardo che con l’appello si segnalava che COGNOME poteva avere dei rancori nei confronti del ricorrente.
2.2.2. Con il secondo motivo dell’atto si denunciano violazione degli artt. 577, comma primo, n. 3), 114, 416-bis.1 e 62-bis cod. pen. e vizio di motivazione in ordine al riconoscimento della premeditazione, al diniego dell’attenuante della partecipazione di minima ir,nportanza al fatto, al riconoscimento dell’aggravante mafiosa e al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Quanto al primo profilo, si evidenzia che il rilascio di “delega in bianco” a COGNOME resta asserzione del collaboratore di giustizia mai effettivamente riscontrata, peraltro in contrasto con l’affermazione del collaboratore di non aver mai conosciuto COGNOME prima della riunione a Tusa, tanto da neppure ricordarlo inizialmente. Si rileva, inoltre, che COGNOME non avrebbe partecipato materialmente all’organizzazione e il suo ruolo sarebbe in sé incompatibile con la natura soggettiva di tale aggravante.
Quanto alla partecipazione di minima importanza, si osserva che dalle emergenze processuali la paternità della decisione omicidiaria sembra riconducibile a COGNOME e che la mera presenza di COGNOME al
conferimento del mandato omicidiario non sarebbe sufficiente a delinearne un ruolo di primaria importanza.
Con riferimento, poi, all’aggravante mafiosa, lamenta la difesa che la Corte non ha tenuto conto che dalle dichiarazioni degli altri collaboratori emerga che COGNOME avesse chiesto l’omicidio di NOME a titolo di favore personale, circostanza che, pertanto, escluderebbe detta aggravante.
Infine, la difesa censura il diniego delle circostanze attenuanti generiche, con argomentazioni sovrapponibili a quelle dell’atto dell’avv. COGNOME
Alla luce dei suddetti motivi i difensori di COGNOME insistono per l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
1.1. Infondati sono i primi due motivi di ricorso dell’atto a firma dell’avv. COGNOME e il primo motivo dell’atto sottoscritto dall’avv. COGNOME.
La valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia da parte della sentenza impugnata è, invero, del tutto conforme ai criteri di cui all’art. 192 cod. proc. pen. e all’interpretazione che di essi viene offerta dalla giurisprudenza di questa Corte.
Costituisce principio acquisito di detta giurisprudenza che le propalazioni dei collaboratori di giustizia, oltre a soddisfare i requisiti di credibilità soggettiva e di attendibilità intrinseca propri della prova dichiarativa, devono essere corroborate da riscontri estrinseci di natura individualizzante, capaci di assumere idoneità dimostrativa in ordine alla partecipazione del chiamato ( in reità o correità che sia ) nel fatto-reato, che possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia rappresentativo che logico, a condizione che sia indipendente, e quindi anche dalla convergente propalazione di altro collaborante (Sez. 1, n. 16792 del 9/04/2010, COGNOME, Rv. 246948).
Anche la sentenza delle Sezioni Unite n. 20804 del 29/11/12, dep. 2013, COGNOME ed altri, pur analizzando in modo specifico le problematiche relative alle chiamate in reità o in correità de auditu, sottolinea che «la genericità dell’espressione “altri elementi di prova” utilizzata dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. legittima
l’interpretazione secondo cui, in subiecta materia, vige il principio della “libertà dei riscontri”, nel senso che questi, non essendo predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura, ricomprendere non soltanto le prove storiche dirette, ma ogni altro elemento probatorio, anche indiretto, legittimamente acquisito al processo ed idoneo, anche sul piano della mera consequenzialità logica, a corroborare, nell’ambito di una valutazione probatoria unitaria, il mezzo di prova ritenuto ex lege bisognoso di conferma».
Si osserva, inoltre, che – sempre secondo la giurisprudenza di legittimità – le dichiarazioni accusatorie rese da due collaboranti possono anche riscontrarsi reciprocamente, a condizione che si proceda comunque alla loro valutazione unitamente agli altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, in maniera tale che sia verificata la concordanza sul nucleo essenziale del narrato, rimanendo quindi indifferenti eventuali divergenze o discrasie che investano soltanto elementi circostanziali del fatto, a meno che tali discordanze non siano sintomatiche di una insufficiente attendibilità dei chiamanti stessi (Sez. 1, n. 7643 del 28/11/2014,dep. 2015, COGNOME e altro, Rv. 262309).
Va, infine, evidenziato che: – in tema di valutazione probatoria della chiamata di correo, l’accertata falsità di uno specifico fatto narrato dal dichiarante non impedisce la valorizzazione delle parti ulteriori di un suo racconto più complesso, a condizione che queste siano supportate da precisi riscontri, anche non specifici, ma comunque idonei a compensare il difetto di attendibilità soggettiva (Sez. 1, n. 26966 del 01/12/2022, dep. 2023, Paola, Rv. 284836); – è legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni confessorie, accusatorie da chiamate in correità e testimoniali quando le parti del narrato ritenute veritiere reggano alla verifica giudiziale del riscontro, ove necessaria, e non sussista interferenza fattuale e logica – ossia un rapporto di causalità necessaria o di imprescindibile antecedenza logica – con quelle giudicate inattendibili, tale da minare la credibilità complessiva e la plausibilità dell’intero racconto (Sez. 5, n. 25940 del 30/06/2020, M., Rv. 280103 – 01).
La sentenza impugnata fa corretto uso dei canoni di valutazione della prova appena esaminati e ne dà conto con un solidissimo percorso argomentativo, confrontandosi con tutti i rilievi difensivi riproposti in questa sede.
Con riguardo alla credibilità soggettiva e all’attendibilità intrinseca di NOME COGNOME, detta sentenza ritiene opportuno rilevare
preliminarmente che trattasi di collaboratore che si è accusato dell’omicidio per il quale si discute, in un frangente in cui non risulta sussistessero a suo carico elementi di prova idonei a dimostrarne la responsabilità, e che ciò costituisce serio indice della attendibilità intrinseca del suo narrato, a nulla rilevando il mancato iniziale disvelamento dovuto ad una condizione di profondo turbamento emotivo nella quale era precipitato a seguito della scelta collaborativa assunta. Sottolinea la Corte di assise di appello di Messina come, quindi, non illogiche siano le argomentazioni della prima Corte che evidenziano l’incontestabile circostanza che COGNOME ha amplificato le iniziali propalazioni, confessando anche la propria responsabilità nell’omicidio di NOME, in maniera autonoma, senza possibili spinte o condizionamenti esterni.
Rileva, inoltre, come non significative siano le imprecisioni e discrasie enfatizzate dai difensori di COGNOME a dimostrazione dell’inaffidabilità del collaboratore (sul luogo della riunione prodromica all’omicidio, sulla partecipazione a detta riunione e sull’ora di esecuzione dell’omicidio: si vedano p. 25 – 27 della sentenza impugnata).
In particolare, con riguardo all’individuazione dei partegipi alla riunione – avendo il collaboratore indicato come presente anche NOME COGNOME che all’epoca era detenuto, e solo in un secondo momento (a interrogatorio inoltrato dell’1.7.2020) parlato della presenza di COGNOME – la sentenza in esame evidenzia come il collaboratore abbia chiarito in dibattimento che era presente, in rappresentanza della famiglia di San Mauro Castelverde, solo NOME COGNOME e non anche NOME COGNOME; e come tale spiegazione circa detta presenza, peraltro confermata dall’altro collaboratore COGNOME, sia coerente ed attendibile, considerato che le prime dichiarazioni relative all’omicidio vennero rese da COGNOME quasi nove anni dopo la consumazione dello stesso, con la conseguente possibilità di iniziali confusioni, e che resta il dato che in entrambi i verbali delle sue dichiarazioni, oltre che in dibattimento, COGNOME ha citato COGNOME tra i partecipanti all’incontro. Aggiunge la Corte territoriale che, come opportunamente ed efficacemente osservato dal Giudice di primo grado, in epoca antecedente alla riunione all’interno del casolare nella quale fu deciso l’omicidio COGNOME era soggetto fisicamente sconosciuto a COGNOME, del quale aveva solo sentito parlare a ragione della sua vocazione criminale, e che, successivamente a detta riunione e alla consumazione dell’omicidio, con lo stesso il
collaboratore non aveva avuto più alcuna occasione di contatto per oltre quindici anni /sino a quando lo aveva casualmente incontrato all’interno di un carcere palermitano, come dal medesimo affermato e riscontrato dall’attività di indagine; circostanza, quest’ultima, dotata di valenza dimostrativa del pregresso e qualificato contatto.
Rileva ancora detta Corte che il collaboratore, la cui presenza sulla scena del crimine e la cui partecipazione all’omicidio, da lui confessato, è stata accertata con sentenza irrevocabile, ha indicato con precisione i dettagli di consumazione del crimine che hanno, poi, trovato riscontro nell’attività di indagine svolta.
Osserva che di poco momento si appalesano le dedotte incoerenze nel narrato di COGNOME, relative al suo relazionarsi con COGNOME riguardo alla riunione (dichiarando il primo, in particolare, di essere stato avvisato della riunione dal secondo, che, invece, non conferma tale circostanza) e alle fasi successive al delitto. Evidenzia, quanto a detto ultimo punto, a fronte del rilievo difensivo secondo cui COGNOME nelle prime dichiarazioni avrebbe detto di avere confidato a COGNOME di avere commesso l’omicidio venendo smentito da quest’ultimo, che, posto che COGNOME ha riconosciuto di avere potuto commentare con COGNOME l’avvenuta uccisione di COGNOME, è plausibile che, rendendo entrambi dichiarazioni a distanza, uno di loro abbia un ricordo non lucido dell’eventuale confidenza sull’indicazione di COGNOME come autore dell’omicidio. Aggiunge che, comunque, detta apparente incoerenza, alla luce delle chiare convergenze per gli aspetti rilevanti che riguardano la presenza e il ruolo rivestito da COGNOME risulta del tutto marginale.
Rileva la Corte a qua che l’affermazione di COGNOME di non avere letto le dichiarazioni rese da COGNOME in relazione all’omicidio di COGNOME, dichiarazioni che erano agli atti del procedimento celebratosi con il rito abbreviato per COGNOME, non può in alcun modo ritenersi confutata.
Osserva al riguardo che il collaboratore in ultimo menzionato aveva reso dichiarazioni su detti fatti, assumendosene anche la responsabilità, nei centottanta giorni dall’inizio della sua collaborazione, senza avere modo di conoscere eventuali propalazioni sul punto da parte di COGNOME; e che, una volta cristallizzato il quadro autoaccusatorio, possa avere ben deciso, nel chiedere il giudizio abbreviato, di definire la sua posizione senza curarsi degli altri eventuali elementi a suo carico,
comprese le dichiarazioni di COGNOME che, peraltro, come emerso, non pare averlo mai accusato dell’omicidio.
Come evidenziato dalla stessa Corte territoriale, una volta sgombrato il campo dalle obiezioni difensive relative alla credibilità intrinseca di COGNOME, resta da affrontare quello che, in effetti, risulta costituire l’aspetto maggiormente critico sul punto, ossia l’indicazione quale correo nell’omicidio da parte del suddetto collaboratore, di un soggetto (nelle more deceduto) diverso rispetto al reale responsabile.
A tale riguardo la Corte ritiene condivisibile il ragionamento articolato dal primo Giudice, che ha perfettamente sposato la tesi, prospettata da NOME COGNOME e NOME COGNOME, che a commettere materialmente il delitto, in concorso con il reo confesso COGNOME, sia stato NOME COGNOME detto “COGNOME“, come appreso de relato dai suddetti, e non NOME COGNOME.
Osserva che detto Giudice ha spiegato che il mendacio di COGNOME sul suo complice materiale nell’omicidio era finalizzato a proteggere il giovane sodale che egli stesso aveva coinvolto nella fase esecutiva dell’omicidio in esame, adattando scientemente le sue dichiarazioni al precipuo fine di rimuoverlo dalla scena del crimine e di sostituirlo con un soggetto, NOME COGNOME che non avrebbe mai potuto patire conseguenze sfavorevoli per effetto di siffatta calunniosa asserzione, in quanto a sua volta assassinato nel 2010; e ciò ignorando che “COGNOME” avesse incautamente disvelato ad altri membri del sodalizio il suo coinvolgimento nel delitto.
Rileva come lo stesso Giudice abbia osservato che detta circostanza, sebbene ben lontana dal potersi definire commendevole, assume un peso specifico più limitato e non è capace di travolgere in radice il complessivo narrato offerto da COGNOME, non sussistendo alcuna interferenza fattuale e logica tra la ricostruzione relativa alla fase organizzativa del delitto e il mancato richiamo alla partecipazione di NOME COGNOME alla consumazione del medesimo omicidio. E come lo stesso Giudice, in modo non illogico, abbia osservato che, se COGNOME ha voluto salvaguardare la posizione processuale del killer, lo ha potuto agevolmente fare senza necessità alcuna di stravolgere altri passi della sua narrazione, specie con riguardo a quei momenti che si collocano a monte rispetto alla fase esecutiva; e che, in detta ottica, non può non evidenziarsi come lo sforzo operato dal collaboratore nella complessiva ricostruzione della vicenda sia improntato alla massima attenzione e gàn
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rispondenza al vero, essendo ovvio che uno studiato intento abbia maggiori possibilità di successo ove colui che lo persegue lo innesti nell’alveo di un racconto positivamente qualificato da costanza, precisione e puntualità.
La Corte di assise di appello di Messina reputa quindi, aderendo alla prospettazione della prima Corte, che le rivelazioni da parte di COGNOME in ordine al contesto in cui il delitto è maturato, alle ragioni che lo hanno determinato, ai soggetti che hanno assunto un ruolo nella fase deliberativa dello stesso siano degne di fede, anche tenuto conto del fatto che non è emersa, né è stata prospettata, ragione alcuna che possa avere spinto il collaboratore a rivolgere un’accusa calunniosa nei confronti di un soggetto con il quale risulta avere intrattenuto rapporti del tutto sporadici, senza contrasti di alcun genere.
Osserva, inoltre, che la circostanza che NOME COGNOME abbia affermato che COGNOME gli indicò solo COGNOME quale mandante dell’omicidio e non anche COGNOME invero, può derivare da un ricordo impreciso del primo, che, oltre ad avere rappresentato di non essere per nulla interessato alla questione, ha dimostrato imprecisione nel fatto, addirittura collocandolo nel 2002, mentre l’omicidio del quale nell’occasione si discuteva come ancora da compiere, è avvenuto nel 2001; ovvero può dipendere dall’assenza di ragione per indicare da parte di COGNOME quale mandante anche COGNOME a soggetti rivelatisi per nulla interessati alla vicenda e che neppure lo conoscevano.
Conclude detta Corte col ritenere le propalazioni eteroaccusatorie di COGNOME, pur in presenza di accertata reticenza, addirittura mendacio su una circostanza rilevante, qual è quella della rivelazione del complice materiale nell’omicidio, utilizzabili in ragione delle pronunce di legittimità in materia di attendibilità frazionata; e col ritenere la valutazione operata dal primo Giudice coerente con i principi giurisprudenziali affermati a tale riguardo.
Passando alla valutazione dell’attendibilità intrinseca e del valore di riscontro, rispetto alle propalazioni di COGNOME, delle dichiarazioni di COGNOME e di COGNOME, la Corte territoriale osserva che COGNOME non può ritenersi inattendibile per via delle condotte delittuose assunte dopo l’inizio della collaborazione.
Rileva a tale riguardo, a parte l’assenza di atti processuali di supporto all’allegazione difensiva, che la circostanza non assumerebbe significativo rilievo in questa sede. E ciò in quanto il narrato di NOME
risulta coerente rispetto a quanto già dallo stesso dichiarato in epoca immediatamente successiva e prossima all’inizio della sua collaborazione, nel novembre 2010.
La Corte territoriale si confronta, poi, col rilievo difensivo secondo cui il narrato di COGNOME non riscontrerebbe sufficientemente le rivelazioni di COGNOME su un punto chiave della ricostruzione, ossia l’individuazione dell’effettivo mandante dell’omicidio, per avere, invero, il suddetto riferito di essere uscito dal casolare della riunione lasciando, oltre a COGNOME, COGNOME e COGNOME all’interno dello stesso, e di non essere, pertanto, in grado di dire chi di loro abbia ordinato l’esecuzione.
Rileva che la lacuna prospettata dalla difesa è agevolmente colmabile attraverso una valutazione logica del narrato dei collaboratori escussi. Sottolinea in relazione a tale profilo, premesso che COGNOME ha esplicitamente indicato tanto in COGNOME quanto in COGNOME i mandanti dell’omicidio, che COGNOME ha chiaramente delineato il contesto nel quale il fatto di sangue è maturato. Ha, invero, detto collaboratore evidenziato che la condotta di COGNOME aveva recato fastidio ai vertici delle associazioni mafiose, tanto dell’articolazione dei Batanesi quanto di quella di San Mauro Castelverde, così giustificando la presenza nel casolare sia di Rampulla che di Virga, degli stessi soggetti cioè che avevano incaricato Bisognano di indagare sulla presunta attività estorsiva condotta da NOME pro domo sua, contrastante con gli interessi dell’associazione.
Rileva, quindi, la Corte di assise di appello di Messina che può ritenersi connotata da logica l’argomentazione secondo cui la decisione di uccidere NOME, demandandone l’esecuzione a COGNOME, sia stata presa di comune accordo da entrambi i soggetti rimasti nel casolare, non a caso col destinatario dell’incarico, ossia COGNOME e COGNOME. Evidenzia come, del resto, COGNOME abbia sottolineato le dinamiche che connotano l’agire dei mafiosi in casi del genere, in cui le iniziative e le decisioni da intraprendere a fronte di condotte invise ai vertici della cosca vengono adottate dai reggenti dei sodalizi territoriali direttamente interessati, nella specie quelli del comprensorio dei comuni di Tortorici e di San Mauro Castelverde. Sottolinea la sentenza impugnata come la presenza di COGNOME a quell’incontro, in cui COGNOME era chiamato a relazionare in ordine alle indagini espletate, NOME rappresentava l’indiziato da interrogare e COGNOME il reggente di una cosca interessata alla vicenda in maniera analoga a COGNOME costituisca indice eloquente del
ruolo rivestito da quest’ultimo nella vicenda e del potere decisionale che egli assumeva.
Osserva, poi, la Corte che nel delineato contesto probatorio si innesta, confermandolo, il narrato di NOME COGNOME.
Rileva che questi ha rievocato il contesto nel quale è maturata la decisione di uccidere NOME e il ruolo assunto in tale vicenda da COGNOME, affermando che costui, appreso delle lamentele formulate dall’imprenditore COGNOME e dell’interessamento della questione da parte di NOME COGNOME, era rimasto profondamento amareggiato per l’agire di NOME ed aveva assicurato che si sarebbe attivato per risolvere la faccenda (“me la vedo io”). Aggiunge che le modalità con le quali COGNOME ha sostenuto di avere ricevuto notizie in merito all’eliminazione di NOME da parte di COGNOME – e precisamente di avere incontrato nell’azienda dei fratelli COGNOME in Roccapalumba lo stesso, che, alla domanda del collaboratore inerente alla vicenda che coinvolgeva NOME, faceva il gesto della pistola e della morte indicando altresì se stesso e quindi volendo significare che egli stesso ammetteva di avere fatto uccidere quest’ultimo – diversamente da come sostenuto dalla difesa, non appaiono anomale. A tale riguardo osserva che la circostanza che, seppure il casolare fosse frequentato da soggetti latitanti tra cui lo stesso COGNOME, COGNOME avesse pensato bene di adottare comunque peculiari cautele per rivelare dati relativi all’eliminazione di COGNOME non risulta per nulla inverosimile; e ciò tenuto conto del fatto che, come sottolineato da COGNOME, nella circostanza erano presenti altre persone nell’azienda, che avrebbero potuto ascoltare, in un periodo in cui frequentemente si verificavano collaborazioni di giustizia di affiliati, oltre che del pericolo della presenza di microspie. E circa il fatto che il narrato del collaboratore in udienza fosse stato più particolareggiato di quello reso in sede di interrogatorio dinanzi al P.m., la Corte a qua rileva che non può trascurarsi il dato che, a differenza di quanto avvenuto nel presente procedimento, il 29 agosto 2002 non venne approfondito l’argomento con richiesta al collaboratore di meglio specificare l’episodio, per cui la discrasia è più apparente che reale, non emergendo comunque contraddizione alcuna.
La Corte di assise di appello di Messina si confronta poi col rilievo difensivo secondo cui COGNOME avrebbe avuto ragioni di rancore nei confronti dell’imputato, sospettando che lo avesse tradito provocandone l’arresto, rilevando che la circostanza che il primo credesse che il secondo
lo avesse fatto arrestare, appare assolutamente apodittica, tutt’altro che dimostrata (non emergendo da verbali di dichiarazioni rese da testimoni o collaboratori di giustizia, ma da un libriccino, prodotto dalla difesa, di raccolta di dati inerenti alla personalità di COGNOME, contenente informazioni in alcun modo controllate).
Detta Corte conclude, quindi, per considerare che le dichiarazioni di COGNOME contribuiscano, irrobustendolo, al punto da farlo diventare granitico, ad un quadro probatorio già solido, costituito dalle propalazioni di COGNOME e COGNOME, riscontrate da numerosi elementi di fatto verificati a seguito di attività di indagine.
Osserva che non può ritenersi che COGNOME avesse semplicemente rappresentato a COGNOME che NOME era stato ucciso senza tuttavia assumersene la responsabilità, come sostenuto dalla difesa dell’imputato, avendo il collaboratore affermato che COGNOME, in sua presenza, oltre a mimare con le dita una pistola, indicava sé stesso lasciando intendere un evidente collegamento tra i due gesti, ossia che egli si attribuiva un ruolo determinante nell’eliminazione, ed essendo del tutto verosimile che l’imputato, la cui credibilità mafiosa era stata agli occhi di COGNOME e ancor prima di NOME COGNOME offesa da una richiesta estorsiva avanzata da NOME ad un imprenditore vicino al vertice di Cosa Nostra, possa avere ascritto a se stesso un ruolo nell’uccisione dell’improvvido estortore. La Corte aggiunge che è incoerente e illogico sostenere, come da obiezione difensiva, che COGNOME, approfittando della circostanza che COGNOME fosse stato eleminato da terzi, si fosse arrogato dinanzi a COGNOME la responsabilità dell’omicidio, con il rischio che la presunta millanteria venisse scoperta e minasse pesantemente la credibilità dell’imputato in seno al sodalizio, anche esponendolo a rischi per la propria incolumità; e che deve pertanto ritenersi che tanto il narrato di COGNOME quanto quello di COGNOME finiscano per riscontrare il preciso racconto di COGNOME in ordine al ruolo di mandante di COGNOME.
Osserva che le propalazioni accusatorie rese dai tre collaboratori non possono considerarsi frutto di fraudolenta intesa o comunque non dotate di indipendenza e originalità, non emergendo alcun dato cui potere ancorare tale chiave di lettura, risultando peraltro detti collaboratori nati e vissuti in contesti territoriali diversi e non avere intessuto tra loro relazioni amicali, ma avere aderito a differenti consorterie criminali, con dissimili ruoli (COGNOME a Cosa Nostra palermitana, a stretto contatto con COGNOME alla “famiglia barcellonese”, operante nella
provincia messinese, con compiti dirigenziali di una delle sue articolazioni; COGNOME al “gruppo batanese”, con compiti di responsabilità ma alle dipendenze di altro e più autorevole sodale). Aggiunge che la loro scelta collaborativa è stata assunta in tempi diversi e spesso tra loro lontanissimi, circostanza che consente di escludere la determinazione concordata a monte, e che ad essa non è mai conseguita alcuna occasione di contatto all’interno del circuito carcerario, dovendosi, altresì, osservare che le dichiarazioni che COGNOME e COGNOME hanno nel tempo reso non sono state rese ostensibili se non nel momento in cui anche COGNOME rivelava le sue conoscenze in ordine al delitto per cui si procede. Sottolinea, poi, come COGNOME e COGNOME, nel loro rispettivo racconto, si siano entrambi collocati all’interno di una sperduta casupola nel momento in cui la vittima era stata convocata per fornire una giustificazione dei suoi comportamenti e abbiano offerto una omogenea ricostruzione di quanto in quel frangente accaduto. Concorda con la prima Corte sul fatto che possa ritenersi processualmente acclarato, oltre ogni ragionevole dubbio, data tale convergenza, che NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME abbiano composto il collegio al cospetto del quale NOME era stato attirato, per giustificare i suoi comportamenti irrispettosi delle prerogative delle consorterie mafiose operanti nel territorio ed era stato poi licenziato nel momento in cui era emersa l’irrimediabilità della situazione; e che la presenza all’interno del casolare dei maggiorenti appena indicati, lungi dall’essere frutto di una fortuita coincidenza, abbia rappresentato la risultante di una meditata decisione, avendo ciascuno presenziato perché coinvolto in prima persona nella vicenda (Bisognano in quanto era stato incaricato di svolgere un’indagine tesa a verificare la fondatezza delle gravi accuse mosse ai danni di NOME COGNOME, non tanto in veste di rappresentante della consorteria attiva nei luoghi in cui la vittima agiva, ma perché destinato a ricevere l’incarico di curare la fase esecutiva dell’omicidio; COGNOME quale referente della vittima sotto il profilo criminale; COGNOME quale interessato alla vicenda nei termini specificati sia da COGNOME che – molto più dettagliatamente – da COGNOME).
Evidenzia la Corte a qua che può agevolmente sostenersi che NOME abbia partecipato alla riunione svoltasi in quanto portatore di un qualificato interesse riconducibile alla consorteria di appartenenza, che era stato leso dalle improvvide condotte poste in essere da NOME ed
era meritevole di immediato e integrale ristoro; e che è coerente ai principi della logica che COGNOME, dopo essersi personalmente attivato, spendendo il proprio carisma criminale per rassicurare il vertice di Cosa Nostra che COGNOME avrebbe potuto svolgere lavori pubblici nel territorio messinese senza disturbo ad opera di esponenti della malavita locale, si sia immediatamente adoperato per ripristinare l’ordine violato da NOME e che, per tale motivo, sia stato presente nel momento in cui detta questione avrebbe dovuto essere una volta per tutte definita, dando il suo contributo in ordine alle scelte da assumere.
A fronte di tali analitiche argomentazioni, scevre da vizi logici e giuridici, è evidente l’infondatezza dei primi due motivi di ricorso dell’atto dell’avv. COGNOME e del primo motivo dell’atto dell’avv. COGNOME, i quali, ritornando sulle incertezze e contraddizioni delle dichiarazioni di COGNOME, in parte rettificate in dibattimento, sull’iniziale diniego del suo coinvolgimento in omicidi e sul pericolo di contaminazione con le dichiarazioni di COGNOME, insistono sull’inattendibilità del suddetto anche considerato il mendacio sull’individuazione del complice materiale tale da doversi escludere l’applicazione del principio della credibilità frazionata, nonché sull’inattendibilità di COGNOME (per la revoca del programma di protezione) e COGNOME (per il rancore nei confronti di COGNOME), sulla non convergenza delle propalazioni sul nucleo fondamentale dell’imputazione e in particolare sull’inidoneità delle dichiarazioni di COGNOME a riscontrare in modo individualizzante il conferimento del mandato omicidiario a COGNOME da parte di COGNOME, riferito dal collaboratore in ultimo menzionato, per l’allontanamento del suddetto prima di detto conferimento, infine sull’inidoneità a fungere da riscontro individualizzante delle dichiarazioni di COGNOME da parte di quelle di COGNOME, e sul fatto che il collaboratore COGNOME riferisca di avere appreso da COGNOME che lo stesso era stato incaricato dell’omicidio dal solo COGNOME e non anche da COGNOME.
Invero, la sentenza in esame argomenta in modo non manifestamente illogico oltre che giuridicamente corretto, nei termini appena riportati, su tutti i rilievi riproposti in questa sede, tra cui in particolare, avendo riguardo agli snodi argomentativi più rilevanti, quello dell’applicabilità nel caso in esame del criterio dell’attendibilità frazionata. O, ancora, quello del riscontro, rispetto alla chiamata in correità di COGNOME, offerto dalle dichiarazioni di COGNOME il quale pur dando atto del suo allontanamento prima del conferimento del mandato
omicidiario e del fatto che all’atto di detto allontanamento COGNOME sarebbe rimasto da solo con COGNOME e COGNOME offre, come ben evidenziato dalla sentenza in esame, attraverso la descrizione del contesto in cui sarebbe maturato il delitto, un elemento di supporto logico tale da corroborare in modo individualizzante la chiamata in correità relativa al mandato anche da parte di COGNOME Infine, argomenta nello stesso modo, sottraendosi, pertanto, a censure in questa sede, sulla convergenza delle propalazioni, ivi comprese quelle di COGNOME, circa il nucleo essenziale del narrato, nonché sull’esclusione del sospettato allineamento tra le dichiarazioni e della prova della sussistenza di motivi di rancore di COGNOME nei confronti di COGNOME
1.2. Infondate, ai limiti dell’inammissibilità per genericità e aspecificità, sono anche le censure di cui al terzo motivo dell’atto dell’avv. COGNOME che ancora una volta fanno leva su insussistenti discrasie delle dichiarazioni dei collaboratori circa la causale dell’omicidio, che, secondo dette censure – fondate, peraltro, su intercettazioni riportate da una testimonianza, entrambe non documentate in violazione del principio di autosufficienza – sarebbe riconducibile al solo contrasto tra la vittima e il suo referente criminale COGNOME
E ciò a fronte delle argomentazioni della sentenza in esame – si vedano in particolare p. 39 e 40 – circa l’interesse sia di COGNOME che di COGNOME all’eliminazione di COGNOME e circa la condivisibilità al riguardo della ricostruzione operata dalla Corte di assise di Messina, che evidenzia come la decisione omicidiaria necessariamente fu presa sia da COGNOME, referente criminale della vittima nel momento in cui la stessa agiva facendo i propri interessi e non quelli della consorteria di riferimento, che da COGNOME, quale estraneo ai circuiti mafiosi messinesi, ma tramite di Cosa Nostra palermitana (come più dettagliatamente specificato da COGNOME, che avrebbe richiesto l’intervento di COGNOME su incarico di COGNOME, mentre COGNOME ha riferito di avere ricevuto sia da COGNOME che da COGNOME l’incarico di verificare la fondatezza delle accuse mosse a COGNOME di comportamenti in violazione degli interessi mafiosi, e COGNOME di avere ricevuto l’incarico omicidiario da entrambi).
1.3. Inammissibili sono, infine, le censure di cui al quarto motivo di ricorso dell’avv. COGNOME sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e di cui al secondo motivo di ricorso dell’avv. COGNOME su detto mancato riconoscimento e sul mancato
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riconoscimento dell’attenuante di minima partecipazione, nonché sul diniego dell’esclusione della premeditazione e dell’aggravante mafiosa.
Rileva la Corte territoriale con riferimento alla premeditazione, dopo avere evidenziato come per consolidato orientamento di legittimità la stessa postuli il radicamento e la persistenza costante, per un apprezzabile lasso di tempo, nella psiche del reo del proposito omicida, che è incontestabile che essa vada ravvisata nel mandato ad uccidere affidato da un soggetto posto in posizione apicale in seno ad un’associazione mafiosa a soggetti del cui agire egli può disporre. Osserva, quindi, che Virga, dopo avere dato incarico di eseguire le verifiche in ordine alla condotta di NOME ed avere partecipato ad una riunione nel corso della quale era emersa l’irrimediabilità della situazione, ha di fatto rilasciato a COGNOME una sorta di delega in bianco per l’organizzazione del delitto, la scelta dei tempi e dei modi per la sua esecuzione.
Osserva, inoltre, che è parimenti incontestabile l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., essendosi accertato che l’omicidio è stato deliberato avendo NOME osato sfidare l’autorità di Cosa Nostra palermitana, avanzando una richiesta estorsiva nei confronti di un imprenditore colluso.
Rileva, con riguardo alla richiesta di applicazione dell’art. 114 cod. pen., che deve escludersi che il ruolo assunto nel fatto di sangue da COGNOME possa essere considerato di minima importanza, avendo al pari di COGNOME preso nella sua qualità di reggente del sodalizio di San Mauro Castelverde, tirato in ballo dal comportamento di COGNOME, la decisione di uccidere la persona offesa, dando mandato a COGNOME di curare la fase esecutiva, e, quindi, svolto un ruolo di primaria importanza.
Aggiunge che nella condotta di COGNOME non emerge elemento alcuno che induca a ritenerlo meritevole del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, connotando piuttosto le modalità dell’eliminazione e le cause di essa il fatto di un peculiare disvalore. Osserva, a tale riguardo, che NOME, che aveva provato ad imporre la sua caratura criminale nel territorio di appartenenza, entrava in rotta di collisione con la ben più agguerrita e spietata organizzazione criminale della quale COGNOME è stato autorevole esponente, che da tempo immemore è riuscita ad imporre, grazie alla sua non comune forza intimidatrice, un’opprimente condizione di soggezione e di omertà; e che in tale contesto è maturata la decisione omicidiaria, per ribadire il pieno dominio del sodalizio sul territorio,
indicativa della totale assenza di ogni principio morale e di freni inibitori in capo a chi l’ha adottata.
Conclude col ritenere che COGNOME abbia palesato una allarmante capacità criminale, un’esorbitante vocazione delinquenziale, del resto confermata dalle condanne per delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e anche per plurimi episodi di estorsione, consumata o tentata, aggravata ai sensi dell’art. 7 d. I. n. 152 del 1991, come da certificato penale; e che il mero lasso temporale intercorso dall’epoca di consumazione del delitto e la circostanza che nelle more non siano emerse ulteriori condotte delinquenziali del medesimo, peraltro detenuto, costituiscono elementi che comunque soccombono di fronte alla preponderante valenza dei riferiti dati.
Tali essendo le argomentazioni della sentenza impugnata, scevre da vizi logici e giuridici, le censure difensive, che insistono sull’esclusione della premeditazione e dell’aggravante mafiosa, nonché sul riconoscimento dell’attenuante della minima partecipazione e delle circostanze attenuanti generiche, nei termini di cui sopra, risultano risolversi in una rivalutazione fattuale, dimostrando di non confrontarsi, se non per contestarle genericamente, con dette argomentazioni.
Senza considerare, con riguardo all’ultima doglianza, che la valutazione attinente ad aspetti che rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, esercitato congruamente, logicamente ed anche in coerenza con il principio di diritto secondo il quale l’onere motivazionale da soddisfare non richiede necessariamente l’esame di tutti i parametri fissati dall’art. 133 cod. pen., si sottrae alle censure che reclamino una rivalutazione in fatto di elementi già oggetto di valutazione ovvero la valorizzazione di elementi che si assume essere stati indebitamente pretermessi nell’apprezzamento del giudice impugnato.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.
L’imputato va, inoltre, condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio da NOME COGNOME e da NOME, NOME e NOME COGNOME, che liquida in complessivi euro 12.030,80, come da richiesta difensiva, comprensiva dell’aumento di legge per il numero delle parti civili (quattro), oltre accessori di legge.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi euro 12.030,80, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 27 novembre 2024.