Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 20327 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 20327 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 10/04/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a CHIAROMONTE il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a GENOVA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 05/07/2023 della CORTE APPELLO di POTENZA
udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; che ha concluso chiedendo il rigetto di entrambi i ricorsi
uditi i difensori presenti:
per COGNOME NOME, avvocato NOME COGNOME, del foro di MATERA, presente anche in sostituzione dell’avvocato NOME COGNOME, che ha illustrato i motivi di ricorso e ne ha chiesto l’accoglimento.
per COGNOME NOME, avvocato NOME COGNOME, del foro di POTENZA, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso, illustrandone i motivi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 5 luglio 2023 la Corte di appello di Potenza ha parzialmente riformato la sentenza pronunciata il 28 marzo 2022 – a seguito di giudizio abbreviato – dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Potenza nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME, imputati insieme ad altri le cui posizioni non rilevano in questa sede.
All’esito del giudizio di primo grado, COGNOME è stato ritenuto responsabile del reato all’art. 74, commi 1 e 3, d.P.R 9 ottobre 1990 n. 309, quale promotore di una associazione finalizzata al narcotraffico composta da non meno di dieci persone e operante a partire dal 2 ottobre 2015 (capo 6). Egli è stato inoltre ritenuto responsabile delle violazioni dell’art. 73 d.P.R. n. 309/90 contestate ai capi 9), 10), 18), 19) e 30). Il G.u.p. ha applicato a COGNOME l’attenuante di cui all’art. 74, comma 7, d.P.R. n. 309/90, gli ha concesso le attenuanti generiche, valutate equivalenti all’aggravante di cui all’art. 74, comma 3, d.P.R. n. 309/90 e ha determinato la pena in anni undici di reclusione, riducendola, per la scelta del rito, ad anni sette e mesi quattro di reclusione. La Corte di appello ha assolto COGNOME dall’imputazione di cui al capo 30), ha ritenuto che le attenuanti generiche dovessero essere valutate prevalenti sull’aggravante e, ritenuta la continuazione tra i reati di cui ai capi 6), 9), 10), 18) e 19) – individuato come pi grave il reato di cui al capo 6) – ha rideterminato la pena nella misura finale di anni cinque di reclusione.
Già all’esito del giudizio di primo grado, è stato escluso il ruolo di organizzatore dell’associazione contestato a COGNOME al capo 6) della rubrica. Il G.u.p. lo ha ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 74, commi 2 e 3, d.P.R. n. 309/90 quale partecipe dell’associazione e ha così diversamente qualificato il fatto. L’ha ritenuto responsabile, inoltre, delle violazioni dell’art. 73 d.P. n. 309/90 contestate ai capi 8) 17), 21), 25) e di una violazione della legge sulle armi contestata al capo 28). Il G.u.p. ha ritenuto la continuazione tra questi reati, ha individuato come più grave il reato di cui al capo 6), ha applicato a COGNOME le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante di cui all’art. 74, comma 3, d.P.R. n. 309/90 e alla contestata recidiva (ìnfraquinquennale e specifica) e ha determinato la pena nella misura di anni dodici di reclusione, riducendola ad anni otto di reclusione ai sensi dell’art. 442 cod. proc.pen. La Corte di appello ha assolto COGNOME dalle imputazioni di cui ai capi 17), 21) e 28) perché il fatto non sussiste»; ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di cui al capo 8) (cessione ad NOME di 165 grammi di marijuana, avvenuta in Colobraro il 25 settembre 2015); ha confermato l’affermazione della penale responsabilità per i capi 6) e 25). I giudici di appello hanno ritenuto sussistente il vincolo dell
continuazione tra questi reati e una violazione dell’art. 73 d.P.R. n. 309/90 (relativa alla coltivazione di una piantagione di marijuana accertata il 2 ottobre 2015) per la quale COGNOME è stato condannato con sentenza definitiva (sentenza della Corte di appello di Potenza del 10 gennaio 2020, in giudicato il 7 maggio 2021). Poiché la recidiva era stata contestata con riferimento a questo reato, la Corte di appello l’ha esclusa; ha ritenuto che le attenuanti generiche potessero essere valutate prevalenti sull’aggravante di cui all’art. 74, comma 3, d.P.R. n. 309/90; ha determinato la pena finale nella misura di anni cinque e mesi dieci di reclusione.
Per mezzo dei rispettivi difensori, NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto ricorso contro la sentenza della Corte di appello.
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME si articola in due motivi.
3.1. Col primo motivo i difensori deducono violazione di legge e vizi di motivazione quanto all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato per il reato associativo di cui al capo 6) e per la violazione dell’art. 73 d.P.R. n. 309/90 contestata al capo 25).
Con riferimento al reato associativo, la difesa sostiene che gli unici elementi di prova a carico dell’imputato sono rappresentati da intercettazioni telefoniche e ambientali che, per il contenuto «generico ed equivoco» e perché sfornite «del benché minimo riscontro esterno», sarebbero inidonee ad un’affermazione di penale responsabilità.
I difensori del ricorrente rilevano: che COGNOME è stato ritenuto partecipe dell’ipotizzata associazione quale fornitore e produttore di marijuana; che il reato associativo è stato contestato a far data dal 2 ottobre 2015; che, proprio quel giorno, COGNOME fu tratto in arresto per la coltivazione di una piantagione di marijuana; che, come la sentenza impugnata riconosce, a seguito del sequestro della piantagione, egli non poté svolgere il ruolo di fornitore e tuttavia, contraddittoriamente, la Corte di appello gli ha riconosciuto il ruolo di partecipe sull’assunto che avrebbe posto in essere specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata. La difesa si duole che la prova della partecipazione alla associazione sia stata desunta dalla commissione del solo reato fine contestato al capo 25). Osserva che il reato di cui al capo 8) è stato commesso il 25 settembre 2015 e pertanto, ratione temporis, non è tra i reati scopo dell’ipotizzata associazione (in ipotesi accusatoria operante a far data dal 2 ottobre 2015).
Con specifico riferimento al delitto di cui al capo 25), la difesa osserva: che la prova di questo reato è stata ritenuta esistente sulla base di conversazioni
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intercorse tra COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME; che il giudice di primo grado non si è espresso in termini di certezza quanto alla possibilità di riferire le conversazioni intercettate a sostanze stupefacenti; che la Corte di appello non ha integrato tale carente motivazione limitandosi a richiamarla per relationem; che al capo 25) è stato contestato a COGNOME il concorso in attività di spaccio del 18 ottobre e 3 novembre 2017 rispetto alle quali la sentenza impugnata è silente.
3.2. Col secondo motivo, la difesa deduce difetto di motivazione e violazione di legge con riferimento alla qualificazione giuridica dei fatti di cui ai capi 6) e 25
Per quanto riguarda il reato associativo di cui al capo 6), la difesa si duole che il fatto non sia stato qualificato come violazione dell’art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/90. Osserva che, ove esistente, l’ipotizzata associazione non aveva una organizzazione complessa, si avvaleva di mezzi rudimentali, non svolse attività di spaccio di rilevante entità e le quantità e qualità delle sostanze di volta in volta detenute e cedute non sono state neppure determinate con certezza.
Con riferimento al reato di cui al capo 25), la difesa si duole che i fatti non siano stati qualificati come violazioni dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90. Sostiene che tale diversa qualificazione sarebbe stata doverosa in ragione dell’incertezza del dato ponderale che caratterizza le singole ritenute transazioni illecite.
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME si articola in due motivi.
4.1. Col primo motivo, la difesa deduce carenza di motivazione quanto alla diminuzione di pena operata per effetto dell’attenuante di cui all’art. 74, comma 7, d.P.R. n. 309/90. Secondo la difesa, confermando la decisione del giudice di primo grado, che ha applicato tale diminuzione nella misura della metà (a fronte di una diminuzione consentita «dalla metà a due terzi»), la Corte di appello ha reso una motivazione carente e contraddittoria. Non ha spiegato infatti perché, pur valutato positivamente l’apporto informativo e l’utilità concreta delle dichiarazioni rese da COGNOME, non le ha ritenute meritevoli di una riduzione di pena maggiore di quella minima consentita e ha ritenuto meritevole della medesima riduzione di pena altro imputato, NOME COGNOME, il quale, diversamente da COGNOME, non ha iniziato a collaborare nella fase delle indagini, ma nel corso del processo, e ha fornito un contributo all’accertamento dei fatti ben più limitato di quello fornito dal ricorrente.
4.2. Col secondo motivo, la difesa deduce vizi di motivazione quanto al ruolo di organizzatore attribuito a COGNOME. Secondo la difesa, il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 74, comma 1, d.P.R. n. 309/90 che consegue alla assunzione di un ruolo di vertice all’interno di una associazione si giustifica solo se
quel ruolo presenta caratteristiche di essenzialità e infungibilità, ma su questo punto la Corte di appello non ha argomentato avendo omesso di considerare che, come emerge dagli atti, COGNOME agiva su incarico di NOME COGNOME, secondo le indicazioni da lui impartite e consegnava a lui le somme che recuperava dai debitori. La difesa sostiene che la Corte di appello ha ritenuto esistente una cassa comune della quale non v’è prova certa in atti. Osserva, inoltre, che COGNOME operò a stretto contatto con COGNOME, ma con funzioni meramente operative, ebbe solo in rare occasioni poteri decisionali e non esercitò mai un riconoscibile compito organizzativo tale da rendere il suo apporto all’associazione essenziale e infungibile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Nessuno dei motivi di ricorso merita accoglimento.
Col primo motivo i difensori di COGNOME deducono violazione di legge e vizi di motivazione quanto all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato sia con riferimento al reato associativo di cui al capo 6) che con riferimento alla violazione dell’art. 73 d.P.R. n. 309/90 di cui al capo 25).
2.1. Per quanto riguarda la ritenuta esistenza dell’associazione, il ricorrente sostiene che i giudici di merito sarebbero giunti a tale conclusione sulla base di intercettazioni di contenuto generico e non avrebbero spiegato: in cosa sarebbe consistito il pactum sceleris; perché l’accordo intervenuto fra gli imputati avrebbe carattere di stabilità; perché il gruppo potrebbe considerarsi organizzato. Nel censurare la valutazione da parte dei giudici di appello dei motivi articolati con l’atto di gravame il ricorrente formula doglianze generiche e non si confronta in termini specifici con l’iter logico-giuridico seguito dai giudici di merito pe affermare la responsabilità penale. Invoca quindi una inammissibile considerazione alternativa del compendio probatorio e una rivisitazione del potere discrezionale riservato al giudice di merito in punto di valutazione della prova.
Va ricordato in proposito che la denunzia cumulativa, promiscua e perplessa della inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché della mancanza, della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione rende i motivi aspecificì e il ricorso inammissibile, ai sensi degli artt. 581, comma 1, lett. c) e 591, comma 1 lett. c), cod. proc. pen. Ed invero, come chiarito anche di recente dalle Sezioni unite (n. 29541 del 16/7/2020, Filardo Rv. 280027, pag. 30 della motivazione): «il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, comma 1,
lett. e), cod. proc. pen., ha l’onere – sanzionato a pena di aspecificità, e quindi d inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielabora l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione».
A ciò deve aggiungersi che quando – come nel caso di specie – i giudici del gravame esaminano le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operano frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordando nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione, ai fini del controllo ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo.
Nel caso in esame i giudici di merito hanno diffusamente argomentato sull’esistenza di un gruppo criminale caratterizzato dalla costante intenzione di tutti i membri di contribuire stabilmente, ciascuno secondo il proprio ruolo, alla realizzazione di propositi illeciti e nel ricorso tali argomentazioni sono sol genericamente contestate. Come la sentenza impugnata ricorda, peraltro, l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/90 può ritenersi integrata anche in assenza di una complessa ed articolata organizzazione dotata di notevoli disponibilità economiche, essendo sufficiente a tal fine «l’esistenza di strutture, deducibile dalla predisposizione di mezzi, anche semplici ed elementari, per il perseguimento del fine comune». Tali strutture devono fornire un supporto stabile alle singole deliberazioni criminose e far sì che il sodalizio si protragga per un apprezzabile periodo di tempo. Rileva, dunque, l’esistenza di una «effettiva ripartizione di compiti fra gli associati in relazione al programmato assetto criminoso da realizzare» (Sez. 6, n. 8046 del 08/05/1995, COGNOME, Rv. 202032; Sez. 6, n. 9320 del 12/05/1995, COGNOME, Rv. 202038; Sez. 6, n. 3277 del 21/01/1997, COGNOME, Rv. 207537; Sez. 6, n. 3393 del 13/12/2002, dep. 2003, COGNOME, Rv. 223419); e può rilevare anche l’esistenza di un accordo «destinato a costituire una struttura permanente in cui i singoli associati divengono – ciascuno nell’ambito dei compiti assunti o affidati – parti di un tutto finalizzato a commettere una seri indeterminata di delitti della stessa specie, preordinati alla cessione o al traffico droga» (Sez. 1, n. 14578 del 21/10/1999, COGNOME, Rv. 216124). In altri termini,
secondo la giurisprudenza di legittimità, l’associazione di cui all’art. 74 d.P.R n. 309/90 non è esclusa dalla semplicità della struttura organizzativa, che può essere anche elementare purché espressiva di un accordo stabilmente finalizzato al traffico di stupefacenti. La prova del vincolo permanente, nascente dall’accordo associativo, inoltre, può essere data anche «mediante l’accertamento di “facta concludentia”, quali i contatti continui tra gli spacciatori, i frequenti viaggi per rifornimenti della droga, le basi logistiche, i beni necessari per le operazion delittuose, le forme organizzative utilizzate, sia di tipo gerarchico che mediante divisione dei compiti tra gli associati, la commissione di reati rientranti n programma criminoso e le loro specifiche modalità esecutive» (Sez. 3, n. 47291 del 11/06/2021, COGNOME, Rv. 282610; Sez. 5, n. 8033 del 15/11/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 255207; Sez. 4, n. 25471 del 07/02/2007, COGNOME, Rv. 237002). Nel caso di specie, la struttura organizzativa necessaria ad integrare il reato è stata ravvisata nella ripartizione di compiti tra gli associati e nella stab del vincolo esistente tra gli organizzatori, i fornitori e i distributori della sos dal quale si è desunto che l’accordo era destinato ad operare nel tempo e finalizzato alla consumazione di una serie indeterminata di delitti in materia di stupefacenti. Si tratta di argomentazioni congrue, non contraddittorie né manifestamente illogiche, conformi ai principi di diritto illustrati e, pertanto, idon a resistere ai rilievi del ricorrente.
2.2. Oltre a contestare l’esistenza della associazione, la difesa deduce contraddittorietà della motivazione con la quale la Corte territoriale ha ritenuto che COGNOME ne fosse partecipe. Osserva infatti: che il reato associativo di cui al capo 6) è contestato a far data dal 2 ottobre 2015 e a COGNOME è stato attribuito il ruolo di fornitore; che il 2 ottobre 2015 COGNOME fu tratto in arresto per coltivazione di una piantagione di marijuana in relazione alla quale è stato condannato dalla Corte di appello di Potenza con sentenza del 10 gennaio 2020 (irrevocabile il 7 maggio 2021); che la sentenza impugnata ha dato atto di tale circostanza e tuttavia ha attribuito a COGNOME il ruolo di partecipe. Secondo la difesa, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe contraddittoria perché afferma che COGNOME si rese protagonista di «specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata con la consapevolezza psicologica tipica dei reati associativi», ma allo stesso tempo riconosce che COGNOME non poté svolgere «il ruolo di fornitore di sostanza stupefacente del tipo marijuana» dopo il sequestro della piantagione avvenuto il 2 ottobre 2015 (pag. 23 della motivazione).
La completa lettura della sentenza impugnata porta ad escludere che la contraddizione denunciata sia sussistente. La Corte di appello riferisce infatti (pag. 22 della motivazione) che, come emerge dalle intercettazioni, COGNOME acquistò «quantitativi consistenti di sostanza stupefacente» per conto di COGNOME,
dapprima da NOME COGNOME e poi, «data la scarsa quantità di droga fornita dal predetto, presso NOME COGNOME». Osserva poi che COGNOME prese parte alla suddivisione dello stupefacente e alla cessione di parte della sostanza ad NOME COGNOME e NOME COGNOME. Sottolinea che le conversazioni intercettate (riportate a pag. 11 e ss. della sentenza di primo grado) dimostrano contatti tra COGNOME, COGNOME e COGNOME e che, sulla base di tali intercettazioni, il 10 e il 21 agosto 2017 Polizia giudiziaria poté procedere a sequestri di sostanza. Riferisce, inoltre, che il 18 ottobre 2017, dopo che le forniture erano state saldate, COGNOME sollecitò COGNOME a prendere contatti con COGNOME e il ricorrente si dimostrò subito disponibile in tal senso, chiedendo a COGNOME di ringraziare COGNOME e dimostrando così di essere a disposizione del sodalizio (pag. 23 della motivazione).
Dall’insieme di questi elementi, la sentenza impugnata desume: che COGNOME sapeva dell’esistenza dì un gruppo organizzato dedito al traffico di sostanze stupefacenti; era consapevole del ruolo di vertice svolto in quel gruppo da NOME COGNOME; nonostante l’arresto del 2 ottobre 2015 e il sequestro della piantagione, appena ebbe la possibilità di farlo si mise a disposizione del gruppo, col quale collaborò attivamente e stabilmente da agosto a ottobre del 2017. Non v’è contraddizione tra queste affermazioni e la constatazione che COGNOME non poté prendere parte all’attività della associazione nei mesi successivi all’arresto del 2 ottobre 2015. Il ricorso non si confronta con queste argomentazioni, ma si limita a sostenere che il contenuto delle conversazioni intercettate sarebbe generico e inidoneo a dimostrare un accordo stabile tra COGNOME, COGNOME e COGNOME.
2.3. Secondo la difesa, la genericità delle conversazioni intercettate sarebbe confermata dalla lettura della sentenza di primo grado. Il G.u.p., infatti, non ha potuto sostenere che la sostanza sequestrata a COGNOME e COGNOME fosse certamente quella della quale i due imputati avevano parlato con COGNOME e si è limitato ad affermare (pag. 86 della motivazione della sentenza di primo grado) che la sostanza alla quale si fa riferimento nelle conversazioni è «con elevata probabilità (stante le coincidenze temporali), proprio quella sequestrata agli acquirenti COGNOME e COGNOME in data 10 e 21 agosto». Secondo la difesa, un ulteriore argomento a sostegno della genericità delle conversazioni intercettate dovrebbe essere tratto dalla constatazione che, riferendo di un episodio del 22 settembre 2017, quando COGNOME si diresse in una boscaglia, il G.u.p. ha affermato (pag.93 della sentenza di primo grado) che ciò avvenne «al presumibile scopo di occultare la droga», esprimendosi in termini di probabilità e non di certezza.
Quando sostiene che il contenuto delle conversazioni intercettate sarebbe generico e sottolinea che in alcuni casi anche il RAGIONE_SOCIALE ha ritenuto probabile, ma non certo, che i conversanti parlassero di sostanze stupefacenti, la difesa del
ricorrente omette di confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata che ha fornito puntuale risposta ad analogo motivo formulato in sede di gravame.
A pag. 24 della sentenza impugnata si legge: «dalle stesse conversazioni oggetto di intercettazione si deducono chiaramente le ragioni dei ripetuti contatti e degli incontri intercorsi dapprima tra il COGNOME ed il COGNOME e successivamente, tra il primo ed il COGNOME ed, infine, tra l’imputato, il COGNOME e l’COGNOME» essendo «evidente» il riferimento «ai quantitativi compravenduti a prezzi praticati, alla qualità della sostanza, alle consegne materiali da effettuare ed alle descrizioni degli involucri, ai rischi corsi ed alle cautele assunte [… cambiamento dei nascondigli in cui veniva conservato di volta in volta lo stupefacente». Secondo i giudici di appello, dunque, il contenuto delle conversazioni è tale da rendere non equivoco il riferimento a sostanze stupefacenti e la circostanza che, proprio in quel periodo, COGNOME e COGNOME siano stati trovati i possesso di tali sostanze costituisce una conferma di ciò. In questa prospettiva non è rilevante se la sostanza sequestrata il 10 e 21 agosto sia la stessa della quale COGNOME e COGNOME avevano parlato con COGNOME. La sentenza impugnata sottolinea, infatti, che la documentata disponibilità di stupefacenti da parte di COGNOME e COGNOME costituisce indizio a conferma del fatto che i contatti tra COGNOME gli altri indagati erano finalizzati al traffico di sostanze (pag. 25 della motivazione
L’argomentazione è congrua, non presenta profili di contraddittorietà o manifesta illogicità e non può essere sindacata in questa sede. Ed invero, «in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità» (Sez. U, n.22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, COGNOME, Rv. 268389; Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, COGNOME, Rv. 282337).
2.4. Col primo motivo di ricorso la difesa deduce anche carenza di motivazione relativamente ad attività di spaccio contestate al capo 25). La difesa si duole che COGNOME sia stato ritenuto responsabile di condotte che sarebbero state commesse in Colobraro il 18 ottobre e in Palagiano il 3 novembre 2017, ma in relazione ad esse la Corte di appello non ha speso parole.
A questo proposito si deve osservare che al capo 25) sono state contestate a COGNOME attività di spaccio realizzate in concorso con NOME COGNOME e NOME COGNOME «accertate in Colobraro in data 08.08.2017, 22.09.2017, 18.10.2017, e in Palagiano (TA) in data 03.11.2017». Poiché si parla di fatti accertati nei luoghi e nelle date indicate e non di fatti commessi in quelle date, ai fini della affermazione della penale responsabilità i giudici di merito hanno fatto riferimento al contenuto
di intercettazioni telefoniche atte a documentare che, nel periodo compreso tra 1’8 agosto 2017 e il 3 novembre 2017, COGNOME ebbe contatti con COGNOME e COGNOME e quei contatti avevano ad oggetto cessioni di stupefacenti. Le conversazioni di cui si tratta sono riportate e commentate nella sentenza di primo grado (pagg. 82 e ss.) alla quale la sentenza impugnata fa rinvio per tutto quanto non espressamente argomentato. Se è vero, dunque che né il giudice di primo grado, né la Corte di appello hanno fatto specifico riferimento a condotte del 18 ottobre e 3 novembre 2017 è pur vero che, per il modo in cui l’imputazione è stata formulata, tale riferimento non era necessario. Come noto, peraltro, non rappresenta vizio censurabile l’omesso esame critico di ogni questione sottoposta all’attenzione del giudice di merito, qualora dal complessivo contesto argomentativo sia desumibile che alcune questioni siano state implicitamente rigettate o ritenute non decisive, essendo a tal fine sufficiente che la sentenza enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono ritenuti determinanti per la formazione del convincimento del giudice (Sez.2, n.9242 del 8/02/2013, COGNOME, Rv.254988; Sez.6, n.49970 del 19/10/2012, COGNOME, Rv.254107; Sez.4, n.34747 del 17/05/2012, COGNOME, Rv.253512; Sez.4, n.45126 del 6/11/2008, COGNOME, Rv.241907).
2.5. Alla luce delle argomentazioni svolte la sentenza impugnata resiste a tutti i rilievi formulati dalla difesa di NOME COGNOME nel primo motivo di ricorso.
Col secondo motivo di ricorso, la difesa si duole che l’associazione di cui RAGIONE_SOCIALE è stato ritenuto partecipe non sia stata ricondotta entro l’ambito operativo dell’art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/90 e che il fatto di cui al capo 25) non sia stato qualificato come violazione dell’art. 73, comma 5, del citato d.P.R.
3.1. Secondo la difesa, l’associazione di cui al capo 6) avrebbe potuto essere qualificata ai sensi dell’art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/90 per la rudimentale organizzazione del sodalizio; perché le attività di spaccio concretamente realizzate non furono di rilevante entità; perché la quantità e la qualità delle sostanze di volta in volta detenute e cedute non sono state determinate con certezza.
Come noto, per poter applicare l’art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/90, non è sufficiente che uno o più associati abbiano in concreto commesso violazioni dell’art. 73, comma 5, ma è necessario, che l’associazione sia «costituita per commettere» questo tipo di delitti (sul tema: Sez. 4, n. 53568 del 05/10/2017, Pardo, Rv. 271708; Sez. 6, n. 49921 del 25/01/2018, C., Rv. 274287; Sez. 6, n. 1642 del 09/10/2019, dep. 2020, COGNOME Angioli, Rv. 278098). Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha escluso che una tale situazione si sia realizzata. Ha osservato infatti: che le attività di spaccio realizzate dall’associazione ebbero ad oggetto quantità anche elevate di sostanza; che il gruppo aveva canali di approvvigionamento in tutto il territorio nazionale ed anche all’estero (in specie in
Albania); che l’associazione riforniva di stupefacenti un territorio vasto e aveva esteso la propria influenza «su diverse piazze della Basilicata» (pag. 25). Il ricorso non si confronta con questa motivazione, non compie una critica argomentata al provvedimento e, nella sostanza, lo ignora. È quindi inammissibile per difetto di specificità (Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, COGNOME, Rv. 260608; Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, COGNOME, Rv. 276970).
3.2. La sentenza impugnata ha escluso che i fatti ascritti a COGNOME al capo 25) possano essere ricondotti entro l’ambito operativo dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90 e la difesa si duole di questa scelta sottolineando che la quantità e la qualità delle sostanze alla cui commercializzazione il ricorrente avrebbe contribuito non è stata accertata.
La Corte di appello, si è attenuta a principi diversi e più risalenti. Ha sostenuto, infatti, che la lieve entità può essere esclusa quando anche uno solo degli elementi indicati dalla norma (mezzi, modalità e circostanze dell’azione, quantità e qualità delle sostanze) porti ad escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia di lieve entità. Pur muovendo da queste premesse, tuttavia, la sentenza impugnata ha compiuto una valutazione complessiva del fatto e, nell’escluderne la lieve entità, ha valorizzato: il «consistente giro di affari» emergente dalle conversazioni intercettate; la ripetitività della condotta; l’approvvigionamento di varie specie stupefacente. Si tratta di una motivazione completa, non contraddittoria e non manifestamente illogica che non può essere censurata perché esclude la lieve entità del fatto valutando in concreto le complessive modalità della condotta.
Nel definire i principi ermeneutici cui ci si deve attenere nell’applicare l’ipotes di lieve entità prevista dall’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90 la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che tale valutazione deve essere compiuta in concreto, tenendo conto non solo del dato qualitativo e quantitativo, ma anche della personalità dell’indagato, dei mezzi, delle modalità e delle circostanze dell’azione (cfr., da ultimo, Sez. 1J, n. 51063 del 27/09/2018, Muralo, Rv. 274076). Come questa sentenza ha opportunamente chiarito (pag. 16 della motivazione), «ritenere che la valutazione degli indici di lieve entità elencati dal comma 5 dell’art. 73 debba essere complessiva, significa certamente abbandonare l’idea che gli stessi possano essere utilizzati dal giudice alternativamente, riconoscendo o escludendo la lieve entità del fatto anche in presenza di un solo indicatore di segno positivo o negativo, a prescindere dalla considerazione degli altri». Implica però, allo stesso tempo, «che tali indici non debbano tutti indistintamente avere segno positivo o negativo» e possano instaurarsi tra gli stessi rapporti di compensazione o neutralizzazione idonei a consentire un giudizio unitario sulla concreta offensività del fatto anche quando le circostanze che lo caratterizzano risultano prima facie contraddittorie. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
4. Col primo motivo di ricorso, la difesa di NOME COGNOME deduce carenza di motivazione quanto alla diminuzione di pena operata per effetto dell’attenuante di cui all’art. 74, comma 7, d.P.R. n. 309/90. Secondo la difesa, confermando la decisione del giudice di primo grado – che ha applicato tale diminuzione nella misura della metà (a fronte di una diminuzione consentita «dalla metà a due terzi») – la Corte di appello avrebbe reso una motivazione carente e contraddittoria.
Il motivo è infondato. La sentenza impugnata dà atto che COGNOME ha contribuito all’accertamento dei fatti fornendo un contributo «valido» e afferma che, in applicazione di tutti i criteri (oggettivi e soggettivi) previsti dall’ar cod. pen. deve essere confermata la riduzione di pena nella misura della metà rispetto alla pena base stabilita per il delitto di cui all’art. 74, comma 1, d. P n. 309/90. Il tenore della motivazione rende evidente che il contributo fornito da COGNOME all’accertamento dei fatti è stato valutato «valido», ma non determinante. La sentenza precisa, inoltre, che tale contributo è stato reso negli interrogatori del 24 maggio, 15 giugno e 10 agosto 2021, di molto successivi alle operazioni di intercettazione che sono state determinanti nell’accertamento dei fatti oggetto del procedimento. La motivazione è sintetica, ma non è stata omessa e il ricorrente si limita a chiedere una diminuzione di pena maggiore senza fornire seri argomenti a sostegno di tale richiesta.
L’unico argomento speso in tal senso si riferisce alla posizione di NOME COGNOME, al quale la sentenza impugnata ha riconosciuto l’attenuante della collaborazione. Secondo la difesa, la sentenza sarebbe contraddittoria perché, nell’applicare a NOME tale attenuante, ha riconosciuto anche a lui una riduzione alla metà della pena base, ma la collaborazione prestata da questo imputato è assai meno significativa rispetto a quella fornita da COGNOME ed è stata avviata a processo già iniziato.
L’argomentazione così sviluppata non è supportata da adeguata documentazione. Nel ricorso si sostiene che il contributo collaborativo di NOME sarebbe intervenuto a processo iniziato e sarebbe stato poco significativo, ma si tratta di una mera affermazione e gli atti che dovrebbero confermarla non sono indicati nel ricorso né allegati ad esso.
Così argomentando, inoltre, la difesa trascura che NOME non è stato ritenuto responsabile del reato associativo, ma solo di violazioni dell’art. 73 d.P.R. n. 309/90 sicché l’attenuante che gli è stata riconosciuta è quella di cui all’art. 73, comma 7, d.P.R. n. 309/90. Si deve ricordare, allora, che i presupposti operativi delle attenuanti previste dagli artt. 7 comma 7, e 74, comma 7, d.P.R. n. 309/90 sono diversi. Per l’applicazione
dell’attenuante della collaborazione prevista dall’art. 73, comma 7, d.P.R. n. 309/90, infatti, «è sufficiente l’essersi adoperato per evitare che l’attività spaccio sia portata a conseguenze ulteriori, anche mediante aiuto al sequestro di “risorse rilevanti”», ma per il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 7 comma 7, «è richiesta l’assicurazione delle prove del reato, oppure è necessario un contributo efficace per il sequestro di “risorse decisive”» (Sez. 4, n. 32520 del 14/04/2016, COGNOME, Rv. 267876), è necessario, dunque, che il contributo conoscitivo offerto dall’imputato sia utilmente diretto ad interrompere non tanto il traffico della singola partita di droga, bensì l’attività complessiva del sodalizi criminoso (Sez. 6, n. 7995 del 17/06/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262624; Sez. 2, n. 32907 del 03/05/2017, COGNOME, Rv. 270656). Com’è evidente, nessuna contraddizione può essere ravvisata nell’aver disposto la riduzione di pena della metà per due collaboratori imputati di reati diversi facendo applicazione di circostanze attenuanti fondate su presupposti differenti.
Col secondo motivo, la difesa di NOME COGNOME deduce vizi di motivazione quanto al ruolo di organizzatore attribuito al ricorrente. Secondo il difensore, il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 74, comma 1, d.P.R. n. 309/90 si giustifica solo se il ruolo svolto all’interno dell’associazione present caratteristiche di essenzialità e infungibilità: una situazione che non ricorre nel caso di specie.
La sentenza impugnata ha attribuito a COGNOME il ruolo di organizzatore osservando che egli possedeva capacità gestionali, manteneva contatti con i fornitori, impartiva disposizioni per il recupero delle somme dovute alla associazione. Secondo la difesa, tale motivazione è incongrua perché non tiene conto che queste attività erano compiute da COGNOME su incarico di NOME COGNOME, secondo le indicazioni da lui impartite, e che le somme recuperate dai creditori erano consegnate ad COGNOME. Queste circostanze – sostiene la difesa – dimostrano: da un lato, che COGNOME aveva funzioni meramente operative e non esercitò mai un riconoscibile compito organizzativo; dall’altro che il suo non era un ruolo essenziale né infungibile.
Così argomentando, il ricorso non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata. La Corte di appello ha ritenuto, infatti, che il ruolo di organizzatore svolto da COGNOME non fosse smentito, ma anzi confermato, dal fatto che egli operava a fianco di COGNOME. Ha sottolineato che, come emerge dalle conversazioni intercettate, molto spesso era proprio COGNOME a sollecitare altri associati e spacciatori al dettaglio a versare i proventi dell’attività delittuosa «NOME» e da ciò si desume l’esistenza di una cassa comune. La sentenza impugnata riferisce inoltre che, come emerge dall’esito delle intercettazioni, «il
denaro contante necessario per l’acquisto delle varie partire di sos stupefacente proveni proprio dalle casse di COGNOME» e che COGNOME COGNOME «stabilmente all’organizzazione la sua abitazione»: circostanza nota a tut associati ognuno dei quali «era al corrente che le varie partire di droga dove essere consegnate» presso quella dimora (pag. 30). Il ricorso non contrasta argomentazioni se non per sostenere genericamente che l’esistenza di una cas comune e la messa a disposizione della abitazione di COGNOME non sarebber provate con certezza. Non confuta dunque efficacemente una motivazione che appare coerente, scevra da profili di contraddittorietà o manifesta illogi conforme ai principi di diritto che regolano la materia. A questo proposito si ricordare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la qualifica di organi di una associazione finalizzata al narcotraffico spetta a chi «coordina l’attivi associati ed assicura la funzionalità delle strutture del sodalizio, non e peraltro, necessario che tale ruolo sia svolto con riferimento all’associazion sua interezza, potendo risultare sufficiente la gestione di una sua ril articolazione territoriale» (Sez. 2, n. 20098 del 03/06/2020, Buono, Rv. 2794 v. anche: Sez. 6, n. 38240 del 07/12/2017, dep. 2018, Anioke, Rv. 273737; Se 3, n. 40348 del 06/07/2016, COGNOME, Rv. 267761). Nella medesima prospettiva si è sostenuto che «la qualifica di “organizzatore”, all’interno di un’assoc criminosa dedita al traffico di sostanze stupefacenti, spetta a chi assume pot gestione, quand’anche non pienamente autonomi, in uno specifico e rilevan settore operativo del gruppo. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto contradd la sentenza impugnata che, pur avendo riconosciuto la partecipazio all’associazione, aveva negato la qualifica di organizzatore in capo al soggett stabilmente gestiva in prima persona transazioni di grosso valore economi pagando i fornitori e coordinando lo spaccio) (Sez. 4, n. 53568 del 05/10/20 Pardo, Rv. 271707; conforme: Sez. 4, n. 52137 dei 17/10/2017, COGNOME, Rv. 271256) Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Per quanto esposto, nessuno dei motivi di ricorso merita accoglimento. rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle s processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese process Così deciso il 10 aprile 2024
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Il ConsigiOre est nsore
Il Presidente