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Associazione per delinquere: prova e custodia cautelare

La Cassazione conferma la custodia in carcere per due soggetti accusati di associazione per delinquere finalizzata a furti in abitazione. La Corte ha ritenuto che la prova dell’esistenza del sodalizio criminale possa essere desunta dalle modalità esecutive dei reati-fine e che la spiccata capacità criminale degli indagati giustifichi la misura cautelare più grave, ritenendo inadeguati gli arresti domiciliari.

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Pubblicato il 16 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Associazione per delinquere: la prova si può desumere dai reati-fine

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha affrontato il delicato tema della prova nel reato di associazione per delinquere e i criteri per la scelta della misura cautelare più adeguata. La pronuncia chiarisce come l’esistenza di un sodalizio criminale possa essere provata indirettamente, attraverso l’analisi delle modalità organizzative e seriali dei singoli reati commessi, e ribadisce i presupposti per l’applicazione della custodia in carcere.

I Fatti di Causa: Un Sodalizio Dedito ai Furti

Il caso trae origine da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei confronti di diversi soggetti, gravemente indiziati di far parte di un’associazione criminale finalizzata alla commissione di numerosi furti in abitazione in varie regioni del centro Italia. Due degli indagati avevano impugnato la misura restrittiva dinanzi al Tribunale del Riesame, che tuttavia l’aveva confermata. Avverso tale decisione, gli indagati proponevano ricorso per Cassazione.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

I ricorrenti lamentavano diversi vizi della decisione impugnata, articolando le loro difese su quattro punti principali:

1. Mancanza di prova del contributo individuale: Sostenevano che non fosse stato adeguatamente provato il loro specifico contributo alla commissione dei singoli furti. La loro presenza nelle vicinanze dei luoghi del reato, desunta dai dati di geolocalizzazione delle utenze mobili, era considerata un mero sospetto e non un indizio grave e preciso.
2. Inattendibilità delle intercettazioni: Le conversazioni telefoniche e ambientali a loro carico erano ritenute incomplete, equivoche e oggetto di un’interpretazione forzata da parte dell’accusa.
3. Insussistenza del reato associativo: A loro dire, mancava la prova di un vincolo stabile e permanente, di una struttura organizzata e di una divisione dei compiti, elementi necessari per configurare il reato di associazione per delinquere e non un semplice concorso di persone nei singoli reati.
4. Inadeguatezza della motivazione sulla misura cautelare: Criticavano la decisione di applicare la custodia in carcere, ritenendola immotivata rispetto a misure meno afflittive come gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico.

La Decisione della Corte: Prova dell’associazione per delinquere e Misure Cautelari

La Suprema Corte ha dichiarato i ricorsi inammissibili e infondati, confermando integralmente la decisione del Tribunale del Riesame. Vediamo nel dettaglio il ragionamento seguito dai giudici di legittimità.

La Prova dell’Associazione e dei Singoli Reati

La Corte ha innanzitutto chiarito che i primi tre motivi di ricorso, relativi ai gravi indizi di colpevolezza, erano inammissibili perché miravano a una rivalutazione del merito delle prove, attività preclusa in sede di legittimità.

I giudici hanno sottolineato che la prova della partecipazione ai furti non derivava solo dai tabulati telefonici, ma da un complesso di elementi, tra cui intercettazioni telefoniche e ambientali e, in un caso, persino le videoregistrazioni di un impianto di sorveglianza che avevano ripreso il volto di uno degli indagati. Erano stati inoltre definiti i ruoli specifici dei due ricorrenti: uno fungeva da palo per verificare l’assenza delle vittime, l’altro si introduceva materialmente nelle abitazioni.

Cruciale è il passaggio in cui la Corte afferma che, in tema di associazione per delinquere, la prova dell’esistenza del sodalizio può essere legittimamente dedotta dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive. L’operatività concreta dell’associazione si manifesta proprio attraverso i reati-fine. Nel caso di specie, il gruppo era dotato di un’organizzazione stabile (automobili e utenze telefoniche intestate a prestanomi per eludere le indagini), elemento che distingue il reato associativo dal mero concorso di persone nel reato.

La Scelta della Custodia Cautelare in Carcere

Anche il motivo relativo alla misura cautelare è stato ritenuto infondato. Il Tribunale del Riesame aveva adeguatamente motivato la necessità della custodia in carcere evidenziando la spiccata capacità criminale dei ricorrenti, l’assenza di un’attività lavorativa lecita e, di conseguenza, la mancanza di mezzi leciti di sostentamento.

Inoltre, un episodio specifico – l’incendio di un’autovettura usata per i crimini al fine di evitare l’identificazione – era stato valutato come un chiaro indice della loro determinazione a delinquere e della loro inaffidabilità nel rispettare le prescrizioni di una misura meno grave come gli arresti domiciliari.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su due principi cardine. Il primo è che la prova di un reato associativo non richiede necessariamente la scoperta di un ‘atto costitutivo’ del sodalizio, ma può essere logicamente inferita dall’analisi complessiva delle attività criminali poste in essere. La serialità, l’organizzazione logistica (mezzi, schede telefoniche ‘pulite’) e la divisione dei compiti sono tutti elementi che, letti insieme, disegnano il contorno di una struttura stabile e permanente, il pactum sceleris, che va oltre l’accordo estemporaneo per commettere singoli reati. Il secondo principio riguarda la valutazione delle esigenze cautelari. La scelta della misura non è un automatismo, ma deve essere ancorata a una valutazione concreta del pericolo di recidiva. La professionalità nel crimine, l’assenza di alternative di vita lecite e la spregiudicatezza dimostrata nel tentativo di inquinare le prove sono tutti fattori che rendono la custodia in carcere l’unica misura idonea a prevenire la commissione di ulteriori delitti.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce un orientamento consolidato, offrendo importanti spunti pratici. Dimostra come, nelle indagini sui reati associativi, l’analisi meticolosa dei singoli reati-fine sia fondamentale per provare l’esistenza del vincolo associativo stesso. Sotto il profilo cautelare, la decisione conferma che la valutazione del giudice deve essere globale, tenendo conto non solo della gravità del reato contestato, ma anche della personalità dell’indagato e del suo concreto stile di vita, elementi decisivi per stabilire se una misura meno afflittiva del carcere possa essere sufficiente a tutelare le esigenze della collettività.

Come si può provare l’esistenza di un’associazione per delinquere?
La prova può essere dedotta dalla commissione seriale dei delitti che rientrano nel programma del gruppo criminale e dalle loro specifiche modalità esecutive, che rivelano un’organizzazione stabile e una pianificazione comune (es. uso di auto e telefoni intestati a prestanomi).

La semplice geolocalizzazione di una persona vicino al luogo di un reato è sufficiente a dimostrarne la partecipazione?
No, da sola rappresenta un mero sospetto. Tuttavia, diventa un grave indizio di colpevolezza se corroborata da altri elementi probatori, come in questo caso intercettazioni telefoniche e ambientali o riprese video, che nel complesso ne dimostrano il coinvolgimento.

Quando è giustificata la custodia cautelare in carcere per il reato di associazione per delinquere?
È giustificata quando, oltre alla gravità del reato, emergono elementi concreti che indicano una spiccata capacità criminale e un elevato pericolo di reiterazione del reato. L’assenza di un lavoro lecito e comportamenti volti a inquinare le prove (come distruggere un veicolo usato per i crimini) sono fattori che rendono inadeguate misure meno afflittive come gli arresti domiciliari.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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