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Associazione per delinquere: la prova dai collaboratori

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un individuo contro l’ordinanza di custodia cautelare per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. La Corte ha ritenuto sufficienti come gravi indizi di colpevolezza le dichiarazioni convergenti di più collaboratori di giustizia, riscontrate da conversazioni intercettate, confermando la solidità del quadro accusatorio e la sussistenza delle esigenze cautelari.

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Pubblicato il 19 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Associazione per Delinquere: La Prova tra Collaboratori e Intercettazioni

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 35379 del 2024, offre importanti chiarimenti sulla valutazione della prova nel contesto del grave reato di associazione per delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.). Il caso in esame riguarda la conferma di una misura di custodia cautelare in carcere basata principalmente sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia e su riscontri derivanti da intercettazioni. Analizziamo insieme la decisione e le sue implicazioni.

I Fatti del Caso

Un soggetto veniva raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere con l’accusa di partecipazione a un’associazione di tipo camorristico operante nell’hinterland napoletano. Il Tribunale della Libertà, pur annullando l’ordinanza per un capo d’imputazione specifico relativo a un’estorsione, confermava la misura cautelare per il reato associativo.

La difesa del ricorrente presentava ricorso in Cassazione, sostenendo la mancanza di prove dirette di attività delittuose specifiche. Secondo la tesi difensiva, le accuse si fondavano su dichiarazioni di collaboratori che collocavano l’indagato in una posizione di vertice, senza però collegarlo a singoli episodi criminali. Inoltre, si eccepiva l’affievolimento delle esigenze cautelari, dato che i fatti contestati risalivano a diversi anni prima.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso infondato, rigettandolo e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali. La decisione si basa su una valutazione rigorosa del quadro indiziario, ritenuto solido e sufficiente a giustificare la misura cautelare.

La Corte ha sottolineato che, nel caso di specie, le accuse non provenivano da un’unica fonte, ma da più collaboratori di giustizia, le cui dichiarazioni erano convergenti e reciprocamente riscontrate. L’attendibilità di tali collaboratori era già stata riconosciuta in altri procedimenti giudiziari.

La Prova nell’Associazione per Delinquere

Uno dei punti centrali della sentenza riguarda la natura della prova necessaria per contestare il reato di associazione per delinquere. La Cassazione ribadisce un principio consolidato: per dimostrare la partecipazione a un sodalizio criminale, non è indispensabile provare il coinvolgimento diretto dell’associato in ogni singolo reato-fine commesso dal gruppo. Ciò che rileva è la prova di un suo “stabile inserimento” nella struttura organizzativa.

Nel caso specifico, le dichiarazioni dei collaboratori, supportate dalle conversazioni intercettate, indicavano che l’indagato non solo faceva parte del gruppo, ma veniva anche interpellato prima di prendere decisioni relative alle estorsioni, a dimostrazione del suo ruolo non marginale.

La Valutazione delle Esigenze Cautelari

Anche la censura relativa alla presunta insussistenza delle esigenze cautelari è stata respinta. La Corte ha fondato il riconoscimento del rischio di recidiva su due pilastri:
1. Lo “spessore criminale” dell’indagato, desunto dal ruolo rivestito nell’associazione.
2. La presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere, prevista dall’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale per i reati di particolare gravità come l’associazione di tipo mafioso.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte evidenziano come il Tribunale della Libertà abbia operato una valutazione logica e coerente degli elementi a disposizione, senza incorrere in vizi manifesti. Gli Ermellini hanno precisato che le dichiarazioni dei collaboranti, unitamente al contenuto delle intercettazioni, costituivano un compendio indiziario grave e preciso, capace di sostenere la misura cautelare. Non è stata ravvisata alcuna illogicità nel percorso argomentativo del giudice di merito, che ha correttamente identificato gravi indizi di uno stabile inserimento dell’indagato nella struttura organizzativa dell’associazione, finalizzata al perseguimento di scopi criminosi comuni.

Le Conclusioni

La sentenza in commento rafforza alcuni principi chiave in materia di reati associativi e misure cautelari. In primo luogo, conferma il valore probatorio delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, soprattutto quando plurime, convergenti e riscontrate da altri elementi. In secondo luogo, ribadisce che per il reato di cui all’art. 416-bis c.p., la prova cruciale è quella dell’appartenenza organica al sodalizio, non necessariamente la commissione materiale dei singoli delitti. Infine, la decisione riafferma la rigidità del sistema cautelare per i reati di mafia, dove la presunzione di pericolosità sociale rende la custodia in carcere la misura di regola applicabile.

Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono sufficienti per una misura cautelare per associazione per delinquere?
Sì, secondo la sentenza, le dichiarazioni di più collaboratori di giustizia, se ritenute attendibili, convergenti e riscontrate da altri elementi (come le intercettazioni), costituiscono gravi indizi di colpevolezza idonei a giustificare una misura cautelare per questo tipo di reato.

È necessario provare la partecipazione a specifici reati per essere accusati di far parte di un’associazione criminale?
No, la Corte chiarisce che per configurare la partecipazione a un’associazione criminale è sufficiente dimostrare lo stabile inserimento del soggetto nella struttura organizzativa, anche senza provare il suo coinvolgimento diretto in tutti i singoli reati commessi dal gruppo.

Il tempo trascorso dai fatti può indebolire le esigenze cautelari?
Non necessariamente. In questo caso, nonostante i fatti risalissero a diversi anni prima, la Corte ha confermato la misura cautelare in carcere basandosi sullo spessore criminale dell’indagato e sulla presunzione legale di adeguatezza esclusiva della detenzione in carcere per reati di mafia, volta a prevenire il rischio di recidiva.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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