Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 26264 Anno 2025
In nome del Popolo Italiano
Penale Sent. Sez. 1 Num. 26264 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/04/2025
PRIMA SEZIONE PENALE
NOME COGNOME
Sent. n. sez. 265/2025
– Relatore –
NOME COGNOME NOME COGNOME
ha pronunciato la seguente
Sui ricorsi proposti da:
NOME nato a null (TUNISIA) il 14/09/1992 NOME nato a null (TUNISIA) il 26/10/1984
avverso la sentenza del 23/09/2024 della Corte d’assise d’appello di Palermo udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto di tutti i ricorsi.
chiede l’accoglimento; l’avv. NOME COGNOME ha concluso riportandosi ai motivi di
RITENUTO IN FATTO
appello di Palermo ha confermato la decisione resa dalla Corte di assise di Trapani il 30 e NOME COGNOME erano stati giudicati in ordine ai seguenti reati: cod. pen., e all’art. 4, comma 1, legge 16 marzo 2006 n. 146, per essersi associati tra loro e separatamente) nonchØ con altri soggetti in corso di identificazione (tali NOME di Elfavoreggiamento dell’immigrazione illegale, fatti commessi in Tunisia e in Italia (San Teodoro
NOME COGNOME e NOME COGNOME per il delitto di cui agli artt. 110 e 112, primo comma, b), d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, per avere, in concorso morale e materiale fra loro e con separatamente), nonchØ con altri soggetti non identificati operanti in Tunisia, compiuto atti
inferiore a 10 di cittadini extracomunitari, fatti commessi in Tunisia ed in Italia, in San – NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME per il delitto di cui d), comma 3-bis, comma 3-ter, lett. b), d.lgs. n. 286 del 1998, per avere, in concorso morale separatamente) nonchØ con altri soggetti non identificati operanti in Tunisia, compiuto atti
28.05.2020 (capo 3);
112, primo comma, n. 1, cod. pen., art. 12, comma 1, comma 3, lett. a), b) e d), comma 3fra loro e con NOME COGNOME e NOME Diego (per i quali si Ł proceduto separatamente) nonchØ l’ingresso illegale nel territorio italiano di 16 cittadini extracomunitari, fatti commessi in – NOME COGNOME, per il delitto di cui agli artt. 110 e 112, primo comma, n. 1, cod. n. 286 del 1998, per avere, in concorso morale e materiale fra loro e con NOME COGNOME NOME territorio italiano di 13 cittadini extracomunitari, fatti commessi in Tunisia e in Italia, in San – Ridha Yazidi, per il delitto di cui agli artt. 61, n. 2, 81, secondo comma, e 110 cod. Nomi COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME (per i quali si Ł proceduto separatamente), con piø precisamente per assicurarsi il prodotto del viaggio del 1° agosto 2020, trasportato alcuni
alcuni giorni e altri presso il capanno di San Teodoro, fatto commesso in San Teodoro di – NOME COGNOME, per il delitto di cui agli artt. 61, n. 2, 81, secondo comma, e 110 cod. NOME COGNOME e NOME COGNOME (per i quali si Ł proceduto separatamente), con piø azioni precisamente per assicurarsi il prodotto del viaggio del 31 ottobre 2020, recuperato almeno capanno di San Teodoro, unitamente allo scafista NOME COGNOME, fatto commesso in San Teodoro
NOME COGNOME responsabile dei reati ascrittigli ai capi 1), escluse le aggravanti di cui cui all’art. 112, primo comma, n. 1, cod. pen., 12, comma 3, lett. b), d. lgs. n. 286 del 1998, e
dieci, mesi sei di reclusione ed euro 400.00,00 di multa;
all’art. 4 della legge n. 146 del 2006 e 416, quinto comma, cod. pen., 4), esclusa 1, cod. pen., e ritenuta la continuazione, lo aveva condannato alla pena di anni dodici di
NOME colpevole dei reati di cui ai capi 1), escluse le aggravanti di cui all’art. all’art. 112, primo comma, n. 1, cod. pen. e 12, comma 3, lett. b), d.lgs. n. 286 del 1998, e 3),
dodici di reclusione ed euro 400.000,00 di multa;
all’art. 4 legge n. 146 del 2006 e 416, quinto comma, cod. pen., 3), escluse le aggravanti di continuazione, lo aveva condannato alla pena di anni dieci, mesi sei di reclusione ed euro
NOME colpevole dei reati ascrittigli ai capi 1), escluse le aggravanti di cui all’art. esclusa l’aggravante di cui all’art. 112, primo comma, n. 1, cod. pen., e 7), esclusa condannato alla pena di anni undici, mesi sei di reclusione ed euro 450.000,00 di multa.
di interdizione legale durante l’espiazione della pena, nonchØ condannati al pagamento
delle anche al pagamento delle spese del proprio mantenimento in carcere durante la custodia della libertà vigilata per la durata di un anno nonchØ l’espulsione dei medesimi dal territorio A seguito di appello da parte degli imputati, con la sentenza in epigrafe, emessa il 23 prima decisione condannando i ricorrenti al pagamento delle ulteriori spese processuali e i
mantenimento in carcere durante la custodia cautelare.
dagli imputati e volti a procurare l’ingresso illegale in Italia di un numero superiore a cinque di cittadini extracomunitari.
Alla stregua delle conformi indicazioni delle decisioni di merito, tali viaggi sono rispettivamente quelli del 23 maggio 2020 (capo 2), del 28 maggio 2020 (capo 3), del 1° agosto 2020 (capo 4) e del 31 ottobre 2020 (capo 5), realizzati nell’ambito dei due sottogruppi riconducibili all’associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione illegale di cui al capo 1): il gruppo dei soggetti qualificati ‘canicattinesi’, composto da NOME COGNOME e NOME COGNOME, e quello dei tunisini ‘marsalesi’, comprendente NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e altri soggetti giudicati separatamente con rito abbreviato.
Il trasporto di migranti senza titolo legale avvenuto il 23 maggio 2020 (capo 2) era stato organizzato da COGNOME e da COGNOME, in contatto col referente avente base logistica in Tunisia, Fathi. L’iniziativa, riconducibile al gruppo dei ‘marsalesi’, era stata pianificata all’insaputa di NOME e COGNOME, in quanto l’imbarcazione acquistata da questi ultimi risultava ancora inutilizzabile a causa di un guasto. Per tale ragione, COGNOME ed COGNOME avevano deciso di procedere autonomamente, facendo ricorso a un natante diverso. Come emerso dalle intercettazioni telefoniche, il viaggio si era concluso con successo, ma al rientro in Italia, durante le operazioni di attracco, il natante aveva urtato un’altra imbarcazione, subendo danni alla prua. In tale occasione non era stato possibile identificare i migranti trasportati, nØ accertare con precisione il loro numero, che tuttavia era risultato non inferiore a dieci. Il successivo viaggio del 28 maggio 2020 (capo 3) era stato organizzato, ancora una volta, da Miladi e NOMECOGNOME come confermato da numerose conversazioni intercettate nei giorni precedenti. In esse si faceva riferimento, dapprima in modo criptico (con il termine ‘montoni’), poi esplicito, a un numero massimo di dieci passeggeri.
Tuttavia, dopo una breve navigazione, l’imbarcazione – sempre condotta da NOME COGNOME e NOME COGNOME – era stata costretta a fare ritorno nei pressi di Favignana a causa di problemi al sistema di accelerazione.
Il trasporto del 1° agosto 2020 (capo 4) e la successiva fuga dei migranti dal Centro di accoglienza (capo 7, ritenuto dalla Corte assorbito nel primo reato), erano stati preceduti dalla riparazione dell’imbarcazione acquistata nel gennaio precedente da COGNOME e COGNOME. Tale evento seguiva un incontro chiarificatore, avvenuto il 5 giugno 2020 tra Miladi, Ejjed, COGNOME e COGNOME, finalizzato a ricomporre le tensioni dovute all’esclusione dei ‘canicattinesi’ dai due viaggi precedenti, durante i quali era stata impiegata un’altra imbarcazione. Nel frattempo, tra il 19 e il 20 giugno 2020, NOME COGNOME era stato raggiunto da un decreto di espulsione, motivo per cui era stato sostituito nel ruolo di scafista da NOME COGNOME
Contestualmente, anche NOME era stato allontanato dal gruppo, perchØ era stato considerato inaffidabile.
Successivamente, tra il 18 luglio e il 9 agosto 2020, COGNOME si era recato in Tunisia con la famiglia, delegando la gestione operativa del viaggio al duo COGNOME. L’imbarcazione, condotta da COGNOME e NOME COGNOME, era partita in direzione delle coste tunisine e, al rientro in prossimità di Pantelleria, era andata in avaria, costringendo l’equipaggio a richiedere soccorso alla Guardia Costiera di Trapani. Le successive operazioni di sbarco e di identificazione avevano permesso di riscontrare la presenza sull’imbarcazione di 16 persone
(14 passeggeri e i due scafisti), imbarcazione che, al momento del soccorso, era
naufragata.
In data 9 agosto 2020, NOME COGNOME rientrava dalla Tunisia e veniva a conoscenza tanto dell’affondamento della barca a Pantelleria, quanto del trasferimento dei migranti trasportati presso il Centro di identificazione ed espulsione di Marsala: di qui la decisione di favorirne la fuga.
Le successive chiamate intercorse con NOME dimostravano che effettivamente COGNOME era riuscito a far fuggire i migranti dal Centro di accoglienza, ospitandoli, alcuni presso il capanno di San Teodoro, altri presso la propria abitazione a Paceco.
Avuta notizia dell’accaduto, anche NOME e COGNOME si erano attivati, su richiesta di COGNOME, per agevolare l’allontanamento dei migranti dal territorio marsalese: in particolare, l’11 agosto 2020, essi si erano recati al capanno di San Teodoro e avevano messo a disposizione un’autovettura per consentire uno spostamento piø sicuro e agevole dei migranti ospitati nella struttura.
Il trasporto dei migranti del 31 ottobre 2020 (capo 5), unitamente all’aiuto prestato alla loro successiva fuga (capo 8, per il quale NOME COGNOME Ł stato assolto per non aver commesso il fatto), era stato preceduto da una fase di preparazione logistica, durante la quale COGNOME e COGNOME si erano attivati per reperire un nuovo scafo. L’imbarcazione era stata infine acquistata da NOME COGNOME e trasportata, il 3 ottobre 2020, presso il capanno di San Teodoro.
A seguito dell’allontanamento di COGNOME il suo ruolo di scafista era stato assunto da NOME COGNOME imputato in procedimento connesso. Per la sola tratta di andata verso le coste tunisine, si era aggiunto un terzo soggetto, successivamente identificato in Aymen Abidi, già ricercato dalle autorità giudiziarie tedesche per un tentato omicidio commesso a Lipsia.
Nella notte del 31 ottobre 2020, l’imbarcazione aveva preso il largo, condotta da NOME COGNOME e COGNOME e con a bordo anche COGNOME sotto la supervisione a distanza di COGNOME ed COGNOME rimasti a monitorare l’operazione dal capanno di San Teodoro.
Il viaggio di rientro si era rivelato particolarmente complesso a causa delle avverse condizioni metereologiche, aggravate da episodi di tensione tra i migranti a bordo. Per tali ragioni, COGNOME aveva deciso di non approdare a Castelluzzo, come inizialmente pianificato, optando invece per un passaggio tra Isola Lunga e Favignana. Durante questa manovra, l’imbarcazione era stata intercettata da una motovedetta della Guardia Costiera, che aveva intimato l’alt. In quel momento, NOME COGNOME aveva assunto il comando del natante, sostituendo COGNOME che aveva manifestato l’intenzione di fermarsi immediatamente. Dopo una breve fuga, tutti i passeggeri avevano abbandonato il gommone, dirigendosi a piedi verso le saline di Isola Lunga.
Nella mattinata del 1° novembre 2020, le forze di polizia erano riuscite a individuare e fermare sei migranti. Diversamente, gli altri sette migranti, insieme a NOME COGNOME e COGNOME, erano riusciti a dileguarsi facendo perdere le proprie tracce. Tra il 1° e il 3 novembre 2020, l’imputato in procedimento connesso, COGNOME con l’ausilio della compagna COGNOME aveva provveduto a nascondere i migranti alternando la loro sistemazione tra la propria abitazione e il capanno di San Teodoro, nonchØ accompagnandoli successivamente alla Stazione ferroviaria o alle fermate degli autobus per agevolarne la fuga sul territorio nazionale ed europeo.
Dati per assodati questi elementi di fatto e analizzatene le implicazioni giuridiche che sono state ritenute scaturenti dagli stessi, i giudici del merito hanno raggiunto il già richiamato approdo decisorio.
La difesa di COGNOME ha proposto ricorso per cassazione e, con l’atto di impugnazione, dopo aver ripercorso le vicende dei precedenti gradi di merito, con le relative iniziative difensive, ha articolato cinque motivi avverso la sentenza di appello di cui ha chiesto l’annullamento.
3.1. Con il primo motivo si denunciano la violazione degli artt. 192 cod. proc. pen. e 416 cod. pen., nonchØ il corrispondente vizio di motivazione.
Secondo la prospettazione difensiva, i giudici di merito hanno attribuito a COGNOME un ruolo apicale nell’organizzazione criminale senza fornire una motivazione adeguata, incorrendo anzi in evidenti errori di fatto. Il procedimento penale aveva avuto origine da un’indagine a carico di NOME COGNOME in ragione di alcuni acquisti anomali da lui effettuatiperaltro in contrasto con la sua attività lavorativa – di imbarcazioni presumibilmente destinate a finalità illecite, in particolare al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.Solo successivamente il ricorrente era stato coinvolto nel procedimento, in quanto osservato in diverse occasioni in compagnia dello stesso COGNOME.
La vicinanza a NOME Ł stata valorizzata quale elemento idoneo a comprovare il ruolo attivo e strutturato di Yazidi nell’attività illecita, circostanza che, secondo la difesa, non era sufficiente a fondare la responsabilità dell’imputato come contestata al capo 1).
Al contrario, la Corte territoriale ha omesso di considerare elementi di segno opposto,
in particolare la collaborazione del ricorrente con i servizi segreti italiani. In tale contesto, egli
aveva raccolto e trasmesso informazioni e materiali probatori – tra cui fotografie e filmati relativi al traffico di migranti, contribuendo attivamente all’attività investigativa.
Nonostante ciò, la sentenza impugnata ha erroneamente qualificato COGNOME come finanziatore e organizzatore del sodalizio, attribuendogli compiti quali la sorveglianza del capanno e la gestione dei natanti, in assenza di concreti riscontri probatori.
La difesa evidenzia, pertanto, come tali affermazioni risultino sfornite di fondamento logico-giuridico e non coerenti con le risultanze processuali effettivamente acquisite. 3.2. Il secondo motivo deduce la violazione degli artt. 192, 630 e 648 cod. proc. pen. e 12, comma 3, lett. a) e d), e comma 3-ter, lett. b), d.lgs. n. 286 del 1998, nonchØ il correlato vizio di motivazione.
La difesa solleva il problema di un contrasto di giudicati con riferimento alla sentenza che ha assolto il coimputato COGNOME per lo stesso reato.
In particolare, si sottolinea che, nel caso di COGNOME, la sentenza di assoluzione Ł passata in giudicato, in quanto non Ł stata raggiunta la prova che il coimputato avesse effettivamente partecipato al trasporto dei migranti, per ciò che concerne il reato di cui al capo 7); fatto che, invece, Ł stato attribuito a Yazidi, nonostante entrambi fossero coinvolti allo stesso modo. La questione del contrasto di giudicati, già avanzata in sede di appello, era stata condivisa dal Procuratore generale territoriale, il quale aveva conseguentemente concluso per l’assoluzione di COGNOME proprio con riferimento al reato di cui al capo 7), per non avere commesso il fatto.
Emerge, quindi, per la difesa, la contraddizione sussistente fra l’assoluzione di COGNOME e la condanna di COGNOME in ordine allo stesso episodio, al riguardo sottolineandosi l’errore di valutazione in cui Ł incorsa la Corte di assise di appello, che ha giustificato la condanna del ricorrente facendo riferimento a una serie di elementi di prova non sufficienti o congruenti. In particolare, la Corte territoriale ha preso in considerazione le dichiarazioni di alcuni testimoni, tra cui COGNOMEcompagna di Ejjed), che ha dichiarato di aver ospitato i migranti a
casa sua e che sia NOME che NOME si erano attivati per favorire la loro fuga dal centro di accoglienza. A supporto sono state presentate anche delle immagini di videosorveglianza che mostrano NOME e NOME recarsi insieme al capanno di San Teodoro, dove si trovavano i migranti. Tuttavia, la difesa contesta la valenza di tali prove, in quanto le ritiene insufficienti
a
dimostrare inequivocabilmente la partecipazione di COGNOME al trasporto dei migranti. Nella corrispondente prospettiva, il fatto che COGNOME fosse stato visto nel capanno di San Teodoro in data 11 agosto 2020, anzichØ giustificare l’inquadramento della condotta illecita compiuto da parte della Corte di assise di appello, sarebbe di valenza neutra, perchØ tale eventuale presenza non giustificherebbe di per sØ la conclusione che l’imputato abbia partecipato alla ricerca e al trasporto dei migranti presso l’abitazione di Ejjed. Anche la circostanza che il cellulare di Yazidi sia stato agganciato ai ripetitori vicino al capanno di San Teodoro viene considerata un elemento indiretto, ma privo di efficacia dimostrativa concreta e precisa: non Ł stato, infatti, chiarito se questi ripetitori fossero effettivamente rilevanti per il caso, nØ se ci fosse una corrispondenza precisa tra la posizione
del cellulare di NOME e quella degli altri soggetti coinvolti.
Inoltre, la Corte ha basato parte della sua decisione sull’intercettazione telefonica, nella quale il testimone NOME avrebbe riconosciuto la voce di COGNOME in sottofondo: tuttavia, la difesa obietta che tale riconoscimento non Ł stato fatto con assoluta certezza, in quanto il testimone ha dichiarato di aver riconosciuto la voce di COGNOME “per assonanza”.
Era stata chiesta – soggiunge il ricorrente – anche una perizia fonica comparativa per accertare la veridicità di tale riconoscimento, ma questa richiesta Ł stata respinta.
Tutte queste considerazioni impongono, secondo la difesa, la conclusione che la motivazione della sentenza di appello Ł contraddittoria, poichØ essa si fonda sugli elementi, confutati nei sensi predetti, inidonei a provare con sufficiente certezza il coinvolgimento di COGNOME nel trasporto dei migranti.
3.3. Con il terzo motivo si denunciano la violazione degli artt. 195, 507 e 603 cod. proc. pen. e 9 della legge 16 marzo 2006, n. 146, nonchØ l’illogicità della motivazione. Il ricorrente contesta il rigetto delle istanze istruttorie formulate per l’ammissione dell’audizione di testimoni ritenuti essenziali ai fini della decisione.
In particolare, si fa riferimento all’ordinanza del 9 ottobre 2023 che aveva respinto le richieste di integrazione istruttoria, includenti l’audizione di due funzionari dei servizi segreti, NOME e NOMECOGNOME il cui coinvolgimento nella vicenda era emerso dalle dichiarazioni di alcuni testimoni, tra cui l’imputato COGNOME e l’ispettore COGNOME. Questi testimoni avevano dichiarato che i servizi segreti italiani avevano monitorato l’ingresso di migranti sospetti, inclusi membri di possibili cellule jihadiste. La difesa e il Pubblico ministero avevano quindi richiesto di ascoltare questi testimoni per chiarire la posizione dell’imputato in relazione alla sua presunta collaborazione con i servizi segreti, in quanto le loro dichiarazioni avrebbero avuto conseguenze determinanti per stabilire se egli fosse o meno responsabile penalmente.
Però – lamenta il ricorrente – la Corte di assise, nonostante la rilevanza di queste testimonianze, aveva respinto l’istanza di esame dei due indicati soggetti, sostenendo che le informazioni emerse durante il processo non rendevano indispensabile la loro audizione. Questo approdo era stato stigmatizzato dalla difesa come un errore grave, per cui, con
i motivi di appello era stata formulata la corrispondente richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, dal momento che il rigetto delle istanze istruttorie aveva determinato la violazione del diritto di difesa, precludendo l’ingresso nel quadro probatorio di elementi fondamentali per la decisione. Inoltre, la motivazione della Corte di assise riguardo alla mancata audizione dei testimoni era stata considerata illogica, in quanto non aveva preso in considerazione le implicazioni che l’informazione riguardante il coinvolgimento dei servizi segreti avrebbe avuto sul caso.
Anche da parte dei giudici di appello, però, si Ł ritenuto irrilevante verificare l’eventuale collaborazione dell’imputato con i servizi segreti, sostenendosi che ciò non avrebbe escluso la sua responsabilità penale, in base all’art. 9 della legge n. 146 del 2006, che disciplina le infiltrazioni e le operazioni sotto copertura: anche se fosse provato che l’imputato aveva collaborato con i servizi segreti, tale attività sarebbe stata comunque considerata illecita e non avrebbe escluso la sua responsabilità penale.
La difesa contrasta questa interpretazione, evidenziando che la giurisprudenza piø recente stabilisce che l’inosservanza degli obblighi di comunicazione con il pubblico ministero non invalida i risultati delle attività di infiltrazione, come prevista dalla legge. Secondo il ricorrente, quindi, la Corte di assise di appello avrebbe dovuto accogliere l’istanza di riapertura dell’istruttoria e ammettere l’esame dei testimoni fondamentali per chiarire la verità dei fatti, in tal senso contestando sia la decisione di non ammettere le richieste istruttorie e sia la motivazione adottata a tale scopo, per la mancata valutazione
dei
fatti prospettati e anche per l’errore di interpretazione della normativa applicabile. 3.4. Il quarto motivo denuncia la violazione dell’art. 12, commi 1, 3, lett. a), b), d), 3-bis, 3-ter, lett. b), d.lgs. n. 286 del 1998 e il corrispondente vizio di motivazione. Il ricorrente contesta l’applicazione dell’aggravante del profitto, prevista dal comma 3ter dell’art. 12 cit., che comporta l’aumento della pena e una multa per ogni persona coinvolta nei reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Si fa notare che l’aggravante Ł stata applicata sulla base delle dichiarazioni della coimputata NOME COGNOME la quale, pur avendo detto di essere stata consapevole delle attività delittuose del marito e degli altri membri del gruppo, non ha, però, menzionato mai COGNOME nØ fornito elementi che collegassero quest’ultimo ai guadagni derivanti dal traffico di migranti.
La Corte territoriale ha basato l’applicazione dell’aggravante sul racconto della coimputata, ma a conforto di questa dichiarazione – evidenzia la difesa – non sono emerse prove sufficienti tali da confermare il coinvolgimento diretto di COGNOME nei guadagni del traffico: specificamente, non risultano elementi dimostrativi del fatto che COGNOME ha ricevuto compensi per le attività criminali, mentre il suo nome non compare nei contatti relativi alla gestione dei profitti. Inoltre, Ł emerso che il gruppo dei tunisini di Marsala aveva operato autonomamente in alcuni viaggi, senza coinvolgere COGNOME.
La difesa ritiene, quindi, che dovesse e debba concludersi nel senso che l’applicazione dell’aggravante, in mancanza di prove concrete del coinvolgimento di COGNOME nel profitto del traffico, Ł errata e ha determinato un aumento ingiustificato della pena: di conseguenza, la condotta di COGNOME dovrebbe essere rivalutata, anche alla luce delle attenuanti, che dovrebbero prevalere sulle aggravanti, permettendo una significativa riduzione della pena. Il ricorrente sottolinea che l’elaborazione giurisprudenziale conferma che, in materia di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, l’aggravante del fine di profitto deve basarsi sull’emersione di un intento specifico e non si applica a chi, pur consapevole del profitto
altrui, non agisce per questa finalità: di conseguenza, l’aggravante non può essere applicata a Yazidi.
3.5. Con il quinto motivo si lamentano la violazione dell’art. 133 cod. pen. e l’illogicità della motivazione.
In particolare, il ricorrente contesta il trattamento relativo al reato di cui al capo 7) che, pur essendo stato assorbito nel capo 4), ha comunque influenzato la determinazione della pena, ivi inclusa la valutazione delle attenuanti generiche e della minima partecipazione. Secondo la difesa, i giudici di appello hanno errato nel ritenere che il reato di cui al capo 7) non avesse avuto incidenza sulla pena. Infatti, la continuazione tra i due reati Ł rimasta invariata e, sebbene il fatto sub 7) sia stato ritenuto assorbito in quello sub 4), esso ha avuto un impatto significativo in merito alla valutazione del dolo e della condotta, con conseguente effetto in punto di quantificazione della pena.
In questa direzione, si sostiene, l’assorbimento di un reato inesistente, quello di cui al capo 7), nel reato di cui al capo 4) ha impedito un adeguato esame dell’istanza di riconoscimento delle circostanze attenuanti, precludendo anche il conseguente ridimensionamento dell’importanza della condotta dell’imputato, con la quantificazione di
una
pena piø severa di quella che sarebbe stata irrogata senza la sua considerazione. Per il ricorrente, la Corte territoriale ha illogicamente affermato che la Corte di primo grado aveva considerato il fatto di cui al capo 7) come assorbito nel reato di cui al capo 4) senza applicare un aumento di pena per la continuazione del reato: si sottolinea, in contrario, che l’assenza di impugnazione da parte del Pubblico ministero non ha impedito che il reato di cui al capo 7) abbia inciso sulla motivazione della sentenza e sulla determinazione della pena, dal momento che la Corte di assise di appello, se ha confermato la decisione di primo grado, escludendo la possibilità di un incremento di pena per quel reato, ha, in pari tempo, deciso per il diniego delle attenuanti e compiuto una valutazione errata della condotta del ricorrente.
Pertanto, tale conclusione Ł, per la difesa, l’esito dell’illogicità del ragionamento della Corte distrettuale, con la conseguente ingiustizia nella quantificazione della pena, che ha penalizzato ingiustamente l’imputato, risultandone alterata la proporzionalità della pena.
Il difensore di NOME COGNOME ha impugnato la sentenza di appello formulando cinque motivi.
4.1. Con il primo motivo si prospettano l’inosservanza di norme processuali relative allo stato di latitanza, segnatamente gli artt. 179, comma 1, 295, 296, 453 e 456 cod. proc. pen., e il corrispondente vizio della motivazione.
La difesa sostiene l’evenienza di un evidente vizio motivazionale, in quanto le Corti di merito hanno ritenuto legittima la dichiarazione di latitanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo in data 8.07.2022, nonostante mancasse qualsiasi riferimento agli elementi, anche presuntivi, dai quali il giudice procedente avrebbe potuto desumere la volontà dell’imputato di sottrarsi alle ricerche dell’autorità, elemento soggettivo imprescindibile per la configurabilità della condizione di latitante.
All’epoca dell’emissione del provvedimento – si fa notare – il giudice procedente si era limitato unicamente a constatare il fallimento dell’obiettivo coercitivo, richiamando i verbali di vane ricerche del 5, 6 e 7 luglio 2022 e ritenendo, sulla scorta degli stessi, che le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria fossero esaurienti: tuttavia, non risultava fornita alcuna motivazione in merito all’elemento soggettivo della latitanza e tale carenza, già oggetto di contestazione in appello, ha, secondo la difesa, reso manifestamente illogica la motivazione
della sentenza impugnata, la quale ha cercato di colmare ex post la lacuna attraverso presunzioni tese a desumere la volontà di COGNOME di sottrarsi alle ricerche.
La Corte di assise di appello di Palermo, sul punto, ha sostenuto che l’imputato era senz’altro in condizione di prevedere l’emissione del provvedimento di coercitivo a suo carico per i delitti contestati, desumendo ciò dal ruolo assunto nel sodalizio criminale, dal fatto che il tentativo di esecuzione della misura cautelare nei suoi confronti era stato
esperito
anche dopo la notoria cattura dei coimputati, avvenuta il 5.07.2022, nonchØ dal rilievo che il fratello dell’imputato era stato informato delle ricerche dalle stesse autorità di polizia che, fin dalla suddetta data del 5 luglio 2022, si erano rivolte a lui per rintracciare COGNOME
La difesa obietta che tali argomentazioni si basano su presunzioni non ancorate a precisi dati fattuali: in primo luogo, il ruolo assunto dall’imputato all’interno dell’organizzazione non può fondare una presunzione idonea a disvelare la volontarietà della
sua sottrazione, dal momento che COGNOME non rivestiva un ruolo di vertice, limitandosi a svolgere mansioni meramente operative, senza mai partecipare alle riunioni dell’organizzazione; in secondo luogo, il riferimento alla ‘notoria’ cattura dei coimputati risulta privo di fondamento, in quanto l’imputato aveva interrotto ogni rapporto con loro già nel 2020, sicchØ, al momento delle ricerche nei suoi confronti, non aveva alcun collegamento o comunicazione con gli altri soggetti coinvolti, nØ con terzi che potessero informarlo della loro cattura e, peraltro, tale cattura non aveva avuto alcuna risonanza mediatica; infine, il fatto che il fratello dell’imputato era stato informato delle ricerche non dimostrava in alcun modo che COGNOME fosse a conoscenza del provvedimento nei suoi confronti, posto che, al contrario, il fratello aveva subito fornito l’utenza cellulare che le autorità di polizia avevano utilizzato per il rintraccio dell’imputato e, del resto, non poteva escludersi che tale utenza fosse irraggiungibile anche per quel congiunto.
La sentenza impugnata, inoltre, non affronta in alcun modo, secondo la difesa, la circostanza, già evidenziata, relativa alla richiesta di permesso di soggiorno presentata dallo stesso COGNOME in data successiva ai fatti contestati: tale richiesta era stata avanzata il 3.08.2020, ossia in data successiva all’ultimo dei viaggi effettuati e, in quella occasione, egli aveva fornito spontaneamente alle Autorità italiane un indirizzo al quale poter essere rintracciato, alla INDIRIZZO Sinalunga, in provincia di Siena.
Alla luce di tale elemento – si obietta – pare del tutto illogico che un soggetto animato dalla volontà di sottrarsi ad un’eventuale cattura da parte delle Autorità italiane cerchi di regolarizzare la propria posizione sul territorio nazionale, fornendo un indirizzo al quale
poter
essere rintracciato.
Infine, dagli atti presenti nel fascicolo non emergerebbe alcuna prova che l’imputato avesse effettivamente lasciato il territorio italiano per recarsi in Francia a seguito dell’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare.
Sulla base di questi rilievi, la difesa ha reiterato la deduzione della nullità del decreto di latitanza in esame, con la conseguente necessità di regressione del procedimento al momento in cui era stato emesso l’atto nullo.
4.2. Il secondo motivo denuncia l’inosservanza di norme processuali, segnatamente gli artt. 189 e 191 cod. proc. pen., la violazione degli artt. 266 e 267 cod. proc. pen., in relazione all’art. 817 cod. civ. ed all’art. 14 Cost., nonchØ il corrispondente vizio della motivazione,
apparente e lacunosa.
La sentenza impugnata ha, per la difesa, omesso del tutto di prendere in esame o comunque ha affrontato in modo insufficiente e inadeguato le doglianze, avanzate in appello, con cui si era contestata specificatamente l’utilizzabilità delle videoregistrazioni effettuate dalla polizia giudiziaria in ambito domiciliare.
Sul punto, si fa carico alla Corte di assise di appello di essersi limitata a un generico rinvio ai contenuti della decisione di primo grado, senza procedere a un’adeguata disamina della doglianza: le brevi argomentazioni contenute in sentenza risultano, secondo il ricorrente, illogiche e non condivisibili, laddove esse hanno confermato le conclusioni del giudizio di primo grado ritenendo che le riprese non avessero interessato l’interno di un luogo di privata dimora, ma soltanto gli spazi esterni antistanti.
Nello specifico, il luogo in questione Ł individuato con l’area esterna al capanno, situata all’interno della recinzione, luogo che entrambi i giudici di merito hanno qualificato come ‘luogo esposto al pubblico’, sulla base del fatto che i teli verdi posti a suo presidio erano lacerati in diverse parti.
Tale qualificazione, per il ricorrente, Ł erronea, poichØ l’area costituiva una pertinenza della privata dimora, per la videoregistrazione nel cui ambito il Pubblico ministero avrebbe dovuto ottenere la preventiva autorizzazione dal Giudice per le indagini preliminari: trattandosi di un’attività investigativa incidente sul principio costituzionale della riservatezza del domicilio, tutelato dall’art. 14 Cost., non rilevavano nØ il fatto che i comportamenti registrati fossero ‘non comunicativi’, nØ la circostanza che i teli della recinzione presentassero lacerazioni in alcuni punti, in quanto la disciplina dettata a tutela del domicilio si estende anche alle pertinenze dell’abitazione, secondo la definizione dettata dall’art. 817 cod. civ.
Alla luce di tali considerazioni la difesa chiede la dichiarazione di inutilizzabilità delle riprese effettuate all’interno dell’intera area recintata a presidio del capanno sito nella INDIRIZZO di Marsala.
4.3. Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell’art. 416 cod. pen. con riferimento all’affermazione di responsabilità dell’imputato per il delitto associativo di cui al capo 1), nonchØ il corrispondente vizio della motivazione, manifestamente illogica e contraddittoria. La Corte di assise di appello di Palermo ha ritenuto Hassen partecipe dell’associazione per delinquere senza tuttavia operare un’adeguata applicazione dei principi regolatori in materia.
In particolare, ai fini della configurabilità di tale delitto, Ł necessario che sussistano la formazione e la permanenza di un vincolo associativo continuativo fra tre o piø persone allo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti, la predisposizione comune di mezzi occorrenti per la realizzazione del programma delinquenziale, la permanente consapevolezza, da parte di ciascun associato, di far parte del sodalizio e di essere disponibile ad operare per l’attuazione del programma stesso: tali requisiti, tuttavia, non possono ritenersi integrati nel caso di COGNOME, secondo la difesa, dal momento che non risponde di tale delitto colui che partecipi alla commissione di uno solo o piø reati qualora ignori l’esistenza dell’associazione, non potendo in ogni caso ipotizzarsi una partecipazione nel delitto a titolo di dolo eventuale, essendo, del resto, pacifica la distinzione tra la partecipazione concorsuale, in cui l’accordo Ł limitato alla realizzazione di uno o piø reati, e l’associazione a delinquere, che presuppone un vincolo stabile e durevole volto all’attuazione del programma criminoso.
Alla luce di tali principi, la sentenza impugnata viene considerata erronea, in quanto con essa si Ł desunta la prova del vincolo associativo dalla mera commissione dei reati contestati, laddove la commissione di uno o piø delitti programmati dall’associazione non dimostra di per sØ l’adesione alla stessa e, dunque, l’affectio societatis, essendo necessario un accertamento autonomo della partecipazione all’associazione, distinto da quello relativo ai reati-fine.
In particolare, non si sarebbe adeguatamente, considerato che, al di là dell’accordo specifico intervenuto tra COGNOME e COGNOME affinchØ il primo effettuasse alcuni viaggi per conto del secondo, non era emersa alcuna prova del coinvolgimento dell’imputato nell’associazione e nelle dinamiche ad essa sottese: non era stato dimostrato che COGNOME fosse a conoscenza della struttura organizzativa del sodalizio, nØ era affiorato alcun elemento dimostrativo del fatto che l’imputato avesse agito con la coscienza e volontà di far parte di un’associazione esistente.
A supporto di tale prospettazione critica si fa notare che COGNOME non conosceva alcuno degli altri membri dell’organizzazione, ad eccezione di COGNOME, con il quale, peraltro, non erano risultati scambi di informazioni circa le modalità organizzative dell’associazione. Tale circostanza si sostiene essere stata ulteriormente avvalorata dalla testimonianza del coimputato COGNOME il quale, nel corso dell’udienza del 24.07.2023, aveva dichiarato di non essere in grado di riconoscere COGNOME: Ł, dunque, incomprensibile come la Corte di merito abbia potuto ritenere falsa tale dichiarazione, senza neppure spiegare quale interesse avrebbe avuto COGNOME a mentire sul punto, considerando che, al momento della sua deposizione, il procedimento di primo grado (celebrato nelle forme del rito abbreviato) era già concluso e non vi erano particolari legami tra lui e COGNOME tali da giustificare una deposizione compiacente.
Inoltre, si sottolinea che, nell’ambito delle vicende in esame, il ruolo di COGNOME si Ł concretizzato esclusivamente nella conduzione del natante che ha preso il largo nelle date del 23 maggio, 28 maggio e 1° agosto 2020, senza che egli abbia fornito alcun ulteriore contributo significativo: fatta eccezione per l’incarico di scafista conferitogli da COGNOME, l’imputato deve ritenersi estraneo all’associazione, il ruolo da lui rivestito potendo essere affidato anche a soggetti diversi, come di fatto era poi avvenuto con la sostituzione di COGNOME da parte del coimputato NOME COGNOME; peraltro, i mezzi propri del sodalizio, quali le imbarcazioni, erano messi a disposizione di COGNOME solo in via occasionale e in prossimità
delle traversate.
La difesa ha sostenuto anche che si Ł verificato un evidente travisamento della prova laddove si Ł ritenuto che la dichiarazione resa da COGNOME, sull’anticipo di cui avrebbe necessitato prima dei futuri viaggi, costituisse un’espressione della sua adesione al programma criminale e della volontà di non arrestarsi ai viaggi effettuati a maggio: al contrario, dalla stessa intercettazione emerge chiaramente che COGNOME si era espresso in termini puramente ipotetici (‘se hai bisogno di me e se c’Ł lavoro … ci mettiamo d’accordo’), escludendo qualsiasi accordo già definito per sue ulteriori attività da scafista. Dalla conversazione intercettata si evince, piuttosto, che COGNOME considerava il proprio ruolo come un’attività occasionale, facendo capire chiaramente che, qualora il gruppo avesse voluto nuovamente impiegarlo per svolgere la singola attività, il relativo pagamento avrebbe dovuto essere effettuato in anticipo, quantomeno con il versamento di un acconto.
Alla luce di tali elementi, l’apporto di COGNOME si conferma, per la difesa sensibilmente ridimensionato rispetto a quanto hanno affermato i giudici di appello, sicchØ la sua condotta potrebbe al piø configurare un concorso di persone ex art. 110 cod. pen. nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, non l’adesione consapevole a un’associazione.
4.4. Il quarto motivo denuncia violazione di legge in relazione all’art 12., comma 3, lett.
a), d.lgs. n. 286 del 1998, nonchØ il corrispondente vizio di motivazione.
La difesa censura l’erroneità della decisione nella parte in cui ha confermato la statuizione di primo grado in merito alla sussistenza dell’aggravante speciale di cui all’art. 12, comma 3, lett. a), d.lgs. cit., relativa all’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o piø persone.
Si ritiene illogica la valutazione che ha portato a ritenere integrata tale aggravante con riferimento alla condotta contestata al capo 3), concernente il viaggio del 28 maggio 2020: quest’ultimo, infatti, non aveva determinato il trasporto effettivo di migranti illegali, con la conseguenza che si era criticata la sentenza di primo grado laddove aveva ritenuto sussistente l’aggravante, nessun rilievo potendo essere attribuito al mero intento di far entrare nel territorio italiano almeno dieci cittadini tunisini; la circostanza in esame trova applicazione esclusivamente nei casi in cui il viaggio sia stato effettivamente compiuto e il numero dei soggetti trasportati sia certo e determinato.
Sul punto, lamenta la difesa, nemmeno la sentenza della Corte di assise di appello ha fornito alcuna risposta, giacchØ Ł stato omesso qualsiasi esame della doglianza difensiva. 4.5. Il quinto motivo deduce la violazione dell’art. 62-bis cod. pen.
La sentenza impugnata ha negato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in modo che il ricorrente reputa apodittico e irragionevole, avendo fondato tale diniego su una motivazione non solo sintetica, ma anche logicamente viziata. di cui all’art. 12, comma 3-quinquies, d.lgs. cit., non potesse, per converso, legittimare
L’unica ragione addotta per giustificare tale scelta Ł che l’imputato avrebbe mentito su elementi fondamentali relativi alla propria responsabilità: si osserva, tuttavia, come tale argomentazione, pur potendo astrattamente giustificare l’esclusione dell’attenuante speciale anche il diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Al contrario, per il ricorrente, il giudice avrebbe dovuto valutare positivamente una serie di elementi che avrebbero imposto il riconoscimento delle suddette attenuanti, tra cui il comportamento processuale dell’imputato: COGNOME aveva ammesso la propria
responsabilità
in relazione a reati che inizialmente non gli erano stati contestati, determinando l’instaurazione di un nuovo procedimento per il viaggio del 23 maggio; inoltre, la sua condizione di grave emarginazione sociale e arretratezza culturale – quale soggetto irregolare e senza fissa dimora in Italia – avrebbe dovuto considerarsi ai fini della mitigazione del trattamento sanzionatorio.
Da ultimo – si aggiunge – il fatto che l’imputato avesse fornito dichiarazioni non veritiere sulle motivazioni del viaggio del 23 maggio, pur ammettendo la propria presenza a bordo dello scafo, non avrebbe potuto valutarsi in senso negativo, costituendo tale dichiarazione un’espressione del suo ‘diritto a mentire’, riconosciuto dall’ordinamento processuale.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore di NOME COGNOME articolando sei motivi.
5.1. Con il primo motivo si lamenta il vizio di motivazione in relazione agli artt. 416, primo, secondo, terzo, quinto e sesto comma, e 4, comma 1, della legge n. 146 del 2006. La difesa censura la sentenza impugnata per illogicità della motivazione, in quanto l’affermazione della penale responsabilità di COGNOME, in relazione al reato associativo, risulta fondata su argomentazioni del tutto generiche.
Posto che la ricostruzione operata dai giudici di merito delineerebbe il ricorrente come un sodale attento a ogni aspetto della vita dell’organizzazione, particolarmente ‘smanioso’ di effettuare i viaggi per il trasporto dei migranti, incurante persino delle restrizioni legate all’epidemia da Covid-19, la difesa, nel contestare tale assunto, evidenzia l’assenza di elementi idonei a comprovare l’esistenza dell’affectio societatis.
A sostegno di tale tesi vengono richiamate le captazioni acquisite agli atti, segnatamente quelle del 26.02.2020, del 19.03.2020 e del 20.03.2020, dalle quali si sostiene evincersi come COGNOME fosse considerato ‘una mina vagante decontestualizzata dal sodalizio di cui non condivide gli obiettivi, progetti, scopi e modalità di realizzazione degli eventi’; e, a conferma, si evidenzia che COGNOME fu effettivamente allontanato nel giugno del 2020.
Alla luce di tali elementi, la difesa contesta la motivazione nella parte in cui non chiarisce come un soggetto che aveva partecipato ad un numero limitato di condotte e successivamente era stato allontanato dal sodalizio potesse e possa essere considerato un associato, non avendo egli condiviso, con carattere di stabilità, le finalità proprie dell’associazione di cui avrebbe fatto parte: la mera esistenza di dialoghi, contatti e frequentazioni con altri coimputati non sarebbe sufficiente a dimostrare l’intraneità al sodalizio, difettando il requisito essenziale della stabilità del vincolo associativo, che deve avere natura permanente e protrarsi oltre la realizzazione dei delitti che siano stati eventualmente già programmati.
A supporto di tale argomentazione la difesa ricorda che le semplici frequentazioni per parentela, affetti, comune estrazione ambientale o sociale, amicizia, per rapporti di affari non possono di per sØ essere utilizzate come prove dell’organizzazione criminale, nØ dell’appartenenza a essa.
Infine, si sottolinea che l’assenza di un vincolo associativo stabile trova ulteriore conferma nel fatto che COGNOME avrebbe partecipato soltanto a due traversate (23.05.2020 e 28.05.2020), durante le quali avrebbe simulato un guasto al motore al fine di partecipare direttamente alle corrispondenti attività, mostrandosi poco affidabile al cospetto degli altri coimputati: anche tale circostanza sarebbe stata ingiustamente pretermessa dalla motivazione della sentenza impugnata.
5.2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione degli artt. 416, primo, secondo, terzo, quinto e sesto comma, e 4, comma 1, legge n. 146 del 2006.
La difesa evidenzia che le immagini delle telecamere di videosorveglianza, risultate fondamentali ai fini dell’affermazione della penale responsabilità del ricorrente e degli altri coimputati, sono inutilizzabili, trattandosi di attività captativa effettuata all’interno di un luogo costituente una ‘privata dimora’ che avrebbe necessitato, quale presupposto di ammissibilità, del provvedimento autorizzativo del Giudice per le indagini preliminari, nel caso di specie mancante, e, pertanto, rappresentano una prova illecitamente acquisita. Sull’argomento, i giudici di merito, sia in primo grado che in appello, hanno tuttavia ritenuto legittima l’acquisizione delle immagini, affermando che i luoghi ripresi erano esposti
al pubblico e, pertanto, le immagini stesse rientravano fra le prove atipiche, ex art. 189 cod. proc. pen., per la quali non era necessario un provvedimento autorizzativo dell’Autorità giudiziaria. Si era affermato che le videoriprese di comportamenti ‘non comunicativi’, che rappresentino la mera presenza di cose o persone e i loro movimenti, costituiscono prove atipiche, se eseguite in luoghi pubblici, aperti al pubblico, ovvero in ambienti privati diversi dal domicilio.
Si Ł evidenziato, nelle decisioni, che, nel caso di specie, due delle tre videocamere installate riprendevano luoghi certamente aperti al pubblico (la strada di accesso al molo antistante), senza interessare direttamente il capanno, il quale era delimitato da un cancello e una rete con teli verdi lacerati in diverse parti.
La difesa, tuttavia, contesta la correttezza di tale ricostruzione, sostenendo che il luogo definito ‘esposto al pubblico’ andasse e vada, in realtà, qualificato come domicilio o privata dimora, con la conseguente necessità di un’autorizzazione del Giudice per le indagini preliminari ai fini dello svolgimento delle attività di videosorveglianza, trattandosi di attività investigative che involgono il fondamentale principio costituzionale della riservatezza del domicilio di cui all’art. 14 Cost., a nulla rilevando il fatto che si trattasse di comportamenti ‘non comunicativi’ o che i teli posti a presidio della recinzione fossero lacerati in alcune parti.
Pertanto, le videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi effettuate in ambito domiciliare non possono essere considerate prove atipiche, dunque, se acquisite in violazione dell’art. 14 Cost. devono ritenersi inammissibili.
In tal senso anche questo ricorrente ha reiterato la questione di inutilizzabilità delle immagini, sostenendo che l’area esterna al capanno andava e va qualificata come pertinenza di privata dimora e, in quanto tale, assimilata al domicilio in senso proprio. 5.3. Con il terzo motivo la difesa lamenta il vizio di motivazione in relazione agli artt. 110 cod. pen. e 12, commi 3, lett. a) e d), 3-bis, 3-ter d.lgs. n. 286 del 1998. Si denuncia l’illogicità e l’infondatezza della contestazione relativa ai capi di imputazione riferiti al viaggio realizzato in data 23 maggio 2020, nel corso del quale sarebbero state introdotte illegalmente nel territorio italiano dieci persone: secondo la difesa, dagli atti dell’istruttoria dibattimentale non emergono elementi sufficienti a dimostrare la responsabilità del ricorrente, poichØ la ricostruzione dei fatti Ł stata basata esclusivamente sulla scorta di quanto era accaduto il successivo 28 maggio 2020, senza che fossero svolti adeguati accertamenti in merito all’effettivo svolgimento del viaggio e, in particolare, al numero di migranti irregolari presenti all’interno dell’imbarcazione.
5.4. Con il quarto motivo di ricorso la difesa evidenzia il vizio di motivazione in relazione agli artt. 110 cod. pen. e 12, commi 3, lett. a) e d), 3-bis, 3-ter, lett. b), d.lgs. 286 del 1998. Si contesta la ricostruzione operata dai giudici di merito, secondo cui NOME sarebbe stato coinvolto nel trasporto di cartoni di sigarette marca ‘Pine o Royal’ e di migranti nel numero di dieci, ricostruzione basata su un’interpretazione arbitraria e priva di riscontro fattuale.
In primo luogo, si sottolinea che il ricorrente non aveva mai avuto l’intenzione di portare a termine il progetto criminoso, avendo simulato un guasto al motore e ingannato i complici dell’organizzazione con base in Tunisia, con l’obiettivo di sottrarsi a qualsiasi coinvolgimento nella traversata. Inoltre, si segnala che il viaggio del 28 maggio 2020 non aveva mai avuto un effettivo epilogo nel territorio italiano proprio a causa del presunto guasto del mezzo.
Alla luce di tali elementi, la difesa ritiene che non sussistessero basi fattuali idonee a giustificare la sentenza di condanna, sia con riferimento al numero di migranti trasportati, sia con riguardo alla quantità di cartoni di sigarette presenti sull’imbarcazione, sia, infine, in ordine al ruolo effettivamente svolto da COGNOME
Da ciò discende, nella medesima prospettiva, anche l’infondatezza della contestazione dell’aggravante di cui all’art. 12, comma 3, lett. a), d.lgs. cit., relativa all’ingresso o alla permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o piø persone: secondo la difesa, tale circostanza avrebbe dovuto e dovrebbe essere esclusa in considerazione dell’esito fallimentare della traversata, che ha impedito il trasporto e l’ingresso effettivo dei migranti irregolari.
Infine, si nota che già dal capo d’imputazione emerge l’incertezza sul numero dei migranti trasportati, evidenziandosi che la reale entità degli ingressi può essere determinata soltanto quando la traversata venga effettivamente portata a termine con il conseguente ingresso nel territorio nazionale.
5.5. Con il quinto motivo si deduce ulteriore vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento dell’attenuante speciale di cui all’art. 12, comma 3-quinquies, d.lgs. 286 del 1998, per avere l’imputato aiutato l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti, nonchØ il vizio di motivazione relativo al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
La difesa sostiene l’illogicità della ricostruzione della figura di COGNOME operata dai giudici di merito, sulla quale si sarebbe basata la decisione di escludere l’attenuante speciale di cui al comma 3-quinquies dell’art. 12 cit.
In tal senso – si evidenzia – i giudici di appello hanno ritenuto che l’imputato, lungi dall’aver ammesso la propria e l’altrui responsabilità, con particolare riferimento a COGNOME, originariamente non imputato del reato di cui al capo 2), avrebbe basato le proprie dichiarazioni sul presupposto che quegli specifici fatti fossero stati commessi con la riserva mentale di non portarli a compimento. Tale argomentazione, per i giudici di merito, equivarrebbe alla prospettazione di una sostanziale affermazione di innocenza dello stesso e dei chiamati in correità.
Secondo la difesa, invece, le dichiarazioni rese dal ricorrente hanno contribuito in modo significativo all’accertamento dei fatti contestati al capo 2), determinando una ricostruzione dei fatti differente e corroborando il dato della presenza di compartecipi. Pertanto, si sostiene che il contributo fornito da COGNOME abbia avuto un’incidenza determinante nell’accertamento della verità processuale, configurandosi come una vera e propria collaborazione con le autorità.
Per le medesime ragioni la difesa lamenta l’illogicità della motivazione relativa al diniego delle attenuanti generiche, affermando che NOME ne fosse senz’altro meritevole: tale riconoscimento sarebbe giustificato sia dal contributo offerto nel corso dell’istruttoria dibattimentale, sia dalle dichiarazioni di natura ampiamente confessorie rese dall’imputato,
e non qualificabili come mendaci.
5.6. Con il sesto motivo la difesa lamenta il vizio della motivazione rispetto alla necessità di irrogare una pena piø mite.
In particolare, la difesa critica la severità del trattamento sanzionatorio, ritenendolo sproporzionato rispetto al ruolo marginale di COGNOME: la decisione, fondata su un’errata
ricostruzione della personalità dell’imputato, viene in tal senso censurata per avere omesso di delineare in modo piø coerente e logico il reale contributo dell’imputato nello svolgimento dei fatti oggetto di imputazione.
Anche il difensore di NOME COGNOME ha proposto ricorso sviluppando due motivi.
6.1. Il primo motivo lamenta l’erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 295 e 296 cod. proc. pen., con riferimento ai presupposti necessari per la dichiarazione di latitanza.
Secondo la difesa, le ricerche effettuate dagli organi inquirenti per notificare la misura cautelare non sarebbero state condotte in maniera approfondita, anche in considerazione del profilo dell’imputato, soggetto privo di fissa dimora e caratterizzato da una significativa mobilità internazionale, che avrebbe imposto ricerche estese ben oltre i soli indirizzi di domicilio precedentemente noti: pertanto, la loro limitazione a pochi luoghi in Italia avrebbe dovuto considerarsi insufficiente allo scopo di giustificare la dichiarazione di latitanza, tenuto conto, soprattutto, dell’elaborazione interpretativa che richiede il compimento di
accertamenti
adeguati alle concrete abitudini di vita del soggetto ricercato.
Un’ulteriore criticità riguarda l’assenza di una prova adeguata dell’elemento soggettivo della volontaria sottrazione alla giustizia, che costituisce un presupposto imprescindibile per la dichiarazione di latitanza, stabilito dall’art. 296 cod. proc. pen.: e il decreto impugnato si era limitato a registrare l’esito negativo delle ricerche, senza fornire elementi idonei a dimostrare che il ricorrente avesse deliberatamente evitato la notifica della misura cautelare. Questo aspetto Ł, per il ricorrente, particolarmente rilevante, poichØ la sentenza impugnata tenta di colmare tale lacuna argomentativa sostenendo che l’imputato, per il suo ruolo nel sodalizio criminale, era in condizioni di prevedere l’emissione di un provvedimento restrittivo nei suoi confronti: questa affermazione viene censurata come generica e non supportata da elementi concreti che attestino la volontaria sottrazione alla misura.
Inoltre, l’intero impianto motivazionale della sentenza impugnata si baserebbe su un presupposto errato lì dove si afferma che il ricorrente sarebbe diventato irreperibile solo dopo l’arresto dei suoi coimputati, avvenuto il 5 luglio 2022, e che tale circostanza lo avrebbe indotto a rendersi latitante; in effetti, dai verbali di vane ricerche emerge che la sua irreperibilità risale già al 5 luglio 2022, quindi a un momento coevo, non successivo, all’arresto degli altri indagati: tale elemento smentisce la tesi secondo cui il ricorrente si sarebbe allontanato per evitare l’arresto dopo aver saputo delle misure adottate nei confronti
dei coimputati.
Infine, il decreto di latitanza emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo in data 8 luglio 2022, secondo la difesa, risulta carente sotto il profilo motivazionale, in quanto non contiene alcuna valutazione specifica in merito all’elemento psicologico della volontaria sottrazione del ricorrente alla misura cautelare: in assenza di
una
motivazione adeguata su questo punto fondamentale, il provvedimento si configura come illegittimo, con conseguente nullità dello stesso e di tutti gli atti processuali successivi, compresa la sentenza impugnata.
6.2. Con il secondo motivo la difesa denuncia l’erronea applicazione degli artt. 189 e 191 cod. proc. pen., con riferimento all’inutilizzabilità delle riprese video effettuate all’interno della recinzione delimitante il capanno sito nella INDIRIZZO di Marsala.
Anche secondo la difesa di NOME COGNOME la Corte di assise di appello ha erroneamente ritenuto utilizzabili tali videoriprese, disposte con decreto del Pubblico ministero, ma senza l’autorizzazione del Giudice per le indagini preliminari.
L’indagine, basata su tre telecamere installate nell’area, ha consentito di monitorare la zona adiacente al capanno, ritenuto base logistica dell’associazione per delinquere, ma secondo la difesa – l’area videosorvegliata costituiva una pertinenza di privata dimora, in quanto essa era recintata, chiusa da un cancello con lucchetto e utilizzata stabilmente come abitazione da uno degli imputati.
La sentenza impugnata ha ritenuto che le riprese riguardassero luoghi non di privata dimora e che i comportamenti captati fossero ‘non comunicativi’, reputato, quindi, lecita l’acquisizione del materiale probatorio ai sensi dell’art. 189 cod. proc. pen.
Tuttavia, la difesa contesta questa interpretazione, rifacendosi all’interpretazione espressa dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, secondo cui le videoriprese di comportamenti non comunicativi effettuate in un ambiente domiciliare non possono essere considerate prove atipiche e necessitano dell’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, come risulta previsto per le intercettazioni ambientali.
Si sottolinea, inoltre, che la pubblica accusa ha erroneamente qualificato l’area ripresa come non rientrante nella nozione di privata dimora, nonostante fosse recintata e utilizzata per attività di vita privata, esercitando il diritto di esclusione di terzi: in virtø di ciò, si chiede di affermare che l’attività investigativa Ł stata eseguita in violazione delle norme processuali e che le prove raccolte sono inutilizzabili, ai sensi dell’art. 191 cod. proc. pen.
NOME COGNOME per il tramite del suo difensore, ha chiesto l’annullamento della sentenza di secondo grado affidando l’impugnazione a sei motivi.
7.1. Il primo motivo denuncia l’inosservanza delle norme processuali relative allo stato di latitanza, segnatamente gli artt. 295 e 296 cod. proc. pen., e, in corrispondenza, l’illogicità,
la contraddittorietà o la mancanza di motivazione.
Muovendo dalla premessa che la Corte di assise di Trapani aveva respinto l’eccezione di nullità del decreto di latitanza emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo, ritenendo esaurienti le ricerche effettuate, che la difesa aveva riproposto la questione in appello e che la Corte di assise di appello ha confermato la decisione di primo grado, ritenendo che fossero sussistenti i presupposti per la dichiarazione di latitanza, la difesa – preso atto che la Corte territoriale ha basato la sua decisione sul fatto che le ricerche, effettuate in un tempo ravvicinato presso l’abitazione dell’imputato e quella della sorella, nonchØ tramite il fratello, hanno reso verosimile che l’imputato fosse stato informato della misura cautelare a suo carico – obietta che tale ricostruzione si basa su mere presunzioni e non su prove certe, in quanto le ricerche non sono state svolte in modo efficace ed esaustivo.
In tal senso, muovendo dalla constatazione che l’unico elemento posto a supporto della latitanza era da individuarsi nell’impossibilità di dare esecuzione all’ordinanza custodiale per via dell’assenza dell’imputato dai luoghi in cui poteva essere reperito, la difesa, proprio riflettendo su tale situazione, osserva che il Giudice per le indagini preliminari avrebbe dovuto emettere un decreto di irreperibilità, non il decreto di latitanza, in quanto non era stata dimostrata la volontaria sottrazione alla giustizia da parte dell’imputato: l’art. 296 cod. proc. pen. richiede che la latitanza sia frutto di una scelta consapevole, mentre nel caso in esame erano mancati elementi concreti dimostrativi di tale consapevolezza; inoltre, la prova
circa la volontaria sottrazione avrebbe dovuto essere piena, al di là di ogni ragionevole dubbio, con l’obbligo per il giudice di motivare esaustivamente il punto, spiegando le ragioni del suo convincimento.
Nel caso in esame, secondo la difesa, le ricerche di Zwawa da parte della polizia giudiziaria si erano, invece, limitate a pochi accertamenti, senza la verifica approfondita della reale conoscenza dell’imputato del procedimento a suo carico.
In caso di latitanza semplice, quale quella relativa al caso di specie, la sottrazione all’esecuzione della misura cautelare rappresenta l’unico e solo dato disponibile dal quale il giudice può trarre argomenti per motivare la sua decisione e, pertanto, lo svolgimento corretto delle ricerche, da parte degli organi incaricati dell’esecuzione della misura, consente di acquisire tutti gli elementi utili per escludere che l’impossibilità di reperire il soggetto sia determinata da fattori diversi dalla sua concreta volontà di sfuggire alla cattura.
Conseguentemente, non possono trovare applicazione tutte quelle declaratorie di latitanza fondate su ricerche incomplete, presunzioni o altre applicazioni superficiali delle disposizioni in materia: secondo l’interpretazione consolidata, quindi, in assenza di una prova certa della volontà di sottrarsi alla cattura, il decreto di latitanza Ł illegittimo con conseguente nullità di tutti gli atti processuali successivi.
Pertanto, il ricorrente prospetta l’annullamento della sentenza impugnata, in dipendenza della nullità del decreto di latitanza emesso in data 8 luglio 2022 e di tutti gli atti successivi, con conseguente regressione del procedimento.
7.2. Con il secondo motivo si deduce l’inosservanza delle norme processuali relative alla disciplina delle prove, con particolare riferimento all’art. 189 cod. proc. pen., e l’illogicità, la contraddittorietà o la mancanza di motivazione.
Anche questa difesa ha sollevato, sia nel dibattimento di primo grado che in appello, l’eccezione di nullità delle riprese di videosorveglianza effettuate all’interno del capanno sito in Marsala, località San Teodoro, sostenendo la loro inutilizzabilità per violazione delle norme sulle intercettazioni, considerato che l’attività investigativa, avente ad oggetto luoghi di privata dimora, Ł stata condotta esclusivamente sulla scorta del decreto autorizzativo del Pubblico ministero, mentre sarebbe stato necessario vaglio del Giudice per le indagini preliminari.
Posta la già indicata risposta data dalla Corte di assise di appello, pure Zwawa ha contestato il relativo approdo, evidenziando che l’area in questione era delimitata da recinzioni e da reti volte a impedire la vista, essendo essa accessibile solo tramite cancello con lucchetto e configurandosi quindi come privata dimora: pertanto, le captazioni
avrebbero
dovuto essere disposte nel rispetto della disciplina delle intercettazioni, non di quella delle prove atipiche.
Inoltre, puntualizzate le locuzioni di domicilio, dimora e pertinenze, viene ribadito che i luoghi sottoposti a videosorveglianza nel caso in esame erano pertinenze di un domicilio privato, in cui i soggetti ben potevano far valere lo ius excludendi alios.
In conclusione, anche questa difesa sostiene che le riprese erano state acquisite in violazione della disciplina sulle intercettazioni, con conseguente inutilizzabilità delle stesse. 7.3. Il terzo motivo prospetta la violazione dell’art. 416 cod. pen., con l’erronea qualificazione giuridica del reato di associazione a delinquere, e l’illogicità e contraddittorietà della motivazione.
La Corte di assise di appello ha, secondo la difesa, erroneamente confermato l’accertamento di responsabilità di COGNOME per reato di associazione per delinquere ex art. 416 cod. pen., senza considerare adeguatamente la reale natura della sua condotta. Si sottolinea che la motivazione della sentenza di primo grado era stata sommaria e che poi la Corte territoriale si Ł limitata a confermare tale impostazione senza valutare nel dettaglio il ruolo effettivo di COGNOME all’interno dell’associazione: dai verbali emerge, infatti, che il suo coinvolgimento era stato occasionale e limitato a pochi episodi, non presentando i requisiti di stabilità e continuità necessari per configurare la partecipazione all’associazione: COGNOME era un uomo di MCOGNOME, proprietario di un gommone, utilizzato dall’organizzazione solo temporaneamente, e il suo coinvolgimento era derivato da esigenze logistiche sorte a seguito di contrasti interni all’associazione; e, poi, la sua estraneità al sodalizio si appare confermata dal fatto che, dopo la notifica di un decreto di espulsione, egli era stato allontanato e sostituito.
La difesa, quindi, sostiene che, in assenza degli elementi tipici della partecipazione associativa, la Corte territoriale avrebbe dovuto piuttosto sondare l’evenienza del concorso di persone nel reato ex art. 110 cod. pen., in quanto il contributo di COGNOME era stato episodico e privo di un’adesione consapevole e stabile all’organizzazione.
7.4. Con il quarto motivo si contesta la violazione di legge in relazione agli artt. 110 e 112, primo comma, n. 1, cod. pen., 12, commi 1, 3, lett. a), b) e d), 3-bis, 3-ter, lett. b), d.lgs. n. 286 del 1998, per la non fondata qualificazione giuridica del reato di immigrazione illegale e l’illogicità e contraddittorietà della motivazione.
Secondo la difesa, la Corte di assise di appello ha erroneamente confermato la sentenza di primo grado ritenendo COGNOME responsabile dei reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui ai capi 2) e 3), in relazione ai viaggi del 23 e 28 maggio 2020.
Il ricorrente contesta la qualificazione giuridica del reato, richiamando l’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998: in particolare – sostiene la difesa – l’elaborazione di legittimità ha chiarito che le ipotesi previste dal terzo comma della norma costituiscono circostanze aggravanti del reato di pericolo previsto dal primo comma; ne consegue che, per ritenere configurato il delitto, Ł necessario accertare la concreta idoneità degli atti a procurare l’ingresso illegale nel territorio dello Stato.
Però, nel caso in esame, l’istruttoria dibattimentale non ha fatto affiorare la prova certa dell’effettivo carico trasportato nei viaggi contestati: le deposizioni testimoniali si risolvono in riferimenti a mere presunzioni e non a riscontri oggettivi; inoltre, per il viaggio del 23 maggio, l’accertamento Ł stato effettuato solo successivamente, mentre quello del 28 maggio si Ł interrotto al largo di Trapani, senza che fosse dimostrato il trasporto di persone. In tal caso – si argomenta – Ł mancata la prova dell’effettiva realizzazione dell’evento e del pericolo concreto, sicchØ il delitto contestato non avrebbe potuto ritenersi configurabile. 7.5. Il quinto motivo denuncia la violazione di legge in relazione alla mancata riqualificazione dei fatti contestati nella fattispecie di cui all’art. 12, comma 1, d.lgs. cit. e all’esclusione di tutte le aggravanti contestate, nonchØ la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
La sentenza di secondo grado non ha, secondo la difesa, fornito sufficiente motivazione in merito alla richiesta di riqualificazione dei fatti contestati ai capi 2) come ipotesi di reato rientranti nel comma 1 dell’art. 12 del d. lgs. n. 286 del 1998: nel processo di primo grado non erano emersi elementi certi dimostrativi, oltre ogni ragionevole dubbio, della
sussistenza
delle aggravanti contestate, in quanto le conclusioni raggiunte erano basate mere valutazioni soggettive degli inquirenti, prive di riferimenti oggettivi, e anche per il viaggio indicato al capo
3), che non si era mai realizzato: la conclusione censurata, pertanto, si pone in contrasto con
il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, non potendo la condanna fondarsi su dati incerti o su elementi insufficienti.
7.6. Con il sesto motivo si deduce la violazione dell’art. 62-bis cod. pen. in relazione al confermato diniego delle circostanze attenuanti generiche, nonchØ l’illogicità e contraddittorietà della motivazione.
La motivazione della sentenza impugnata risulta, per il ricorrente, contraddittoria e illogica riguardo al diniego delle suddette circostanze, giacchØ ha fondato tale epilogo sul ruolo di COGNOME nell’associazione, sulla durata dell’attività criminosa, sulla reiterazione dei reati e sulla latitanza post delictum, finendo così per disattendere le argomentazioni della difesa senza fornire un’analisi chiara dei criteri utilizzati per la decisione.
Il Procuratore generale, all’esito del requisitoria rassegnata nel corso della discussione orale, ha richiesto il rigetto dei ricorsi.
I difensori dei ricorrenti hanno insistito per l’accoglimento delle rispettive impugnazioni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Tutti i ricorsi si rivelano, nel loro complesso, privi di giuridico fondamento.
L’impugnazione proposta da NOME COGNOME non può essere accolta.
2.1. La prima doglianza formulata dalla difesa, inerente alla partecipazione associativa dell’imputato e al livello di rilevanza di tale partecipazione, riguarda una censura già sottoposta all’attenzione della Corte di assise di appello, la quale ha dato alla stessa puntuale e completa risposta nella sentenza impugnata.
Quest’ultima ha offerto una ricostruzione esaustiva delle dinamiche oggetto di contestazione, delineando con chiarezza i ruoli ricoperti dai singoli imputati.
In particolare, Ł lineare, congrua e immune da vizi logici la parte in cui colloca il ricorrente in una posizione di vertice, accanto al coimputato COGNOME con un ruolo subordinato unicamente a quello di COGNOME considerato leader del sodalizio.
La pronuncia in esame smentisce la tesi difensiva secondo cui COGNOME avrebbe rivestito un mero ruolo di interprete o di semplice esecutore della volontà altrui, restituendo invece l’immagine di un soggetto pienamente inserito nella struttura associativa, partecipe attivo anche in ordine alle decisioni strategiche. A lui venivano affidati compiti rilevanti che presupponevano un elevato grado di fiducia da parte del gruppo.
Il reato associativo contestato all’imputato non Ł stato fondato, dunque, in modo esclusivo sul ruolo di intermediario tra COGNOME e COGNOME, ma trova piø ampio riscontro nel materiale probatorio, dal quale emerge la sua diretta partecipazione all’organizzazione, con incarichi concernenti la gestione logistica dei viaggi e il controllo del capanno nel corso delle operazioni.
Ciò premesso, si prende atto che il ricorrente ha reiterato l’argomento secondo il quale egli ha agito nell’ambito di un’operazione sotto copertura, ai sensi dell’art. 9 legge n. 146 del 2006, persistendo nel sostenere di aver operato unicamente al fine di monitorare e prevenire potenziali attività terroristiche di matrice jihadista in Italia e in Europa.
Occorre, tuttavia, osservare che questa tesi difensiva Ł stata adeguatamente contrastata dai giudici di appello, i quali hanno rilevato, con motivazione logica e congrua, come l’assunto dell’imputato, oltre a non essere supportato da alcun elemento fattuale, sia giuridicamente inconcludente.
Invero, l’art. 9 legge n. 146 del 2006 consente esclusivamente lo svolgimento di attività sotto copertura finalizzate all’acquisizione di elementi di prova in ordine a delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione, e non può in alcun modo scriminare la partecipazione attiva a condotte criminali.
Inoltre, la medesima norma stabilisce prevede che tali attività siano condotte nell’ambito di operazioni espressamente autorizzate e debitamente documentate, circostanze che, nel caso di specie, risultano del tutto insussistenti.
Dell’inserzione delle condotte scopertamente antigiuridiche – accertate come commesse dall’imputato in questo processo – nell’ambito di un’operazione sotto copertura autorizzata e documentata non Ł emersa alcuna tangibile traccia.
2.2. L’argomento Ł stato ripreso dal ricorrente nel terzo motivo nell’ambito del quale il ricorrente Ł tornato sulla tesi secondo cui la sua partecipazione al sodalizio criminoso sarebbe avvenuta nell’ambito di un’operazione di infiltrazione condotta per conto dei Servizi
Segreti, finalizzata al monitoraggio e alla prevenzione di eventuali attività terroristiche di matrice jihadista, dolendosi dell’opzione privilegiata dai giudici di appello nel senso di non dare corso alla sollecitata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per l’assunzione di prove dalla difesa ritenute decisive a sostegno di tale ricostruzione.
La motivazione che aveva sorretto la scelta dei giudici di rimo grado e che viene ripresa e sviluppata dalla Corte di assise di appello sul punto si rivela immune da censure, in quanto essa costituisce la motivata espressione del legittimo esercizio del potere discrezionale del giudice di merito.
In particolare, i giudici hanno considerato non necessaria ai fini decisori l’assunzione delle prove richieste, tra cui l’acquisizione dei dati relativi a una scheda telefonica intestata al ricorrente, tramite la quale si sarebbe potuti risalire all’identità dei presunti agenti segreti identificati nei soggetti denominati ‘NOME‘ e ‘NOME‘ – che lo avrebbero incaricato dell’attività di infiltrazione.
Si premette che, circa la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello, devono ritenersi prove decisive, ai fini della prognosi di cui all’art. 603, comma 1, cod. proc. pen., quelle che, nella decisione di primo grado, hanno determinato o anche solo contribuito a determinare un esito liberatorio e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull’esito del giudizio di impugnazione in termini di proscioglimento o di condanna (Sez. 3, n. 45810 del 14/11/2024, P., Rv. 287215 – 01).
Per altro verso, può essere censurata la mancata rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale qualora si dimostri l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o di manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (Sez. 2, n. 48630 del 15/09/2015, COGNOME, Rv. 265323 – 01). Quel che primariamente rileva, quindi, Ł il fatto che sia dato evincere dal tessuto argomentativodella sentenza, posto in relazione alle censure difensive, una grave lacuna del ragionamento
probatorio e della sua rappresentazione a livello motivazionale (Sez. 5, n. 32379 del 12/04/2018, COGNOME, Rv. 273577 – 01).
Così impostata la questione, le censure difensive risultano chiaramente infondate poggiando il giudizio di responsabilità su prove ampiamente dimostrative della responsabilità
di COGNOME per il reato a lui contestato.
La Corte di assise di appello ha reso una motivazione dettagliata e convincente del rigetto dell’istanza difensiva volta alla rinnovazione istruttoria, chiarendo in modo limpido e incontrastato che, anche a voler ammettere la veridicità dell’accordo tra COGNOME e soggetti esterni non meglio identificati, la condotta da lui posta in essere – non riconducibile ad alcuna operazione formalmente autorizzata nØ comunicata all’autorità giudiziaria – sarebbe da considerarsi comunque illecita.
Anzi – Ł dato desumere dalle puntualizzazioni rese – una condotta del tipo adombrato dal ricorrente finirebbe per coinvolgere nella responsabilità penale anche gli eventuali agenti che lo avessero incaricato.
La difesa Ł tornata nuovamente sulla questione facendolo, tuttavia, con affermazioni generiche e non adeguatamente strutturate e, soprattutto, omettendo un effettivo confronto critico con la motivazione della sentenza impugnata.
¨ stato richiamato il ruolo dell’ispettore COGNOME – la cui attendibilità, peraltro, Ł risultata fortemente compromessa secondo le univoche indicazioni fornite dai giudici di merito – nonchØ si Ł rievocato l’interrogatorio di garanzia del coimputato COGNOME per il riferimento operato a un presunto interessamento dei Servizi Segreti nei confronti di cittadini tunisini, e infine l’identità sconosciuta dei soggetti denominati ‘NOME‘ e ‘NOME‘.
Appare evidente, tuttavia, che i citati profili che sono stati compiutamente esaminati e motivatamente disattesi dalla Corte territoriale con argomentazioni improntate a coerenza logica e rigore giuridico, trattandosi di riferimenti a fonti sondate e risultate inadeguate ai fini propostosi dalla difesa o addirittura a fonti nemmeno sufficientemente identificate, essendo risultato confutata in modo congruo la deduzione dell’imputato di essere stato arruolato dai Servizi Segreti italiani: ciò, peraltro, per giustificare comportamenti che sono stati valutati dai giudici del merito come pienamente partecipativi ai delitti a lui ascritti.
Non attinente alla questione qui delibata si profila il riferimento al principio (enunciato da Sez. 6, n. 27160 del 09/02/2022, Z., Rv. 283467 – 03) secondo il quale, in tema di operazioni sotto copertura, l’inosservanza degli obblighi comunicativi nei confronti del pubblico ministero e la mancanza delle specifiche autorizzazioni previste dall’art. 9 legge n. 146 del 2006 non determinano l’inutilizzabilità in giudizio dei risultati dell’attività investigativa svolta dall’agente infiltrato, non potendosi ipotizzare patologie invalidanti degli atti processuali non previste dalla legge e non concretando lo svolgimento di attività di indagine prima che ne sia data notizia al pubblico ministero alcuna lesione di diritti fondamentali traducentesi nella violazione dell’art. 6 CEDU. L’argomento trattato nella richiamata pronuncia (centrato sulla verifica di utilizzabilità o meno degli atti di polizia giudiziaria conseguenti all’attività dell’agente sotto copertura senza la formale comunicazione al pubblico ministero o anche in ipotesi di autorizzazione successiva nell’ambito di altro procedimento penale) Ł scrutinato senza mettere in questione l’assunto per cui la causa di giustificazione che scrimina l’attività dell’agente sotto copertura afferisce agli atti dal
soggetto
compiuti pur sempre in un contesto di controllo dell’autorità giudiziaria; base fattuale rimasta del tutto estranea al caso di specie.
Se, poi, la difesa abbia inteso far riferimento alla – diversa – tematica del soggetto che si deduce agente provocatore, non può non ribadirsi che, quando si tratta di agente provocatore, la scriminante dell’adempimento del dovere trova applicazione esclusivamente nel caso in cui la sua condotta non si inserisca con rilevanza causale nell’iter criminis, ma intervenga in modo indiretto e marginale concretizzandosi prevalentemente in un’attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle azioni illecite altrui (v., ad esempio, Sez. 4, n. 47056 del 21/09/2016, COGNOME, Rv. 268998 – 01).
Ancora, nell’ambito della distinta, ma per certi versi parallela, attività di contrasto ai delitti in materia di stupefacenti, l’elaborazione dogmatica ha segnato i limiti e i connotati dell’attività sotto copertura, essendosi precisato che, in tema di stupefacenti, l’attività, realizzata dall’agente provocatore, di induzione alla cessione – che però sia tale da non intervenire sulla preventiva condotta di detenzione illecita e da mirare esclusivamente a disvelare una risoluzione delittuosa già esistente – non determina alcuna forma di concorso nel reato, risolvendosi nella mera predisposizione di una occasione di estrinsecazione del reato – di illecita detenzione – già consumato. (Sez. 6, n. 47672 del 04/10/2023, O., Rv. 285883 – 05).
Da qualsivoglia angolo visuale si affronti il tema, deve concludersi, dunque, che la doglianza del ricorrente di cui al primo motivo e quella, di natura processuale, ancillare alla prima, introdotta con il terzo motivo non meritano condivisione.
2.3. Trascorrendo alla disamina del secondo motivo, il ricorrente lamenta l’esistenza di un contrasto tra la sentenza impugnata, che ha condannato Yazidi con specifico riferimento ai fatti accaduti il 1° agosto 2020, oggetto dell’imputazione di cui al capo 7), e la decisione pronunciata in separato giudizio abbreviato nei confronti del coimputato NOME COGNOME
assolto
per non aver commesso il fatto in relazione al medesimo reato.
In proposito, non si Ł mancato di puntualizzare che non sussiste un’insanabile contraddittorietà di giudicati qualora, in procedimenti distinti, uno dei concorrenti venga condannato mentre altri vengano assolti per difetto del dolo di concorso, a condizione che il giudice della condanna espliciti le ragioni e gli elementi indiziari – ulteriori e diversi rispetto a quelli esaminati nella pronuncia assolutoria – che giustificano la diversa soluzione adottata (Sez. 5, n. 17553 del 10/03/2021, COGNOME, Rv. 281141 – 01).
Si Ł ulteriormente affermato che, sebbene l’assoluzione di alcuni concorrenti per insussistenza del fatto non sia vincolante per altri giudizi, in ossequio al principio del libero convincimento, il giudice che emetta o confermi una sentenza di condanna nei confronti di un diverso imputato Ł tenuto a confrontarsi con le motivazioni valorizzate nella sentenza assolutoria, evidenziando in maniera puntuale gli elementi probatori ulteriori sui quali fonda la propria diversa conclusione (Sez. 2, n. 17021 del 29/03/2022, COGNOME, Rv. 283117 – 01). Non decampando dal solco ermeneutico così tracciato, la Corte di assise di appello ha affrontato il tema evidenziando che il diverso esito dei procedimenti Ł da ricondurre alla differente articolazione del quadro probatorio sortito dalle rispettive fasi istruttorie: in particolare, lo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale nel rito ordinario ha determinato la piø articolata formazione della prova nel contraddittorio tra le parti a carico di COGNOME.
¨ stato, così, evidenziato che, mentre nel giudizio abbreviato era risultata molto rilevante la mancanza di riscontri alla conversazione captata in data 11 agosto 2020, nel giudizio ordinario a cui Ł stato sottoposto l’imputato sono state acquisite ulteriori prove, quali,
in particolare, le dichiarazioni della coimputata COGNOME compagna convivente di COGNOME, che aveva fornito dirimenti dettagli in ordine al ruolo suo nonchØ a quello di NOME e COGNOME, finalizzato a consentire l’allontanamento dei migranti dal territorio di Marsala.
Tale complessivo approfondimento ha determinato l’emersione di vari elementi probatori risultati convergenti e idonei a dimostrare sia l’esistenza del reato oggetto della richiamata contestazione, sia la responsabilità concorsuale di Yazidi.
2.4. Per quanto concerne il quarto motivo, con cui la difesa di COGNOME ha censurato la sentenza impugnata per aver confermato, a suo carico, la sussistenza dell’aggravante del fine di profitto prevista dall’art. 12, comma 3-ter, lett. b), d.lgs. n. 286 del 1998, il Collegio ritiene che la doglianza si collochi al di fuori dell’alveo di ammissibilità dell’impugnazione, in quanto essa investe aspetti non oggetto di specifica impugnazione in sede di appello.
¨ vero, dunque, che, con riferimento alla posizione dell’imputato, la Corte territoriale non ha dedicato considerazioni specifiche, ma il rilievo non giova al ricorrente, posto che il tema della sussistenza o meno dell’aggravante in questione non era stato devoluto da
NOME
alla cognizione del giudice di secondo grado.
Si osserva, sull’argomento, che Ł principio consolidato quello secondo cui il ricorso per cassazione proposto sui punti della sentenza di primo grado non espressamente censurati con i motivi di appello Ł inammissibile, dal momento che, su tali punti, la decisione del primo giudice determina la preclusione correlata all’effetto devolutivo del gravame e al principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni, con l’effetto che l’imputato non può proporre nel grado successivo le questioni inerenti a violazioni di legge non devolute al giudice di appello (ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen.; per le implicazioni determinate dalla differenza fra la cosa giudicata, che si forma sui capi della sentenza, e la preclusione correlata all’effetto devolutivo del gravame e al principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni, che attiene ai punti della sentenza, v. Sez. U, a n. 1 del 19/01/2000, COGNOME, Rv. 216239 – 01).
2.5. L’esame del quinto ed ultimo motivo articolato dalla difesa di COGNOME conduce alla conclusione che neanche tale censura merita accoglimento.
Sul tema della commissione del fatto oggetto dell’imputazione sub 7) e sulla sua ricomprensione nell’ambito del fatto di reato di cui al capo 4), Corte di assise di appello ha espresso una motivazione puntuale e adeguata, sottolineando come, in assenza di impugnazione da parte del Pubblico ministero, essa, giudice di appello, non poteva intervenire, pur prendendo atto dell’erroneità della determinazione del giudice di primo grado, consistita nell’aver ritenuto assorbita la condotta di cui al capo 7) in quella descritta al capo 4).
L’effetto della decisione della Corte di primo grado sul punto Ł stato – Ł bene ribadirlo favorevole alla posizione dell’imputato, in quanto ha comportato l’elisione di uno dei reati contestati.
L’errore valutativo alla base di tale opzione Ł stato evidenziato dai giudici di appello alla luce del significativo lasso temporale – pari a piø di dieci giorni – intercorso tra i due episodi, i quali, sebbene riconducibili alla medesima fattispecie di cui all’art. 12 cit., non erano stati posti in essere in un contesto unitario, sia per ciò che concerne il profilo temporale, sia per ciò che concerne il profilo funzionale e psicologico.
Ne Ł sortito, dunque, un trattamento sanzionatorio certamente piø favorevole per l’imputato.
A fronte di tale trattamento sanzionatorio piø favorevole, la Corte di assise di appello ha
rilevato che avrebbe potuto aggravarlo ove non fosse stata vincolata dall’assenza di impugnazione da parte del Pubblico ministero.
Dato questo chiaro scenario, il ricorrente ha dedotto l’erronea valutazione dell’assorbimento tra i capi d’imputazione nel senso che non si sarebbe considerato che essa ha inciso negativamente sulla quantificazione della pena, determinando una piø severa considerazione della gravità del reato.
Si tratta, però, di una petizione di principio: Ł evidente che, ove i giudici di primo grado avessero considerato i due fatti come due distinti reati (come, secondo i giudici di appello sarebbe stato giuridicamente corretto fare), l’applicazione del cumulo delle – materiale o anche giuridico (ove fosse stata applicata la continuazione) – delle rispettive pene avrebbe determinato un trattamento sanzionatorio certamente piø gravoso: dall’inquadramento che ha contemplato l’unificazione delle condotte in un solo reato, pertanto, il ricorrente ha visto scaturire un trattamento sanzionatorio piø favorevole, rispetto a cui non Ł non ha alcun titolo di pretendere che per la sua commisurazione una parte di quello che Ł stato considerato l’unico fatto di reato venga addirittura elisa.
La doglianza sollevata risulta, quindi, priva di fondamento.
Il ricorso proposto da NOME COGNOME Ł passibile di rigetto.
3.1. In relazione al primo motivo, concernente l’asserita illegittimità della dichiarazione di latitanza, la sentenza impugnata Ł immune dai vizi denunziati, avendo la Corte territoriale esaminato le obiezioni sollevate dalla difesa circa l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento della condizione di latitanza e avendole disattese mediante un percorso argomentativo coerente e persuasivo.
Si premette che l’elaborazione di legittimità ha precisato che, ai fini della dichiarazione di latitanza, tenuto conto delle differenze che non rendono compatibili tale condizione con quella della irreperibilità, le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 295 cod. proc. pen. – pur dovendo essere tali da risultare esaustive al duplice scopo di consentire al giudice di valutare l’impossibilità di procedere alla esecuzione della misura per il mancato rintraccio dell’imputato e la volontaria sottrazione di quest’ultimo alla esecuzione della misura emessa nei suoi confronti – non devono necessariamente comprendere quelle nei luoghi specificati dal codice di rito ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, di conseguenza, neanche le ricerche all’estero quando ricorrano le condizioni previste dall’art. 169, comma 4, dello stesso codice (così Sez. U, n. 18822 del 27/03/2014, Avram, Rv. 258792 – 01, nonchØ Sez. 6, n. 31285 del 23/03/2017, Lleshaj, Rv. 270569 – 01, e Sez. 5, n. 5583 del 28/10/2014, dep. 2015, T., Rv. 262227 – 01).
Inoltre, Ł costante l’insegnamento per il quale, in tema di dichiarazione di latitanza, ai fini dell’accertamento della volontarietà della sottrazione al provvedimento restrittivo, non occorre dimostrare che l’interessato fosse a conoscenza dell’avvenuta emissione a suo carico di tale provvedimento essendo sufficiente che egli si sia posto in condizione di irreperibilità sapendo che un ordine o un mandato poteva essere emesso nei suoi confronti, evenienza che, una volta positivamente apprezzata con provvedimento del giudice, legittima l’esecuzione delle notificazioni mediante consegna al difensore (così, fra le molte, Sez. 2, n. 47852 del 23/09/2016, Kennedy, Rv. 268174 – 01, e Sez. 5, n. 19891 del 30/01/2014, A.,
Rv.
259839-01). D’altronde, l’accertamento della volontarietà dell’imputato di sottrarsi alle ricerche, che costituisce presupposto necessario del relativo decreto, può fondarsi anche su presunzioni, purchØ le stesse risultino poggiate su una base fattuale idonea a dimostrare
tale volontà, tenuto anche conto delle concrete abitudini di vita del ricercato (Sez. 3, n. 10733 del 07/02/2023, COGNOME, Rv. 284315 – 01; Sez. 5, n. 54189 del 20/10/2016, COGNOME, Rv. 268827 01).
Posta tale generale premessa, la doglianza di COGNOME – volta a dedurre il vulnus del decreto di latitanza emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo determinato dalla mancata verifica della sussistenza dell’elemento soggettivo e a contestare la motivazione offerta dalla sentenza di secondo grado, ritenendola illogica nella parte in cui, a fronte di una specifica eccezione difensiva, essa avrebbe tentato di colmare ex post la suddetta lacuna – non può che ritenersi generica, siccome non documentata: il ricorrente non ha allegato al ricorso il decreto di latitanza oggetto di contestazione, impedendo in tal modo ogni effettiva verifica del vizio denunciato.
Va ricordato, invero, che l’onere di provare il fatto processuale, dal quale dipenda l’accoglimento dell’eccezione procedurale, grava sulla parte che ha sollevato l’eccezione stessa (Sez. 5, n. 1915 del 18/11/2010, dep. 2011, Rv. 249048 – 01; Sez. 5, n. 600 del 17/12/2008, dep. 2009, COGNOME, Rv. 242551 – 01).
Peraltro, ragioni di completezza inducono ad precisare che le convergenti presunzioni indicative della volontaria sottrazione dell’imputato all’esecuzione della misura cautelare coercitiva disposta nei suoi confronti, così come emergenti dalla motivazione della sentenza di appello, risultano univoche.
Le ricerche di COGNOME erano state effettuate sia in Sinalunga, alla INDIRIZZO ove il destinatario del titolo cautelare aveva dichiarato di trovarsi in occasione della domanda di permesso di soggiorno del 3.08.2020, luogo in cui il richiedente aveva dato atto trovarsi ospite di COGNOME, sia sempre in Sinalunga, alla INDIRIZZO nella residenza del suddetto COGNOME, sia a Vittoria, presso il domicilio del fratello dell’imputato, il quale aveva riferito che il congiunto si trovava in località Sampieri del Comune di Scicli per motivi di lavoro e aveva fornito la sua utenza telefonica, sia ancora e conseguentemente nella località di Sampieri, sempre con esito negativo. Del pari esito negativo avevano dato i tentativi di chiamata al numero di telefono cellulare forniti dal fratello. Ancora, si era accertato che egli in quell’arco temporale non fosse stato detenuto.
Sotto il profilo della consapevole e volontaria sottrazione di COGNOME alle ricerche, si Ł osservato che il giudice emittente aveva valutato tangibili indici che pure orientavano per la sussistenza di quel presupposto.
In particolare, aveva assunto rilievo la posizione ricoperta dall’imputato nell’ambito del sodalizio criminoso, nØ marginale nØ occasionale. Lo scafista COGNOME infatti, aveva svolto un ruolo essenziale per la sussistenza e la continuità operativa dell’organizzazione,
essendo
l’attività di conduzione dei natanti destinati al trasporto di immigrati extracomunitari elemento centrale e costitutivo dell’azione criminale del gruppo. La rilevanza del ruolo ricoperto, evinta
dalla delicatezza delle operazioni affidategli, che richiedevano particolare attenzione sia al fine di evitare l’intercettazione da parte delle autorità, sia per il valore economico dell’investimento sostenuto per l’acquisto dell’imbarcazione, della cui conduzione era stato incaricato, lo aveva collocato in posizione da doversi prefigurare l’innesco di immediate
ricerche nei suoi confronti non appena l’indagine era stata concretamente avviata. Non poco avevano militato nella stessa direzione la considerazione della notorietà delle misure adottate nei confronti dei coimputati e la comunicazione trasmessa al fratello dell’imputato.
In contrario non avrebbe potuto, nØ potrebbe assumere rilievo la circostanza, richiamata dalla difesa, secondo cui l’imputato avrebbe, successivamente ai fatti contestati, presentato domanda di permesso di soggiorno, dalla quale si vorrebbe desumere l’assenza dell’intento di sottrarsi alle ricerche. Tale elemento, infatti, non poteva, nØ può considerarsi dirimente, se si considera che il permesso di soggiorno era stato chiesto in corrispondenza con la dedotta fine della serie criminosa ma anni prima dal momento in cui, con il concretizzarsi degli esiti investigativi, COGNOME era divenuto destinatario delle ricerche degli inquirenti: ricerche effettate, peraltro in modo vano perchØ l’interessato si era eclissato
senza
lasciare notizie di sØ, anche presso il domicilio da lui indicato, a suo tempo, nella domanda di permesso di soggiorno.
Le deduzioni difensive nemmeno rinvengono un determinante aggancio nel fatto, di cui ha dato atto anche la Corte di assise di appello, della cessazione dello stato di latitanza di Hassen a far data dal 23 dicembre 2022, momento in cui pervenne notizia dell’arresto dell’imputato in Francia.
Tale modo di conclusione della latitanza certo non fornisce, neanche in via retrospettiva, materia per svalutare i suddetti elementi, indicativi della volontarietà dell’allontanamento, essendo anzi dimostrativa del fatto che il ricercato, consapevole della situazione, aveva optato per uscire dal territorio italiano: a tal riguardo la sequenza temporale dei fatti – avvio delle vane ricerche al principio di luglio 2022, emissione del decreto di latitanza in data 8 luglio 2022, arresto in Francia il 9 ottobre 2022 – concorre a corroborare il quadro presuntivo coerente con la ricostruzione operata dai giudici di merito, il cui apprezzamento si Ł collocato, quindi, nell’alveo della discrezionalità a loro riservata. La doglianza va, pertanto, disattesa.
3.2. In ordine al secondo motivo, con cui il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata ha affrontato in modo erroneo e inadeguato le doglianze avanzate in appello per contestare l’utilizzabilità delle risultanze delle videoriprese effettuate all’esterno del capanno di San Teodoro, individuato quale centro operativo dell’attività criminosa, si rileva che la difesa reitera la questione inerente all’illegittima acquisizione di tali riprese in assenza dell’autorizzazione del nonostante si trattasse di un luogo riconducibile alla sfera domiciliare.
Siccome trattasi di questione sollevata anche da altri ricorrente, appare utile svolgere in premessa, alcune considerazioni di carattere generale.
Si muove da concetto che l’attività di videosorveglianza che incida sul domicilio, indipendentemente dal fatto che abbia ad oggetto comportamenti comunicativi o non comunicativi, comportando una compressione del diritto all’inviolabilità del domicilio tutelato dall’art. 14 Cost., può essere legittimamente posta in essere solo in presenza di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, che la giustifichi rispetto alle esigenze investigative e all’invasività dell’atto.
In tal senso si Ł chiarito che in tema di videoregistrazioni, costituiscono comportamenti comunicativi, intercettabili solo previo provvedimento di autorizzazione dell’autorità giudiziaria, quelli finalizzati a trasmettere il contenuto di un pensiero mediante la parola, i
gesti, le espressioni fisiognomiche o altri atteggiamenti idonei a manifestarlo, mentre sono comportamenti non comunicativi, utilizzabili senza alcuna necessità di autorizzazione preventiva dell’autorità giudiziaria se ripresi in luoghi pubblici, aperti al pubblico o esposti al pubblico, diversi dal domicilio, tutti quelli, diversi dai primi, che rappresentano la mera presenza di cose o persone ed i loro movimenti, senza alcun nesso funzionale con l’attività di scambio o trasmissione di messaggi tra piø soggetti (Sez. 3, n. 15206 del 21/11/2019, dep. 2020, Rv. 279067 – 04; Sez. 1, n. 49798 del 28/09/2023, COGNOME, Rv. 285500 – 01; Sez. 2, n. 22972 del 16/02/2018, COGNOME, Rv. 273000 – 01)
Quanto al caso di specie, sulla base della ricostruzione operata dai giudici di primo grado e condivisa dalla Corte di assise di appello, Ł stata accertata la presenza di tre telecamere, due delle quali orientate verso luoghi pacificamente aperti al pubblico, come la strada di accesso e il molo antistante, e una terza che inquadrava lo spazio antistante al capanno. Tale capanno risultava delimitato da un cancello e una rete con teli verdi, i quali, tuttavia, al momento delle riprese, già presentavano diversi punti di lacerazione, tali da consentire senz’altro la visibilità e l’udibilità di quanto accadeva all’interno del cortile anche da parte terzi.
L’attività di videosorveglianza eseguita tramite tali dispositivi, finalizzata a riprendere esclusivamente comportamenti non comunicativi dei soggetti presenti nei luoghi sorvegliati, Ł stata disposta con decreto del Pubblico ministero, senza preventiva autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
A fronte di tale quadro fattuale, la difesa, in sede di gravame, aveva eccepito l’illegittimità dell’acquisizione delle suddette risultanze probatorie, sostenendo che l’area interessata dalle videoriprese dovesse essere qualificata come pertinenza di privata dimora, soggetta alle medesime garanzie riservate al domicilio. Di conseguenza, l’attività investigativa disposta dal Pubblico ministero avrebbe dovuto essere preceduta da un’autorizzazione ovvero, nei casi di urgenza, da una successiva convalida da parte del competente Giudice per le indagini preliminari, a prescindere dalla circostanza che le riprese non abbiano riguardato comportamenti comunicativi.
Tali censure non possono, in ogni caso, trovare accoglimento poichØ l’inquadramento offerto dalle Corti di merito e il percorso argomentativo da esse seguito risultano pienamente condivisibili, conseguendone la legittimità dell’acquisizione delle immagini di videosorveglianza: i giudici di merito hanno qualificato, con l’esposizione corretta e con la conseguente valutazione congrua ed esente da vizi logico-giuridici, l’area in questione come luogo esposto al pubblico, atteso che, a causa delle lacerazioni presenti nel telo posto a delimitare il perimetro, chiunque poteva agevolmente osservare quanto accadeva all’interno del cortile.
Alla luce di tale qualificazione, nonchØ della natura non comunicativa dei comportamenti oggetto di videoripresa, doveva e deve escludersi la necessità di una preventiva autorizzazione dell’autorità giudiziaria per la legittima acquisizione delle relative immagini.
Tutto ciò puntualizzato, il motivo si espone al rilievo di inammissibilità per carenza di autosufficienza, non essendo stato indicato dal ricorrente con la necessaria precisione quali fossero tra le immagini acquisite mediante videosorveglianza quelle che sarebbero,
secondo
la sua prospettazione, da ritenersi inutilizzabili.
¨, in questa prospettiva, da ritenersi inammissibile per aspecificità il motivo di ricorso per cassazione con cui si eccepisce l’inutilizzabilità di un elemento probatorio senza dedurne la decisività in forza della prova di resistenza, ai fini dell’adozione del provvedimento impugnato (Sez. 3, n. 39603 del 03/10/2024, Izzo, Rv. 287024 . 02).
Alla stregua di tali considerazioni, la doglianza risulta conclusivamente inammissibile.
3.3. Per ciò che concerne la questione posta con il terzo motivo, la deduzione contestativa della partecipazione associativa articolata dal ricorrente ha reiterato, nella sostanza, la prospettazione di argomenti congruamente scrutinati dai giudici di appello. La Corte di assise di appello di Palermo ha fornito, sul punto, una valutazione di merito insuscettibile di essere superata, valutazione sviluppata anche con il richiamo delle argomentazioni rese e delle conclusioni raggiunte dalla Corte di assise di Trapani, la quale aveva già evidenziato la sussistenza degli elementi costituitivi del reato associativo di cui al capo 1) a carico di NOME COGNOME piø volte individuato come scafista nella commissione dei reati fine.
La Corte territoriale ha offerto una spiegazione chiara e coerente qualificando COGNOME al pari degli altri soggetti incaricati della conduzione delle imbarcazioni – non come mero concorrente nei reati di favoreggiamento, bensì come partecipe dell’associazione criminale: alla stregua di tale spiegazione appare infondata l’obiezione difensiva secondo cui i requisiti necessari per l’integrazione del reato associativo non si riscontrano per COGNOME.
In primo luogo, giova rammentare che, per la configurabilità del delitto di associazione per delinquere, Ł necessaria la predisposizione di un’organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e mezzi, funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti, nella consapevolezza, da parte di singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili ad operare nel tempo per l’attuazione del programma criminoso comune (fra le altre, Sez. 2, n. 20451 del 03/04/2013, COGNOME, Rv. 256054 – 01); non Ł tuttavia necessario che l’organizzazione criminale presenti una struttura articolata e complessa, nØ che vi sia una esplicita e reciproca manifestazione di intenti, essendo sufficiente la predisposizione di un minimo di organizzazione, anche esile, che sia tuttavia idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira; Ł sufficiente anche un’elementare predisposizione di mezzi, pur occasionalmente forniti da taluno degli associati o compartecipi, sempre che gli stessi siano in concreto idonei a realizzare in modo permanente il programma delinquenziale oggetto del vincolo associativo (Sez. 3, n. 9457
del
06/11/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 266286 – 01; Sez. 6, n. 25454 del 13/02/2009, COGNOME, Rv. 244520 – 01).
Con particolare riferimento allo specifico tipo di associazione a delinquere finalizzata alla commissione del delitto di favoreggiamento della immigrazione clandestina, la partecipazione a un’associazione a delinquere finalizzata a procurare l’ingresso irregolare di stranieri nel territorio dello Stato può essere ritenuta anche in base alla commissione di un’unica ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, purchØ essa sia dimostrativa, con portata concludente, della sussistenza del vincolo associativo (Sez. 1, n. 41098 del 15/07/2011, Rv. 251171 – 01).
L’elaborazione maturata nell’approfondimento del rapporto fra commissione di reati fine e partecipazione all’associazione, pur non mettendo minimamente in questione il principio secondo cui Ł consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato mezzo rispetto ai reati fine,
desumere la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima (Sez. U, n. 10 del 28/03/2001, dep. 27/04/2001, COGNOME, Rv. 218376 – 01), si Ł orientata ad affermare che l’appartenenza di un soggetto a un sodalizio criminale può essere ritenuta anche in base alla partecipazione a un solo reato fine, laddove il ruolo svolto e le modalità dell’azione siano tali da evidenziare la sussistenza del vincolo, condizione che può verificarsi solo quando tale ruolo non avrebbe potuto essere affidato a soggetti estranei, oppure quando l’autore del singolo reato impieghi mezzi e sistemi propri del sodalizio in modo da evidenziare la sua possibilità di utilizzarli autonomamente, come membro e non già come persona alla quale il gruppo li ha posti occasionalmente a disposizione (Sez. 1, n. 29093 del 24/05/2022, Barilari, Rv. 283311 – 01).
Ponendosi nel solco di questi principi, le Corti di merito hanno correttamente ritenuto che, sebbene lo scafista COGNOME avesse ricoperto un ruolo apparentemente meno importante rispetto a quello di alcuni altri coimputati, quali COGNOME e COGNOME, l’attività da lui svolta fosse, in realtà, pienamente funzionale e necessaria alla realizzazione degli scopi dell’associazione.
Si Ł opportunamente tenuto conto, in particolare, della considerazione che il ruolo di scafista da lui assunto richiedeva, non solo adeguata esperienza, ma anche sperimentata capacità di agire con discrezione e prudenza, elementi imprescindibili per il buon esito delle operazioni.
¨ stato, altresì, accertato che, su un totale di quattro viaggi via mare costituenti quelli in concreto ricondotti all’organizzazione, COGNOME era risultato coinvolto in tre traversate: circostanza che Ł stata valutata come confermativa della continuità e della stabilità del suo apporto, risultato – non riconducibile a un contributo sporadico, bensì – a una partecipazione duratura nel tempo, in linea con l’operatività dell’associazione, attiva dal gennaio almeno sino all’ottobre 2020.
In aggiunta, i giudici di merito hanno rilevato come il ruolo dei tre scafisti, COGNOME compreso, non si esaurisse nella mera conduzione delle imbarcazioni. Essi, infatti, provvedevano anche al rimessaggio delle stesse presso il capanno di San Teodoro, individuato come base logistica dell’organizzazione, garantendone la custodia e il controllo, dimorando ivi stabilmente nel periodo dell’attività criminale.
Alla luce degli adeguati argomenti valutati nella decisione impugnata deve ritenersi priva di fondamento la tesi difensiva secondo cui il contributo fornito da COGNOME consistesse in un mero apporto occasionale, inidoneo a integrare la partecipazione al reato associativo. Sulla scorta di questi elementi, pertanto, la motivazione resa dalla Corte di assise di appello non viene scalfita dalla critica di avere erroneamente desunto la prova del vincolo associativo dalla sola commissione dei fatti criminosi, trattandosi di critica obiettivamente priva di fondamento, dal momento che la sentenza in verifica non si Ł limitata a dedurre l’esistenza del sodalizio criminoso esclusivamente dalla commissione dei singoli delitti, ma ha concluso per la sussistenza della partecipazione dell’imputato al sodalizio valorizzando una pluralità di elementi, analiticamente richiamati e puntualmente esaminata, annettendo anche congruo significato alla perpetrazione da parte dell’imputato dei succitati reati fine. Parimenti infondata Ł l’affermazione secondo la quale l’estraneità alla consorteria sarebbe confermata dal fatto che l’imputato non aveva conosciuto gli altri sodali, ad
eccezione di COGNOME Tale circostanza risulta infatti ampiamente smentita dalla motivazione della sentenza impugnata, nella quale si Ł dato conto dell’esistenza di numerosi contatti intercorsi tra COGNOME e gli altri coimputati, comprovati anche dalle immagini di videosorveglianza.
In tale direzione i giudici del merito hanno preso in esame anche le dichiarazioni rese da COGNOME, nella parte in cui questi aveva affermato di non riconoscere COGNOME: esse sono state, con congrua motivazione, ritenute inattendibili, in quanto erano state smentite dal dato oggettivo della collaborazione tra COGNOME e COGNOME in occasione della traversata del 1° agosto
2020.
Neppure l’argomento relativo all’asserita fungibilità del ruolo dello scafista può essere utilmente invocato a sostegno della tesi difensiva volta a qualificare COGNOME come mero concorrente: la Corte di merito, fornendo ragguagli concreti dello spessore rilevante del contributo dato dall’imputato rivestendo ripetutamente il ruolo di scafista, con particolare riferimento alla connotazione fiduciaria assunta dal contributo di tale imputato, ha considerato la sua complessiva condotta anche operativa quale indice, ascrivibile proprio ad COGNOME, della solida stabilità dell’organizzazione criminale
La motivazione della sentenza impugnata ha dato puntuale risposta alla tesi difensiva secondo cui non sarebbe stata adeguatamente provata la consapevolezza, da parte dell’imputato, dell’esistenza della struttura organizzativa, nØ tantomeno la coscienza e volontà di partecipare a una precostituita associazione per delinquere, anche in relazione ai suoi contatti con altre entità e alla sua asserita determinazione di non avere piø contatti con
i
sodali da una certa fase in poi.
Premesso che, ai fini dell’integrazione del reato di partecipazione ad associazione per delinquere, Ł necessario il dolo diretto, giacchØ nelle fattispecie associative la condotta che deve costituire oggetto di rappresentazione e volontà Ł quella di partecipazione attiva a un gruppo avente lo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti, essendo proprio questo fine l’elemento discriminante, che rende l’associazione una struttura illecita,
altrimenti
organismo del tutto lecito e al quale si partecipa in esplicazione di un diritto fondamentale, riconosciuto dall’art. 18 Cost. (Sez. 3, n. 1465 del 10/11/2023, dep. 2024, Orza, Rv. 285737
–
01), deve osservarsi che i giudici di merito hanno dato conto in maniera esaustiva delle numerose risultanze probatorie – fra le quali i servizi di osservazione e pedinamento, le videoriprese e l’esito delle intercettazioni – da cui si Ł univocamente e chiaramente inferita
la consapevolezza dell’imputato di agire nell’ambito di quella specifica e strutturata organizzazione criminale.
In particolare, si Ł sottolineato che le conversazioni intercettate avevano fatto emergere come gli scafisti, tra cui lo stesso imputato, discutessero con gli organizzatori, nel tempo di operatività della consorteria, non solo della pianificazione concreta dei viaggi, ma anche della ripartizione dei proventi e del costo del trasporto per i migranti, dimostrando così di essere in possesso di un’informata visione complessiva dell’operazione illecita e di dare luogo a una partecipazione consapevole agli scopi del sodalizio, ben oltre la semplice remunerazione individuale per l’attività svolta.
Tali risultanze sono state ritenute dalla difesa oggetto di travisamento nella parte in cui la sentenza impugnata ha collegato alla conversazione intercorsa tra COGNOME ed COGNOME avente ad oggetto il pagamento anticipato per i futuri incarichi – l’adesione dell’imputato al programma criminoso e la volontà di proseguire l’attività oltre i viaggi effettuati nel mese di maggio.
La deduzione, in realtà, non attiene a travisamento della prova captativa Invero, Ł possibile proporre una diversa interpretazione del contenuto di un’intercettazione solo laddove si configuri un effettivo travisamento della prova, ossia quando il giudice di merito abbia riportato il contenuto della conversazione in modo difforme dalla sua reale formulazione, e tale difformità risulti decisiva e incontestabile (Sez. 3, n.
6722
del 21/11/2017, dep. 2018, COGNOME Rv. 272558 – 01).
Nel caso di specie, la conversazione oggetto di censura, risalente al 17 giugno 2020 e intercorsa tra Ejjed e COGNOME, nella quale quest’ultimo chiedeva di essere pagato in anticipo e in modo adeguato per i futuri incarichi, Ł stata incensurabilmente interpretata dai giudici di merito come espressione della volontà dell’imputato di continuare a partecipare all’attività dell’organizzazione. E tale interpretazione ha trovato conforto nella valutazione della successiva condotta di COGNOME, effettivamente coinvolto nella traversata del 1° agosto 2020, essendosi ritenuta per tal verso corroborata la coerenza logico-fattuale della complessiva ricostruzione della condotta dell’imputato.
Tali elementi confermano, pertanto, la congruità del discorso giustificativo approdato alla conclusione della piena sussistenza anche dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 416 cod. pen. e smentiscono radicalmente la prospettazione difensiva inerente all’estraneità dell’imputato rispetto alla finalità associativa.
3.4. In ordine al quarto motivo di ricorso, con cui la difesa di COGNOME ha contestato la decisione nella parte in cui ha confermato la statuizione di primo grado relativa al riconoscimento dell’aggravante speciale prevista dall’art. 12, comma 3, lett. a) d.lgs. n. 286 del 1998, concernente l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o piø persone, fondando la contestazione sull’assunto che l’operazione condotta il 28 maggio 2020 di cui al capo 3), non si sarebbe concretata nel trasporto effettivo di migranti clandestini, la doglianza appare infondata.
La prospettazione non si confronta con l’orientamento ermeneutico, qui condiviso, secondo il quale fattispecie previste e sanzionate nell’art. 12, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998 configurano circostanze aggravanti del reato di pericolo, a consumazione anticipata, di cui al comma 1 della norma: pertanto, il riferimento all’ingresso e alla permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o piø persone contenuto nella lett. a) deve essere rapportato alla descrizione generale della condotta compiuta nella prima parte del comma, con la conseguenza che l’aggravante risulta integrata anche in assenza del concreto raggiungimento del risultato, essendo sufficiente la dimostrata direzione della condotta verso tale finalità (sulla struttura del reato in esame Sez. U., n. 40982 del 21/06/2018, P., Rv. 273937 – 01).
Nel caso di specie, i giudici di appello hanno dato adeguatamente conto, con preciso riferimento alle fonti probatorie dimostrative dell’assunto, della presenza di una pluralità di atti idonei e univocamente diretti a realizzare l’ingresso irregolare di un numero significativo di cittadini stranieri nel territorio italiano: tra questi, la predisposizione dell’imbarcazione, delle attrezzature di bordo e di navigazione, l’impiego di scafisti, nonchØ i contatti con la
base logistica tunisina, preordinati alla partenza di almeno dieci cittadini extracomunitari. Alla luce di tali considerazioni, la censura si rivela priva di fondamento.
3.5. Circa la disamina del quinto motivo, con cui il ricorrente ha censurato la sentenza nella parte in cui ha escluso il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62 bis cod. pen., rimproverando alla motivazione del giudice di merito non solo un’eccessiva sintesi, ma anche la carenza sotto il profilo logico-giuridico, assumendo che il diniego Ł
stato
fondato unicamente sulla considerazione che l’imputato avrebbe reso dichiarazioni mendaci in merito a profili determinanti della propria responsabilità, senza considerare ulteriori elementi favorevoli alla sua posizione, occorre prendere atto che la difesa pone l’accento, in particolare, sulla circostanza che COGNOME aveva ammesso la propria responsabilità in relazione a fatti inizialmente non contestati, determinando l’apertura di un nuovo procedimento penale relativo al viaggio del 23 maggio 2020.
A giudizio del ricorrente, il comportamento censurato dalla Corte territoriale non dovrebbe essere interpretato negativamente, in quanto l’ammissione parziale, pur se successiva e limitata, andrebbe comunque considerata in modo positivo, per il resto le sue dichiarazioni costituendo l’espressione del legittimo diritto a mentire riconosciuto all’imputato.
Anche tale censura risulta destituita di fondamento. Come Ł stato evidenziato nella sentenza impugnata, la mancata collaborazione dell’imputato con l’autorità giudiziaria manifestatasi attraverso dichiarazioni mendaci su profili centrali della sua responsabilità ha rappresentato soltanto uno degli elementi presi in considerazione dal giudice di merito, essendosi specificato che il diniego delle attenuanti generiche ha trovato ulteriore giustificazione nella sussistenza di precedenti penali specifici a carico di COGNOME (in particolare, un reato di ricettazione), nonchØ nei rilievi già svolti dai giudici di primo grado, relativi alla particolare gravità delle condotte accertate e al ruolo significativo avuto dall’imputato, sia nell’attuazione dei reati fine, sia nell’ambito dell’associazione per delinquere di cui al capo 1).
Alla stregua del quadro complessivo tracciato dai giudici di merito appare inane la prospettazione difensiva volta a tutelare il diritto a mentire dell’imputato: a parte il rilievo che, se l’imputato ha facoltà di non rispondere o anche di rendere dichiarazioni non veritiere, ciò non esclude che il giudice possa legittimamente valutare il comportamento processuale dell’imputato per trarne elementi di giudizio sulla sua personalità (Sez. 1, n. 3819 del 03/03/1994, COGNOME, Rv. 196986 – 01), quel che la doglianza non Ł idonea a contrastare Ł la congrua valutazione giudiziale della multifattoriale condizione ostativa al riconoscimento delle attenuanti innominate in favore dell’imputato.
Del resto, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicchØ anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549 – 02).
La doglianza va, quindi, disattesa.
4. Il ricorso di NOME COGNOME Ł egualmente infondato nel suo insieme.
4.1. Il primo motivo, che investe la ritenuta responsabilità dell’imputato in ordine al reato di cui al capo 1), relativo alla sua partecipazione all’associazione per delinquere ex art. 416 cod. pen., finalizzata alla commissione di una pluralità di delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, si basa sulla prospettazione secondo cui difetterebbero gli elementi idonei a dimostrare l’evenienza di una concreta affectio societatis in capo al ricorrente.
Sul punto, la Corte di assise di appello ha fornito una motivazione esaustiva e puntuale, coerentemente fondata sulle risultanze probatorie, che delineano un quadro ben diverso rispetto a quello sostenuto dalla difesa in ordine al ruolo effettivamente svolto dall’imputato all’interno del sodalizio. Dall’attività istruttoria Ł, infatti, emerso che COGNOME non solo aveva partecipato attivamente all’associazione, ma aveva anche rivestito un ruolo di rilievo quale referente di fiducia di COGNOME, individuato quale vertice del gruppo. A partire dal gennaio 2020, COGNOME aveva intrattenuto rapporti diretti con NOME e NOME – esponenti del gruppo dei canicattinesi – svolgendo funzioni essenziali per il funzionamento dell’organizzazione: dalla sorveglianza del capanno di San Teodoro (luogo di incontro dei sodali, deposito dei natanti
e punto di appoggio per gli scafisti) alla partecipazione nella pianificazione e supervisione dei viaggi, in stretta collaborazione con COGNOME
Fino al suo allontanamento, avvenuto il 20 giugno 2020, COGNOME aveva preso parte a tutte le riunioni dell’associazione, contribuendo anche alle decisioni di natura economica. Le intercettazioni acquisite hanno confermato il suo coinvolgimento operativo e strategico, evidenziando il suo interesse diretto al profitto derivante dai traffici, al punto da esprimere impazienza per i tempi necessari alla riparazione del gommone acquistato nel gennaio 2020 dai canicattinesi.
La Corte territoriale ha altresì affrontato, fornendo una risposta coerente e persuasiva, la questione sollevata in sede di appello relativa alla possibilità di configurare la partecipazione a un’associazione anche in capo a un soggetto che abbia preso parte a un numero limitato di operazioni e sia poi stato estromesso.
La difesa omette, in tal senso, di considerare una serie di elementi oggettivi che, secondo la completa analisi dei giudici di merito, depongono univocamente nel senso della piena adesione dell’imputato al sodalizio: la sua partecipazione all’acquisto del primo natante, la suddivisione delle spese per le riparazioni, la scelta di procedere ai viaggi del 23 e 28 maggio 2020 con un diverso natante per ottimizzare i guadagni, le stesse connotazioni del conflitto sorto con gli altri sodali per l’esclusione dei canicattinesi da tali operazioni: questo dissidio, come Ł stato perspicuamente rilevato dalla Corte di merito, non avrebbe avuto ragion d’essere se non vi fosse stato un pregresso pactum sceleris, la cui violazione era stata oggetto di contestazione da parte dei canicattinesi.
Un’ulteriore conferma della piena partecipazione di COGNOME all’associazione Ł stata individuata nel fatto della successiva riconciliazione tra le parti e nella conseguente prosecuzione delle attività criminali, fino al definitivo allontanamento dell’imputato, che, tuttavia, era successivamente confluito in altro sodalizio criminoso: elemento che, nella solida ricostruzione emersa dalla decisione impugnata, consolida vieppiø la tesi della sua pregressa affiliazione.
La conclusione raggiunta, del resto, si accorda (e ciò Ł stato notato dai giudici di merito in relazione alle posizioni dei coimputati COGNOME COGNOME e COGNOME) con il già citato orientamento secondo cui il reato associativo può ritenersi integrato anche a fronte della commissione di una sola condotta di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, purchØ
essa sia idonea a dimostrare, con portata concludente, l’esistenza del vincolo associativo. In considerazione di tali rilievi, in modo del tutto congruo il ruolo di COGNOME non Ł stato degradato, come aveva proposto la difesa, alla mera frequentazione occasionale o a semplici contatti con gli altri imputati.
4.2. L’esame del secondo motivo, trattandosi di doglianza sovrapponibile a quella già delibata con riferimento al secondo motivo del ricorso presentato dal coimputato COGNOME in ordine all’utilizzabilità di una parte delle videoregistrazioni, deve risolversi nel completo richiamo delle valutazioni e delle conclusioni già espresse nello scrutinio di quella doglianza, valutazioni e conclusioni integralmente confermate.
In ragione di quanto precede, la censura va senz’altro disattesa..
4.3. Il terzo motivo, incentrato sull’asserzione della mancanza di elementi idonei a comprovare l’effettivo svolgimento del viaggio del 23 maggio 2020, oggetto di contestazione al capo 2), risulta resistito e superato dalle motivate e coerenti argomentazioni offerte da entrambe le decisioni di merito, conformi sull’argomento.
In particolare, le sentenze hanno valorizzato il contenuto delle numerose conversazioni intercettate tra i sodali, risalenti a epoca antecedente alla traversata, le quali si sono rivelate determinanti ai fini della ricostruzione delle modalità organizzative del viaggio. Da tali conversazioni Ł emerso, altresì, che il viaggio era stato effettuato senza il coinvolgimento del gruppo dei cosiddetti canicattinesi.
A corroborare ulteriormente il quadro probatorio Ł stato considerato il materiale scaturito dalle immagini restituite dal sistema di videosorveglianza: tali riprese hanno documentato inequivocabilmente la presenza di Miladi presso il capanno di San Teodoro, luogo centrale per le attività dell’organizzazione.
Le conversazioni intercettate successivamente al 23 maggio hanno confermato, inoltre, il ruolo di coordinamento assunto dallo stesso imputato nelle fasi operative della traversata in mare, sia durante la navigazione verso la Tunisia e sia durante il viaggio di ritorno, avvenuto nelle prime ore del 24 maggio.
La Corte di merito, avvalendosi della puntuale ricostruzione basata su precisi elementi di fatto, ha analizzato l’intera vicenda di quel viaggio in modo congruo ed esente da cesure logiche, sicchØ appare priva di consistenza la censura secondo cui non sarebbero affiorati elementi sufficienti a fondare la responsabilità dell’imputato. Del pari, risulta infondata l’affermazione secondo cui i fatti relativi a questa vicenda antigiuridica sarebbero stati ricostruiti esclusivamente sulla base dell’evento del 28 maggio.
Quanto, poi, alla circostanza che il trasporto ha riguardato dieci migranti, inizialmente desunta in via indiretta dalle comunicazioni successive alla traversata, essa, secondo il puntuale resoconto fatto dai giudici di merito, ha trovato piena conferma nelle dichiarazioni rese dall’imputata di reato connesso NOME COGNOME (come aveva evidenziato particolarmente la sentenza di primo grado), nonchØ nelle ammissioni dello stesso COGNOME. Va ribadito anche per tale posizione che l’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 286/1998, integrando una fattispecie di reato di pericolo, non richiede, ai fini della sua configurazione, l’effettivo ingresso nel territorio dello Stato da parte dei cittadini extracomunitari, come si Ł in precedenza puntualizzato: trattandosi di una fattispecie a consumazione anticipata, il reato risulta integrato già con il compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco a procurare l’ingresso irregolare dello straniero nel territorio nazionale.
I dati probatori valorizzati nelle decisioni di merito, considerati nel loro insieme, hanno, pertanto, consentito ai giudici di appello di ritenere pienamente integrata la fattispecie di cui all’art. 12, comma 3, d.lgs. cit., escludendo ogni ragionevole dubbio in ordine alla
sussistenza del reato contestato.
4.4. In immediata continuità con le osservazioni ora svolte, anche il quarto motivo si rivela infondato.
La difesa ha, con esso, criticato la ricostruzione dei fatti oggetto di contestazione ai capi 2) e 3), operata dai giudici di merito sostenendo che essa Ł il frutto di un’interpretazione arbitraria e priva di alcun concreto riscontro fattuale.
La doglianza, peraltro, risulta del tutto ripropositiva di argomentazioni già avanzate in sede di appello e già analizzate in modo adeguato e puntuale nella sentenza in verifica.
In particolare, i dubbi instillati dalla difesa in ordine all’interpretazione del termine ‘montoni’ – ritenuto riferibile al denaro e non a persone – sono state ampiamente superate dalla motivazione della Corte territoriale, la quale ha dato conto dello sviluppo delle conversazioni intercettate e ha spiegato in modo convincente le ragioni per le quali emerge chiaramente che il termine in questione viene utilizzato per indicare i soggetti extracomunitari trasportati, nella specie dieci persone.
Parimenti infondata Ł la deduzione che ha prospettato l’insussistenza della consumazione del reato. Sul punto, la Corte ha richiamato la natura giuridica del reato previsto dall’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 286/1998, configurabile come reato di pericolo o a consumazione anticipata. Il punto Ł stato già analizzato.
Non può trovare accoglimento neppure la tesi difensiva secondo cui l’imputato avrebbe soltanto simulato l’organizzazione del trasporto, atteso che tale ricostruzione, come hanno spiegato i giudici del merito, Ł smentita dalle risultanze fattuali oggettive, quali le intercettazioni e i filmati acquisiti, che documentano il reale e consapevole coinvolgimento di COGNOME nelle operazioni in questione.
Del resto, la deduzione volta a coltivare ricostruzioni dei fatti sostanzialmente diverse da quelle appurate dai giudici di merito non giova al ricorrente, in quanto non introduce un tema ammissibilmente delibabile in questa sede, dovendo necessariamente osservarsi che, nel giudizio di legittimità, pure l’introduzione del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio nell’art. 533 cod. proc. pen., ad opera della legge 20 febbraio 2006, n. 46, non ha modificato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza: in tal senso, la mera prospettazione, da parte della difesa, di una ricostruzione alternativa dei fatti già esaminata e confutata dai giudici di merito non integra un vizio di motivazione rilevante ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 5517 del 30/11/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285801 – 01).
4.5. Gli ultimi due motivi – il quinto e il sesto – del ricorso proposto da COGNOME possono essere esaminati congiuntamente, in quanto entrambi vertono in merito al trattamento sanzionatorio.
Con il quinto motivo, l’imputato si duole del mancato riconoscimento dell’attenuante speciale di cui all’art. 12, comma 3-quinquies, d.lgs. n. 286 del 1998, sostenendo di aver collaborato con l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti.
Deduce, altresì, un vizio di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Il diniego dell’attenuante speciale non si presta a censura.
Secondo la consolidata elaborazione di legittimità, in materia di favoreggiamento dell’immigrazione illegale, il riconoscimento dell’attenuante a effetto speciale di cui all’art.
12,
comma 3-quinquies, presuppone una collaborazione effettiva e utile alle indagini, finalizzata alla ricostruzione dei fatti e all’individuazione dei responsabili, che sia valutata in relazione al patrimonio conoscitivo dell’imputato; e a tal fine non Ł sufficiente una generica resipiscenza, nØ la semplice confessione o l’apporto di elementi di secondaria rilevanza (Sez. 1, n. 5177 del 19/12/2024, dep. 2025, Hodus, Rv. 287556 – 01).
Nel solco di tali principi deve rilevarsi l’evidente carenza di fondatezza alla base della censura: il ricorrente, infatti, ha omesso di confrontarsi in modo puntuale con la motivazione della sentenza impugnata, la quale ha esposto in maniera chiara e articolata le ragioni del mancato riconoscimento sia dell’attenuante speciale di cui all’art. 12, comma 3-quinquies, cit. e sia delle attenuanti generiche.
In particolare, i giudici di appello hanno correttamente ritenuto che le dichiarazioni rese da COGNOME non potessero essere qualificate come collaborative per gli effetti di cui all’indicata norma: l’imputato aveva, da un lato, negato implicitamente la propria piena responsabilità e quella altrui, posizione smentita dalle evidenze processuali, e, dall’altro, non aveva posto in essere alcuna condotta diretta a impedire la realizzazione dell’attività delittuosa, avendo
reso
dichiarazioni solo a indagini concluse e nel corso del giudizio di primo grado. Inoltre, egli non aveva fornito alcun concreto ausilio all’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti, ma, al contrario, aveva ostacolato l’accertamento della verità attraverso dichiarazioni mendaci.
La difesa ha contestato tale valutazione sostenendo che l’imputato avrebbe apportato un contributo determinante alla ricostruzione dei fatti oggetto del capo 2): e, però, questa affermazione si rivela del tutto generica, in quanto con essa non Ł stato chiarito il contenuto specifico del contributo offerto, nØ Ł stato precisato il modo in cui esso avrebbe effettivamente inciso sull’accertamento della verità processuale.
Il lamento inerente al confermato diniego delle attenuanti generiche, poi, il riferimento ai medesimi elementi si profila egualmente generico, di guisa che la censura risulta essersi risolta in una sollecitazione ottativa e, come tale, generica.
Anche la doglianza formulata con il sesto motivo, inerente all’asserita eccessiva severità della pena inflitta, risulta infondata.
In effetti, la puntuale ricostruzione dei fatti e dei ruoli svolti dagli imputati, operata dai giudici di merito, ha dato conto delle ragioni per le quali non si sono individuati elementi per ritenere che il contributo fornito da COGNOME fosse da qualificarsi marginale: al contrario, si Ł motivatamente acclarato che egli aveva rivestito un ruolo di rilievo all’interno dell’organizzazione criminale, affiancando COGNOME – individuato quale vertice operativo del sodalizio – e imponendosi come una figura centrale fino al momento del suo allontanamento.
Ne consegue che il trattamento sanzionatorio irrogato – il quale si Ł articolato con un computo sviluppato muovendo da una pena base per il reato piø grave (quello di cui al capo 2) di poco superiore al minimo edittale – Ł stato ritenuto in modo congruo e non illogico pienamente conforme ai criteri di adeguatezza e proporzionalità rispetto alla gravità della condotta accertata.
Il ricorso proposto da NOME COGNOME risulta privo di pregio giuridico.
5.1. In merito al primo motivo, relativo alla legittimità della dichiarazione di latitanza e alla conseguente nullità degli atti processuali successivi, la sentenza impugnata Ł immune dai vizi dedotti.
Si richiamano i principi già enunciati nell’esame del primo motivo del ricorso proposto dal ricorrente COGNOME avente analogo contenuto, punto in cui si Ł ribadito che ai fini della legittimità del decreto di latitanza Ł necessario il preventivo esito negativo delle ricerche della polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 295 cod. proc. pen., tali da risultare esaustive al duplice scopo di consentire al giudice di valutare l’impossibilità di procedere alla esecuzione della misura per il mancato rintraccio dell’imputato e la volontaria sottrazione di quest’ultimo alla esecuzione della misura emessa nei suoi confronti.
Nel caso in esame, la difesa contesta l’adeguatezza delle ricerche svolte, anche alla luce del profilo dell’imputato, privo di fissa dimora e connotato da una marcata mobilità internazionale.
In primo luogo, però, si rileva che anche tale imputato non ha concretamente adempiuto l’onere a suo carico, inerente all’esibizione dell’atto processuale asseritamente viziato da carenza motivazionale, ossia il decreto di latitanza di cui si tratta.
Tale carenza rende la doglianza generica, siccome non documentata: il ricorrente, non allegando al ricorso il decreto di latitanza oggetto di contestazione, ha precluso ogni effettiva verifica del vizio denunciato, nonostante l’onere di provare il fatto processuale, dal quale dipendeva l’accoglimento dell’eccezione, gravasse su di lui, come si Ł già rilevato per la posizione di COGNOME
Anche per questa posizione, la sentenza impugnata ha dato conto, comunque, che la polizia giudiziaria aveva eseguito le attività di ricerca nei luoghi notoriamente frequentati da NOME COGNOME, tra cui il suo ultimo domicilio noto a Canicattì.
Per il resto, nel caso di specie, come correttamente rilevato dalla Corte di assise di appello, non vi erano elementi tali da far presumere con certezza la presenza dell’imputato all’estero al momento dell’esecuzione della misura: la stessa difesa, peraltro, non ha indicato alcun luogo concreto in cui l’imputato avrebbe potuto essere rintracciato quando era emersa la situazione regolata dall’art. 295 cod. proc. pen. ai fini dell’emissione del decreto di cui all’art. 296 cod. proc. pen.
Inoltre, le presunzioni relative alla volontaria sottrazione dell’imputato all’esecuzione della misura cautelare coercitiva valutate dal giudice a suo tempo procedente, come emergenti dalla sentenza della Corte di assise di appello, si configuravano come tutt’altro che irrilevanti, tenuto conto che l’imputato NOME COGNOME come si evince sempre dall’esame della sentenza impugnata, era ed Ł restato latitante per l’intero svolgimento del giudizio. Le ricerche, peraltro, si erano coniugate con la posizione tutt’altro che marginale ricoperta da NOME COGNOME all’interno del sodalizio criminoso, nonchØ in relazione alla circostanza che all’ordinanza applicativa della custodia cautelare a suo carico era stato dato corso soltanto dopo l’arresto, ampiamente noto, degli altri coimputati, avvenuto il 5.07.2022, in base a titolo emesso il 27.06.2022.
Il rilievo di siffatti aspetti ha condotto la Corte territoriale alla congrua conclusione che, anche sotto il profilo della consapevole e volontaria sottrazione di NOME COGNOME alle ricerche, il giudice emittente aveva valutato tangibili indici che pure orientavano per la sussistenza di quel presupposto.
In particolare, aveva assunto rilievo la posizione ricoperta dall’imputato nell’ambito del sodalizio criminoso, nØ marginale nØ occasionale. Quanto all’attenzione riservata alla rilevanza del ruolo svolto da NOME COGNOME all’interno dell’associazione, si osserva che
dall’analisi
della posizione dell’imputato, per come inquadrata fin dall’imputazione, egli, quale scafista, egli aveva ricoperto una funzione essenziale nella struttura organizzativa e nella continuità operativa del sodalizio, dal momento che l’attività di trasporto marittimo degli immigrati extracomunitari costituiva una componente centrale del piano criminoso, con l’emersione dell’importanza del suo apporto, confermata anche dalla delicatezza delle operazioni a lui affidate. Anche per NOME COGNOME la rilevanza del ruolo ricoperto, evinta dalla delicatezza delle operazioni affidategli lo aveva collocato in posizione da doversi prefigurare l’innesco di immediate ricerche nei suoi confronti non appena l’indagine era stata concretamente avviata, per cui il quadro presuntivo si profila coerente con la ricostruzione operata dai giudici di merito.
In definitiva, non Ł risultato che il decreto di latitanza sia stato emesso dal giudice procedente esondando dall’alveo della discrezionalità a lui riservato. La doglianza va, quindi, respinta.
5.2. Nel procedere all’esame del secondo motivo di ricorso avanzato da NOME COGNOME deve constatarsi che esso riguarda il tema dell’utilizzabilità o meno delle riprese registrate dalle videocamere ritraenti la parte esterna del capanno di San Teodoro, ossia la problematica trattata con riferimento al secondo motivo del ricorso proposto da COGNOME e, poi, al secondo motivo del ricorso proposto da COGNOME.
L’esito sortito dall’analisi di quelle doglianze va confermato anche per il sovrapponibile motivo articolato da NOME COGNOME che va anch’esso disatteso.
Pure il ricorso articolato da NOME COGNOME risulta complessivamente infondato.
6.1. Il primo motivo concerne la contestazione della legittimità del decreto di latitanza emesso nei suoi confronti.
Si richiamano i principi già enunciati nell’esame del primo motivo del ricorso proposto dal ricorrente COGNOME avente analogo contenuto, lì dove si Ł ribadito che ai fini della legittimità del decreto di latitanza Ł necessario il preventivo esito negativo delle ricerche della polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 295 cod. proc. pen., tali da risultare esaustive al duplice scopo di consentire al giudice di valutare l’impossibilità di procedere alla esecuzione della misura per il mancato rintraccio dell’imputato e la volontaria sottrazione di quest’ultimo alla esecuzione della misura emessa nei suoi confronti.
Nel quadro lumeggiato, la doglianza in esame risulta priva di fondamento, considerato che la sentenza impugnata ha compiutamente esaminato la questione già oggetto di censura, disattendendola mediante un percorso argomentativo coerente e persuasivo. In particolare, non Ł suscettibile di essere condivisa la tesi difensiva secondo cui le ricerche eseguite dalla polizia giudiziaria di Agrigento non sarebbero state esaustive, atteso che tale affermazione non Ł sorretta da concrete specificazioni fattuali, a fronte della emersione dell’effettuazione di tali ricerche presso la sua abitazione di Gela, al INDIRIZZOe presso l’abitazione della sorella, in Gela, INDIRIZZO nonchØ mediante il contatto con il fratello, a seguito del quale si era appreso che il ricercato si era recato in Messina in luogo imprecisato, per motivi di lavoro, nonchØ si era acquisita l’ultima sua utenza telefonica cellulare, a cui peraltro COGNOME era risultato in concreto non raggiungibile.
Anche per la posizione di tale imputato era emersa dagli atti la concreta possibilità che il fratello e/o la sorella di lui, residenti in Gela, nello stesso comune in cui gravitava l’imputato, avessero informato il ricercato della misura cautelare emessa a suo carico subito dopo che la polizia giudiziaria era recata da loro per reperirlo.
Inoltre, alla luce del principio sopra richiamato, secondo cui la volontaria sottrazione
alla misura cautelare può desumersi da indici fattuali significativi, la motivazione fornita dalla Corte territoriale appare del tutto immune da censure: essa ha considerato anche il ruolo tutt’altro che marginale svolto dall’imputato nell’ambito del sodalizio criminoso, dato che anche COGNOME in qualità di scafista, aveva svolto una funzione centrale nella struttura organizzativa e nella continuità operativa dell’associazione. L’attività di conduzione dei natanti destinati al trasporto di migranti extracomunitari rappresentava un elemento costitutivo dell’azione criminale del gruppo, con effetti notevoli rispetto al fine di evitare l’intercettazione da parte delle autorità, anche in considerazione dell’ingente valore economico dell’imbarcazione a lui affidata, di guisa che egli si trovava collocato in posizione tale da doversi prefigurare l’innesco di immediate ricerche nei suoi confronti non appena l’indagine era stata concretamente avviata.
L’importanza di questa considerazione Ł emersa, nella valutazione della Corte di merito, in misura ancora piø chiara in considerazione del fatto che l’imputato ha conservato la condizione di latitanza nel corso del processo.
In definitiva, il quadro presuntivo si profila coerente con la ricostruzione operata dai giudici di merito, sicchØ nemmeno per questo ricorrente Ł risultato che il decreto di latitanza sia stato emesso dal giudice procedente esondando dall’alveo della discrezionalità a lui riservato.
Alla luce di tali considerazioni la censura difensiva si rivela priva di fondamento. 6.2. L’esame del secondo motivo di ricorso proposto da COGNOME afferisce alla questione dell’utilizzabilità o meno delle riprese registrate dalle videocamere ritraenti la parte esterna del capanno di San Teodoro, ossia alla tematica già scrutinatacon riferimento al secondo motivo del ricorso proposto da COGNOME e, poi, alle parallele doglianze di COGNOME e NOME COGNOME. All’approdo raggiunto dall’analisi di quelle doglianze deve farsi richiamo per la definizione del r il sovrapponibile motivo articolato dal ricorrente.
La doglianza non può che essere, quindi, disattesa.
6.3. Con riferimento al terzo motivo, si rileva che le doglianze formulate dal ricorrente, riguardanti la contestazione della sua partecipazione all’associazione sub 1), si risolvono, in sostanza, nella mera riproposizione di argomentazioni già adeguatamente esaminate e confutate dalla Corte di assise di appello.
Quest’ultima ha infatti svolto una valutazione di merito pienamente congrua e non sindacabile in questa sede, richiamando le conformi conclusioni raggiunte dalla Corte di assise di Trapani, che aveva puntualmente evidenziato la sussistenza degli elementi idonei a fondare la responsabilità dell’imputato NOME COGNOME in ordine al reato associativo. favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma avesse serbato condotte dimostrative
Sul punto, la motivazione della Corte Ł incensurabile per chiarezza e coerenza, avendo spiegato come COGNOME, al pari degli altri soggetti incaricati della conduzione delle imbarcazioni, non potesse essere qualificato come mero concorrente nei reati di del suo ruolo di effettivo partecipe dell’associazione criminale finalizzata all’immigrazione illegale.
Richiamate anche per questa posizione le coordinare ermeneutiche in tema di partecipazione all’associazione per delinquere, si osserva che Corti di merito hanno correttamente ritenuto che – sebbene il ruolo ricoperto da NOME COGNOME potesse apparire, in via di prima approssimazione, piø marginale rispetto a quello rivestito da altri coimputati, quali COGNOME e COGNOME – l’attività da lui svolta era stata, in realtà, funzionale e necessaria alla realizzazione degli scopi dell’associazione.
La qualifica di scafista assunta dall’imputato e l’attività da lui conseguentemente
praticata avevano implicato, infatti, non solo l’impiego di adeguata esperienza, ma anche azioni concrete compiute con discrezione e prudenza, elementi imprescindibili per il buon esito delle operazioni.
Le mansioni anche a lui attribuite non si erano esaurite nella conduzione dei natanti. I giudici del merito hanno specificato, invero, che dall’esame dei filmati acquisiti nel corso delle indagini emerge che COGNOME, unitamente agli altri scafisti, si era occupato anche della manutenzione delle imbarcazioni custoditi presso il capanno di San Teodoro e aveva garantito pure la sorveglianza sito assicurando una presenza stabile in loco. In questa prospettiva appare del tutto infondata la doglianza difensiva volta a rappresentare l’apporto di Zwawa come meramente episodico o occasionale, valorizzando la
sua qualifica di ‘uomo di NOMECOGNOME: quest’ultimo, identificato quale proprietario del gommone impiegato a seguito delle frizioni insorte tra i gruppi dei canicattinesi e dei marsalesi, aveva infatti messo a disposizione di questi ultimi – determinati a portare a compimento la traversata all’insaputa di COGNOME e COGNOME – proprio lo scafista COGNOME
La tesi difensiva che tende a dipingere l’imputato come soggetto estraneo al sodalizio criminoso risulta smentita dagli elementi probatori valorizzati nella sentenza impugnata, la quale, invece, ha escluso con chiarezza ogni incertezza in ordine alla continuità, alla costanza e la durata dell’opera da lui prestata in favore dell’associazione, evidenziando come egli avesse preso parte al sodalizio, peraltro sin dalle sue fasi iniziali.
Nel dettaglio, Ł stato accertato che l’imputato aveva preso parte al sodalizio sin dalle sue fasi inziali e aveva partecipato attivamente ai viaggi del 23 e 28 maggio 2020 (corrispondenti rispettivamente ai capi 2 e 3 dell’imputazione), nonchØ aveva preso parto a un ulteriore episodio precedente, ma formalmente non oggetto di contestazione.
¨ emerso con nettezza che il suo completo coinvolgimento nell’attività divisata e praticata dall’associazione si Ł protratto fino alla fine di giugno 2020 allorchØ – ma solo a seguito dell’emissione di un decreto di espulsione nei suoi confronti – COGNOME Ł stato costretto ad abbandonare i luoghi in cui si organizzavano i trasporti illegali di cittadini extracomunitari.
In relazione a queste connotazioni del contributo fornito dall’imputato, appare utile osservare che, sebbene esso non abbia coperto l’intero arco temporale di operatività dell’organizzazione, ma si sia concentrato su un periodo piø circoscritto, la sua condotta risulta comunque idonea a concretare la piena partecipazione al reato associativo, anche alla stregua del già richiamato insegnamento secondo il quale la partecipazione a un’associazione a delinquere finalizzata a procurare l’ingresso irregolare di stranieri nel territorio dello Stato può essere ritenuta anche in base alla commissione di un’unica ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, purchØ essa sia dimostrativa, con portata concludente, della sussistenza del vincolo associativo: e, in questa specifica vicenda, i giudici di appello hanno spiegato in modo adeguato la valenza associativa delle condotte ascritte, anche nell’ambito dei reati fine, all’imputato.
La Corte territoriale ha valorizzato anche la fungibilità degli scafisti come indice sintomatico della forte stabilità dell’organizzazione del sodalizio che, diretto da COGNOME e coadiuvato da COGNOME con il finanziamento e le interazioni organizzative di NOME e COGNOME lungi dall’interrompere le proprie attività per il venire meno di un sodale con funzioni esecutive essenziali, le continuava surrogando le persone il cui apporto, per qualsivoglia ragione, fosse venute meno.
La sentenza impugnata, per altro verso, ha risposto alle obiezioni della difesa anche in
merito alla tesi secondo cui non sarebbe stata adeguatamente provata la consapevolezza, da parte dell’imputato, dell’esistenza della struttura organizzativa, nØ tantomeno la coscienza e volontà di partecipare ad una precostituita associazione per delinquere. Invero, i giudici di appello hanno evidenziato come dalle intercettazioni telefoniche fosse emersa in modo chiaro la consapevolezza dell’imputato di agire nell’ambito di un’organizzazione criminale strutturata: le conversazioni intercettate, debitamente analizzate, hanno dimostrato che anche l’imputato, al pari degli altri scafisti, aveva discusso con gli organizzatori non solo in merito alla pianificazione concreta dei viaggi. L’ambito di interlocuzione degli scafisti era esteso anche alla ripartizione dei proventi e del costo del
trasporto per i migranti, nell’ambito della già evidenziata visione complessiva dell’operazione illecita e della partecipazione consapevole agli scopi del sodalizio.
Questi elementi hanno, dunque, confermato la certa sussistenza dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 416 cod. pen. e contrastano in modo determinante la prospettazione difensiva volta ad addurre l’estraneità dell’imputato rispetto alla finalità associativa.
Il motivo, pertanto, non merita condivisione.
6.4. Il quarto motivo di ricorso sviluppato dalla difesa concerne l’asserita erronea qualificazione giuridica dei i fatti contestati ai capi 2) e 3), relativi in particolare ai viaggi del 23 e 28 maggio 2020.
In relazione a tali episodi, l’imputato COGNOME Ł stato ritenuto responsabile del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, aggravato per aver compiuto atti diretti a procurare l’ingresso illegale nel territorio italiano di un numero imprecisato di cittadini extracomunitari, ma comunque non inferiore a dieci.
Si richiamano pure per tale posizione le considerazioni già svolte sulla natura giuridica del reato di cui all’art. 12, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998.
La difesa ha sostenuto che Ł mancata la prova certa in ordine all’effettivo carico umano trasportato nei viaggi contestati, ritenendo pertanto non integrati i requisiti dell’idoneità e dell’univocità richiesti per configurare un reato di pericolo.
Tale censura Ł infondata.
La Corte territoriale ha risposto compiutamente alla doglianza, già sollevata in sede di appello, mediante una motivazione coerente e ancorata al compendio probatorio articolato:
Ł
stato, infatti, accertato che i viaggi in esame erano finalizzati ed erano stati in concreto predisposti peri il trasporto di non meno di dieci migranti, sulla base di plurimi elementi convergenti: conversazioni intercettate dal tenore inequivocabile, osservazioni, filmati di videosorveglianza che avevano monitorato i viaggi e i loro protagonisti.
In particolare, le conversazioni intercettate contengono espliciti riferimenti al trasporto di persone, ai pagamenti ricevuti e agli aspetti logistici dell’attività illecita.
Inoltre, le deposizioni qualificate rese dagli operanti della polizia giudiziaria COGNOME e COGNOME – che la difesa ha censurate per il loro carattere asseritamente suggestivo – risultano, al contrario, dotate di attendibilità intrinseca.
Queste dichiarazioni, peraltro, sono state, con congrua valutazione, considerate coerenti con il complessivo materiale probatorio: e da ciò Ł correttamente derivata anche la valutazione della loro attendibilità estrinseca.
Tali elementi, valutati nel loro insieme, hanno condotto la Corte territoriale
all’incensurabile conclusione che le fattispecie di cui all’art. 12, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998 erano state integrate dalla condotta dell’imputato con specifico riguardo ai reati sub 2) e sub 3).
6.5. L’analisi della quinta doglianza va condotta in immediata continuità con quella dedicata al motivo appena esaminato, poichØ essa attiene ai medesimi fatti oggetto di contestazione ai capi 2) e 3) e lamenta la mancata derubricazione dei fatti stessi come reati previsti e punti dal comma 1 dell’art. 12 cit.
In linea con la censura relativa alla presunta mancanza di una prova certa circa il numero effettivo di migranti trasportati, la difesa ha, infatti, revocato in contestazione la sussistenza delle circostanze aggravanti previste dall’art. 12, comma 3, d.lgs. denunciando, per questo aspetto, la violazione del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio di cui all’art. 533 cod. proc. pen.
Orbene, non si dubita che il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio rappresenta un criterio valutativo imprescindibile che deve orientare il giudice nell’esame degli elementi indiziari secondo una visione unitaria e complessiva, guidata dal livello di convincimento richiesto: tale canone, in quanto diretta espressione del principio di presunzione di innocenza, incide non soltanto sulle regole di giudizio, ma anche, piø in generale, sui metodi di accertamento del fatto (Sez. 5, n. 25272 del 19/4/2021, COGNOME, Rv. 281468 – 01).
Deve, tuttavia, immediatamente osservarsi che la sentenza impugnata si Ł attenuta in modo pieno a tali principi, avendo operato una valutazione organica e non frammentaria degli elementi probatori, dedicandosi a un’adeguata confutazione delle tesi difensive e una motivazione logica e coerente, come si Ł già osservato in ordine all’avvenuta verifica da parte dei giudici del merito delle comprovate situazioni di fatto che hanno determinato l’applicazione delle circostanze aggravanti man mano ritenute, anche con riferimento a quelle indicate dal ricorrente nella censura.
Pertanto, anche questa doglianza Ł priva di fondamento, non ravvisandosi nella motivazione fornita dalla Corte di assise di appello alcuna forzatura interpretativa nella valutazione del quadro probatorio emerso e congruamente analizzato: e ciò esclude che si sia verificata la denunciata violazione del canone valutativo sancito dall’art. 533 cod. proc. pen.
6.6. L’ultima doglianza sollevata dalla difesa di COGNOME – afferente cl confermato diniego delle circostanze attenuanti generiche – non supera il vaglio di ammissibilità, in quanto, per un verso, Ł affidata ad argomentazioni generiche e, per altro verso, si profila manifestamente infondata.
L’imputato ha contesta il diniego limitandosi a reiterare quanto già dedotto dinnanzi alla Corte di assise di appello, la quale, in modo sintetico, ma preciso, ha fornito adeguata motivazione a giustificazione della scelta operata: il ruolo ricoperto nell’associazione, la reiterazione dei reati fine, la condotta post delictum sono stati ponderati, con spiegazione congrua e non illogica, fattori ostativi al riconoscimento all’imputato delle attenuanti ex art. 62-bis cod. proc. pen.: a questa valutazione di merito nessuna ammissibile critica Ł stata opposta dal ricorrente.
Corollario delle considerazioni svolte Ł, in definitiva, il rigetto di tutti i ricorsi. A tale statuizione segue la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così Ł deciso, 11/04/2025
Il Consigliere estensore COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME