Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 34182 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 34182 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 24/09/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nata a Como il DATA_NASCITA NOME NOME nato a Galliate il DATA_NASCITA NOME nata a Voghera il DATA_NASCITA inoltre:
Comune Di Como
Comune RAGIONE_SOCIALE Varedo
Comune RAGIONE_SOCIALE Gizzeria
Comune Di Cinisello Balsamo
Comune Di Dro
avverso la sentenza del 25/09/2024 della Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO COGNOMEAVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibili tutti i motivi di ricorso, ad eccezione del terzo motivo proposto dalla ricorrente COGNOME , per il quale ha chiesto l’ annullamento senza rinvio della sentenza impugnata ed il riconoscimento della sospensione condizionale della esecuzione della pena e la non menzione in favore della ricorrente;
lette le conclusioni scritte depositate dal l’AVV_NOTAIO nell’interesse della parte civile Comune di Como , dall’Avvocatura AVV_NOTAIO dello Stato nell’interesse della parte civile Comune di Dro (TN), dall’ AVV_NOTAIO nell’interesse della parte civile Comune di Cinisello Balsamo, dall’AVV_NOTAIO nell’interesse della parte civile Comune di Varedo nonché dall’AVV_NOTAIO
AVV_NOTAIO nell’interesse della parte civile Comune di Gizzeria, che , nell’insistere per la conferma della sentenza impugnata, hanno depositato separate note spese, chiedendone la liquidazione.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 25 settembre 2024, la Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Como del 3 febbraio 2021, ha: (i) dichiarato non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME per le contravvenzioni di cui ai capi 5 e 7 perché estinte per intervenuta prescrizione e, riconosciutegli le circostanze attenuanti generiche in relazione ai restanti capi, ha ridotto la pena rideterminandola in 2 anni e 4 mesi di reclusione, riconoscendone la responsabilità penale per i reati di cui agli artt. 110, 416 e 452-quaterdecies cod. pen., contestati come commessi secondo le modalità esecutive e spazio -temporali meglio descritte in rubrica; (ii) confermato la sentenza del Tribunale di Como, con cui NOME COGNOME era stata riconosciuta colpevole del reato di cui all’art. 416 cod. pen., contestato come commesso secondo le modalità esecutive e spazio -temporali meglio descritte in rubrica; (iii) ridotto a NOME COGNOME la pena inflittale in primo grado, in ordine ai reati di cui agli artt. 110, 416 e 484 cod. pen., contestati come commessi secondo le modalità esecutive e spazio -temporali meglio descritte in rubrica, confermando le statuizioni civili e revocando i doppi benefici di legge.
Avverso la predetta sentenza NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto separati ricorsi per cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, deducendo plurimi motivi, di seguito enunciati ex art. 173, disp. att., cod. proc. pen. nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
Ricorso NOME COGNOME, difeso dall’AVV_NOTAIO, con cui si articolano tre motivi.
3.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge ed il correlato vizio di motivazione in relazione all’art. 452 -quaterdecies cod. pen. contestato al capo 2B) per avere la sentenza ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi del reato ascritto al condannato, alla stregua di motivazione mancante, contraddittoria ed illogica e di prove non correttamente ed adeguatamente valutate, determinando così una erronea applicazione della disciplina penale sostanziale in materia di reati ambientali.
In sintesi, lamenta la difesa che la Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE avrebbe omesso di valutare gli argomenti difensivi contenuti nell’atto di appello, tra i quali
vi rientrano quelli della specifica e materiale condotta del ricorrente in ordine ai reati contestati, alla stregua di una motivazione palesemente generica, carente e contraddittoria.
In primo luogo, la difesa contesta l’affermazione contenuta a pag. 23 della sentenza impugnata, ritenendola manifestamente contraddittoria ed illogica nella parte in cui si afferma che, da un lato, il ricorrente consentiva a far assumere a COGNOME la ges tione incontrastata della società, ma, dall’altro lato, ne rimaneva formalmente amministratore e unico socio illimitatamente responsabile.
In secondo luogo, la difesa contesta l’affermazione, contenuta sempre a pag. 23 della medesima sentenza, ritenendola generica e apodittica nella parte in cui si afferma che l’attività di realizzazione di discarica abusiva contestata ai capi 5 e 7 è autonom a e non può ritenersi assorbita nella fattispecie di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen. (capo 2) giudicando i fatti espressivi di un medesimo disegno criminoso -attesa la mancata indicazione degli elementi probatori su cui si fonda tale asserzione.
Inoltre, lamenta la difesa che il giudice di secondo grado abbia utilizzato formule generiche ed apodittiche con riferimento alla responsabilità penale dell’odierno ricorrente. In particolare, la sentenza di secondo grado non fa altro che richiamare quanto affermato nella sentenza di primo grado, senza mai specificare la posizione del ricorrente, né menzionare il nome del NOME COGNOME, limitandosi a richiamare la società RAGIONE_SOCIALE
Sul punto, secondo la difesa, ritenere responsabile penalmente una società, quale soggetto giuridico impersonale, appare errato ed illegittimo giuridicamente, atteso il principio della responsabilità penale personale, qui disatteso. La Corte di appello non avrebbe dovuto contestare le condotte penalmente rilevanti in capo alle due società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE -essendo gestite da più soggetti- ma, invece, in capo agli eventuali esecutori materiali.
Analoga genericità argomentativa si rileva in merito al motivo di appello riguardante la contestata assenza di profitto poiché, secondo la difesa, la Corte di appello non avrebbe chiarito quale sia stato il profitto che il ricorrente avrebbe ricavato dalle proprie condotte, ritenendo, da una parte, che vi è stata violazione del principio di diritto secondo cui la responsabilità penale deve essere accertata al di là di ogni ragionevole dubbio e, dall’altro lato, una assoluta carenza, in capo al ricorrente, di due elementi essenziali della fattispecie incriminatrice, ossia il dolo ed il profitto. E sempre con riguardo al profitto, generica, per la difesa, è l’affermazione contenuta a pag. 45 della sentenza in cui si afferma che ‘ai fini della configurabilità del concorso nel delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen., non è necessario che il singolo
concorrente agisca al fine di conseguire un ingiusto profitto essendo sufficiente che abbia consapevolezza del profitto perseguito dai correi’.
È, inoltre, inappropriato il richiamo della colpa per assunzione poiché non vi è alcun elemento probatorio da cui si possa desumere la colpevolezza del ricorrente del profitto dei correi.
Analoga genericità è rilevabile in merito al motivo di appello riguardante la contestata partecipazione associativa del ricorrente ad una stabile organizzazione criminale. Sul punto, la Corte di appello si limita a riportare integralmente le argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado, senza esporre alcuna autonoma valutazione su circostanze fattuali evidenziate nell’atto di appello.
In aggiunta, la difesa sostiene l’omissione di valutazione in merito al motivo di appello inerente la non ascrivibilità della condotta al ricorrente, atteso che nel contratto di locazione vi era riportato che ‘nell’immobile e nel piazzale antistante lo stesso vi sono materiali accumulati di vario genere, nonché rifiuti, anche speciali, per i quali il conduttore si assume l’onere di provvedere tempestivamente alla rimozione e smaltimento, a propria cura e spese, a fronte della riduzione del canone di locazio ne per il primo anno di vigenza del presente contratto’. Si tratta di una circostanza che la difesa ritiene essere un elemento fondamentale per il ricorrente in relazione al reato contestato, poiché ne fa venir meno il presupposto. In particolare, la difesa rileva come i rifiuti fossero presenti in loco sin dall’origine, ovvero sin dal momento in cui la RAGIONE_SOCIALE ha sottoscritto il contratto. Il ricorrente avrebbe dovuto liberare l’area avviando allo smaltimento quanto ivi contenuto, sostenendo solo costi e senza poterne ricevere alcun profitto. Tale circostanza non è stata oggetto di valutazione da parte del giudice di secondo grado e, inoltre, l’omessa valutazione dell’elemento oggettivo dell’ingiusto profitto -quale componente essenziale del reato contestato -costituisce una grave violazione del diritto di difesa.
Inoltre, riportando uno stralcio di intercettazione, la difesa contesta l’omesso esame delle intercettazioni ambientali dalle quali si evince la convinzione degli interlocutori COGNOME e COGNOME di essere ‘nel giusto’ e di non comprendere le ragioni delle contestazioni amministrative mosse alla RAGIONE_SOCIALE, attesa la preesistenza dei rifiuti nel sito appena preso in locazione. Secondo la difesa, dalle intercettazioni emerge come le operazioni, che hanno interessato l’area locata a RAGIONE_SOCIALE, abbia no riguardato i soli rifiuti originariamente presenti, i quali, trasportati a RAGIONE_SOCIALE, sono ritornati imballati, ritenendo, pertanto, insussistente anche il requisito dell’abusività. Tali condotte risultano escluse dall’ambito applicativo del delitto di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen., essendo connotate da meri profili colposi, omettendo la Corte di appello di valutare tali doglianze espresse nell’atto di appello.
In definitiva, sulla base di prove non adeguatamente valutate -tra cui il fatto che il ricorrente non abbia alcun legame con gli associati, ma un semplice rapporto di fiducia con COGNOME -, i giudici di secondo grado hanno erroneamente confermato la sentenza impugnata, ritenendo configurabile la coesistenza del reato associativo con quello di gestione illecita di rifiuti.
3.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge ed il correlato vizio di motivazione in relazione agli artt. 110 cod. pen. e 256 commi 1, 3 e 4 del d. lgs. 152 del 2006, contestato al capo 7), per avere la sentenza ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi del reato ascritto, alla stregua di motivazione mancante, contraddittoria ed illogica e di prove non correttamente ed adeguatamente valutate, determinando così una erronea applicazione della disciplina penale sostanziale in materia di reati ambientali.
In sintesi, lamenta la difesa che, per quanto attiene al capo 7) in merito al sito di Como, INDIRIZZO, siano state ignorate le proprie argomentazioni relative alla impossibilità di attribuire al ricorrente l’asserita discarica abusiva. La difesa ha provato per tabulas che fin dall’origine, ovvero già quando la RAGIONE_SOCIALE prese in affitto l’area, su quest’ultima fossero presenti rifiuti.
Di ciò viene dato atto nel contratto di locazione, tuttavia tale circostanza non è stata presa in considerazione dal giudice di secondo grado. Si tratta di una discarica che era già presente prima che il ricorrente ne acquisisse la disponibilità per il tramite della RAGIONE_SOCIALE
Tale circostanza, secondo la difesa, porta all’esclusione di tale addebito allo stesso ricorrente o, in subordine, alla necessità che venga valutato l’elemento psicologico nella sua qualificazione di colpa, graduandone l’intensità.
Su tale punto, la motivazione della sentenza è apparente, illogica e del tutto avulsa dal materiale probatorio acquisito agli atti.
La Corte di appello ha ritenuto provati i fatti descritti nel capo di imputazione 7) sulla base dell’interpretazione fornita dal giudice di primo grado della piena consapevolezza del ricorrente di tutte le condotte compiute materialmente dal COGNOME, il quale aveva ampio potere gestorio ed ampia autonomia decisoria.
La Corte non ha, dunque, fornito alcuna espressa e logica motivazione in ordine alla penale responsabilità del ricorrente e, in particolare, alla sussistenza del dolo richiesto dalle fattispecie incriminatrici.
Lamenta la difesa che, con l’atto di appello, veniva evidenziato che la materiale gestione della società era in capo al solo COGNOME NOME il quale, coadiuvato dalla COGNOME, gestiva la società in piena autonomia gestoria e senza
alcun vincolo di subordinazione morale e materiale nei confronti del ricorrente, che si è trovato coinvolto nei fatti contestati a titolo meramente formale.
Sul punto, le argomentazioni della Corte di appello appaiono illogiche e contraddittorie e, in assenza di elementi di prova a supporto di un presunto pactum sceleris , sembrerebbero voler dimostrare la responsabilità del ricorrente solo ed esclusivamente sulla base del ruolo di amministratore di diritto della RAGIONE_SOCIALE, senza tenere conto del ruolo gestorio del COGNOME. Da qui la contraddittorietà nel ritenere, da un lato, quale unico gestore della RAGIONE_SOCIALE il COGNOME e, dall’altro lato, nel rit enere automaticamente consapevole delle attività gestorie del COGNOME il ricorrente, pur nella totale assenza di prova.
Lamenta la difesa che, non applicando correttamente la disciplina penale sostanziale in materia di reati ambientali e sulla base di prove non adeguatamente valutate, la Corte di appello, alla stregua di motivazione assolutamente mancante, contraddittoria e manifestamente illogica, abbia erroneamente confermato l’impugnata sentenza.
3.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 416, commi 1,2,3 e 5 cod. pen. , contestato al capo 16).
In sintesi, lamenta la difesa le numerose criticità della sentenza impugnata sia sotto il profilo della qualificazione giuridica del fatto sia sotto il profilo interpretativo, con particolare riferimento al materiale captativo versato agli atti.
Viene contestato al ricorrente il reato associativo in quanto, nella qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, avrebbe preso parte ad una associazione per delinquere finalizzata alla consumazione dei reati di violazione della normativa ambientale. Tuttavia, la genesi del sodalizio criminale non risulta in alcun modo argomentata dalla Corte di appello.
Difatti, dall’analisi delle cospicue intercettazioni, non si ravvisa alcuna unità di intenti fra i supposti sodali, bensì, al contrario, ad emergere è il proposito perseguito dal COGNOME teso a sfruttare il deposito di rifiuti della RAGIONE_SOCIALE, attraverso la creazione di un fittizio rapporto fiduciario con il ricorrente -soggetto inesperto e, in quel momento, altamente vulnerabile.
L’esame delle intercettazioni richiamate nella sentenza impugnata confligge verticalmente rispetto alla qualifica di partecipe del sodalizio criminale riconosciuta al ricorrente da parte della Corte territoriale, oltre che, in generale, rispetto al riconosciuto perfezionamento della fattispecie associativa. Dagli atti processuali, si ricava che la supposta associazione in contestazione vede al proprio vertice il solo COGNOME, il quale costituisce unico elemento di trait d’union tra la RAGIONE_SOCIALE e gli altri imputati.
Il COGNOME, facendo leva sulla propria esperienza nel settore dei rifiuti e carpendo la fiducia del ricorrente, anche attraverso rassicurazioni di natura economica, di fatto, piegava lo stesso ai propri esclusivi interessi, utilizzando il medesimo alla stregua di un mero mezzo, finalizzato al perseguimento del massimo profitto personale. Da ciò si può ricavare la assoluta estraneità del ricorrente rispetto alle dinamiche sodali del gruppo, da cui discende il venir meno di qualsivoglia struttura associativa, autonoma costituita da uomini e mezzi.
Inoltre, nell’atto di appello, la difesa ha ribadito che gli accordi tra il COGNOME ed il ricorrente hanno sempre avuto ad oggetto singole operazioni commerciali, lungi dal costituire lo spartito di un programma criminoso teso alla realizzazione di un numero indefinito di reati. Sul punto, sia la Corte territoriale sia il giudice di primo grado non hanno fornito alcun elemento di riscontro, idoneo a provare la sussistenza di un accordo criminale, ordinato allo svolgimento di un indefinito e duraturo programma delittuoso.
Peraltro, lamenta la difesa la violazione di legge con riferimento all’art. 416 cod. pen. poiché la sentenza impugnata non coglie nel segno laddove riconosce il perfezionamento della fattispecie associativa, in luogo della commissione di una pluralità di ipotesi di concorso di persone nel reato.
Secondo la difesa, nel caso di specie, non risulta ravvisabile la sussistenza di un sodalizio criminoso così come previsto ai sensi dell’art. 416 c.p. In particolare, la Corte territoriale, non solo errava nel ritenere configurato il sodalizio, ma anche nella parte in cui conferiva al ricorrente la qualifica di promotore dello stesso. La Corte riconosce il ricorrente quale partecipe solo sulla base del rapporto personale con il COGNOME e, quindi, per la proprietà transitiva, con tutti gli altri soggetti ritenuti associati. Ciò non è sufficiente per configurare in capo al ricorrente un vincolo associativo di cui all’art. 416 cod. pen., atteso che il mero apporto collaborativo ad un singolo associato non è sufficiente a ritenere configurabile la partecipazio ne all’associazione criminale. Tali considerazioni appaiono parziali ed apodittiche, laddove dagli atti emerge la assoluta inadeguatezza del ricorrente alla gestione di una società di rifiuti. Inoltre, la difesa sostiene che tali elementi non sono sufficienti per conferire il ruolo di partecipe dell’associazione al ricorrente, così come devono essere considerati inidonei al perfezionamento della fattispecie associativa, anche alla luce del bilanciamento con i numerosi elementi di segno opposto, tra cui la sussistenza di un vincolo associativo che confligge con quanto emerso dalle intercettazioni.
Ricorso NOME COGNOME, difesa dall’AVV_NOTAIO, con cui si articolano tre motivi.
4.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione della legge penale, sotto il profilo sostanziale e processuale, in relazione al combinato disposto degli artt. 110 e 416, 484 cod. pen., 192 e ss. e 530 cod. proc. pen. nonché il correlato vizio di palese illogicità motivazionale sul punto della sentenza risultante per tabulas .
In sintesi, lamenta la difesa che l’appellata pronunzia di condanna è stata emessa sulla scorta di una sorta di suggestione inquisitoria, per effetto della quale la figura della ricorrente avrebbe, in totale difformità dalle concrete risultanze istruttorie, assunto lo specifico ruolo di soggetto professionale che sarebbe andato a ricoprire l’indispensabile tassello di tecnica ambientale deputata a fornire in forma sistematica e preventiva al sodalizio criminoso il suo apporto consulenziale ai fini della commissione dei delitti ambientali per cui si procede e dei reati satellite.
La Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE non è riuscita a fornire una prova idonea ad attestare la sussistenza in capo alla ricorrente della consapevolezza e volontà di partecipare alle attività illecite del sodalizio criminoso mediante lo svolgimento di condotte di consulenza professionale e di supporto tecnico-amministrativo a favore del medesimo. Inoltre, la stessa Corte non solo si è limitata a richiamare per relationem sul punto le affermazioni del Tribunale Collegiale di Como, ma ha anche contestato in modo generico la pertinenza e rilevanza giuridica delle osservazioni critiche che, sulla questione, erano state sollevate con l’atto di gravame. In particolare, si fa riferimento alla palese impossibilità di fondare la pronuncia di condanna sugli indispensabili dati logici concernenti la sussistenza degli elementi costitutivi (oggettivo e soggettivo) del delitto de quo , alla luce dei plurimi dati logico-giuridici di segno opposto dedotti dalla difesa, tra cui la rilevanza della delibazione -totalmente pretermessa -delle dichiarazioni che hanno escluso la responsabilità penale della ricorrente, rese nel corso del giudizio di primo grado da un collaboratore di giustizia ed altri testi.
Analoghe considerazioni critiche valgono per la mancata valutazione non solo delle doglianze difensive aventi ad oggetto l’insussistenza di un adeguato supporto probatorio in merito alla possibilità di affermare la penale responsabilità della ricorrente in riferimento all’altra imputazione a lei ascritta (delitto di cui agli artt. 110 e 484 cod. pen., di cui al capo 3), ma anche delle censure logicogiuridiche relative all’assoluta arbitrarietà dell’iter pseudo -argomentativo che ha condotto alla pronuncia di condanna della stessa al risarcimento dei danni a favore di tutte le parti civili costituite -non avendo la ricorrente avuto rapporti con i Comuni di Varedo, Cinisello Balsamo e Gizzeria.
4.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge relativamente al trattamento sanzionatorio inflitto alla ricorrente, in riferimento al
combinato disposto degli artt. 133 e ss., 62-bis e 416 cod. pen., nonché alle indifferenziate statuizioni che, a dispetto della dichiarata diversa gravità della responsabilità penale dei vari coimputati, sono state emesse a favore delle parti civili costituite, nonché il correlato vizio di palese illogicità e contraddittorietà motivazionale sul punto della sentenza impugnata risultante per tabulas .
In sintesi, lamenta la difesa sia il vizio di inosservanza e violazione di legge in merito al trattamento sanzionatorio, in rapporto al disposto degli artt. 133 e ss., 62 bis, 81 e 416 cod. pen. sia in relazione alla condanna risarcitoria a favore delle parti civili costituite, pur a fronte di una responsabilità penale diversificata dei vari coimputati.
In particolare, con riguardo alle censure relative alla quantificazione della pena, contesta la difesa la illogicità della statuizione con cui la Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE, pur riconoscendo il ruolo di mero partecipe della ricorrente nel denegato sodalizio criminoso ed ammettendo il carattere temporalmente limitato dell’apporto illecito fornito dalla stessa, ha rigettato l’istanza difensiva gradata diretta ad ottenere che la quantificazione della pena base inerente al reato di cui all’art. 416 cod. pen. si assestasse sul minimo edittale previsto ex lege , cioè anni 1 di reclusione.
In secondo luogo, pur avendo riconosciuto la natura oggettivamente diversificata, sotto il profilo della gravità, delle condotte illecite poste in essere dai tre coimputati e pur avendo affermato il carattere non essenziale del ruolo illecito ricoperto dalla ricorrente, la sentenza ha rigettato la richiesta difensiva gradata volta ad ottenere che, in caso di denegata condanna della odierna ricorrente, le statuizioni risarcitorie nei confronti della stessa fossero differenziate per quanto concerneva la sua specifica posizione personale non apicale, in riferimento alle statuizioni civilistiche da adottarsi a favore delle parti civili costituite.
4.3. Deduce, con il terzo ed ultimo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione al divieto di reformatio in peius , giusta il combinato disposto degli artt. 597 cod. proc. pen., 163 e 175 cod. pen., derivante dal fatto che la sentenza impugnata, pur avendo ridotto la pena che era stata inflitta in primo grado alla ricorrente, in assenza di appello del pubblico RAGIONE_SOCIALE, ha inspiegabilmente revocato i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna, che erano stati accordati con la sentenza di primo grado, nonché il correlato vizio di illogicità motivazionale sul punto della sentenza impugnata, determinata dal fatto che la predetta revoca è stata disposta sulla scorta dell’esistenza di una pregressa condanna della ricorrente inerente ad un reato contravvenzionale, che era già nota al momento della pronuncia di condanna di primo grado.
In sintesi, lamenta la difesa il duplice vizio di illogicità motivazionale e di violazione di legge penale sostanziale, in rapporto al disposto degli artt. 597 cod. proc. pen., 163 e ss. e 175 cod. pen., derivante dal fatto che la Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE, pur avendo ridotto la pena che era stata inflitta in primo grado, ha, in assenza di appello del P.M., revocato abusivamente i cosiddetti doppi benefici -sospensione condizionale della pena e non menzione della condanna -che erano stati accordati dal giudice di primo grado. Tale vizio motivazionale trae origine anche dall’ulteriore fatto che la revoca dei doppi benefici è stata fondata sull’esistenza di una precedente sentenza irrevocabile (sent. n. 2709/17 R.G., emessa dal Tribunale monocratico di Ravenna del 27/09/2017, divenuta irrevocabile in data 10/07/2020), che non solo concerneva un reato contravvenzionale ma risaliva ad un periodo così risalente (2017), da essere già presa in considerazione dal giudice di primo grado, al fine di giustificare i doppi benefici: tale duplice profilo logico-giuridico avrebbe dovuto escludere l’incomprensibile statuizione di revoca dei doppi benefici.
5. Ricorso NOME COGNOME, difesa dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO, con cui si articola quale unico motivo, il vizio di violazione di legge ed il correlato vizio di motivazione, in relazione all’art. 416, commi 1, 2, 3 e 5 cod. pen., contestato al capo 16), ed in relazione all’art. 192 cod. proc. pen . per avere la sentenza ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi del reato ascritto, alla stregua di motivazione mancante, contraddittoria ed illogica e di prove non correttamente ed adeguatamente valutate, determinando così una erronea applicazione della disciplina penale sostanziale in materia di reati ambientali.
In sintesi, la difesa si duole dell’omessa valutazione degli argomenti difensivi contenuti nell’atto di appello, tra cui vi rientrano quelli della specifica e materiale condotta della ricorrente in ordine ai reati contestati.
Lamenta la difesa che, ai fini della valutazione circa l’appartenenza ad una associazione a delinquere, il dolo specifico deve investire sia il fatto tipico sia il contributo causale offerto all’associazione ed alla realizzazione del programma criminoso del sodalizio, sostenendo che il percorso argomentativo del Collegio si sia limitato a ravvisare la sussistenza del dolo eventuale, quale accettazione del rischio, senza accertare l’effettiva consapevolezza dell’esistenza stessa dell’associazione ed intenzio ne a parteciparvi.
Nelle argomentazioni delle sentenze di primo e secondo grado è stata omessa l’indagine sui contenuti dell’accordo nonché la verifica della rilevanza causale del contributo della ricorrente al sodalizio, restando ignota la natura degli impegni che la ricorrente si sarebbe assunta.
Inoltre, nessun valore probatorio è stato dato alla circostanza che la COGNOME sia rimasta coinvolta nei fatti di cui al presente procedimento in ragione del rapporto sentimentale che all’epoca aveva con COGNOME NOME; così come nessun valore probatorio è stato attribuito all’episodio della ‘staffetta’ del carico dei rifiuti del 21/06/2018, posto a sostegno della responsabilità dell’imputata, che è da considerarsi insufficiente ai fini della responsabilità per il reato ex art. 416 cod. pen., sostenendo la difesa che si trattava di un singolo episodio in cui la COGNOME aveva accompagnato il proprio compagno non già alla discarica abusiva, bensì solo nei pressi della stessa.
La difesa contesta la sentenza che sia in primo sia in secondo grado considera sussistenti, oltre ogni ragionevole dubbio, elementi che attestano la partecipazione dell’imputata all’associazione e la condivisione del programma criminoso. Invero, nel giudizio di merito, non è emersa la permanente messa a disposizione dell’imputata al sodalizio, né l’accettazione dell’associazione a delinquere, ma sottolinea -la difesa -che la condotta partecipativa di cui all’art. 416 c.p. non si sostanzia nell’acquisizion e di uno status , ma dovendo essere verificata l’effettiva assunzione di un ruolo dinamico e funzionale all’interno del sodalizio.
Per la difesa, la sentenza di appello è del tutto generica ed apodittica, attesa la mancata indicazione degli elementi probatori su cui si fondano le asserzioni di penale responsabilità.
Analoga genericità argomentativa va rilevata in ordine al motivo di appello inerente alla contestata assenza del requisito dell’indeterminatezza del programma criminoso. Tale lacuna argomentativa viola il principio di diritto secondo cui la responsabilità penale deve essere accertata al di là di ogni ragionevole dubbio. La sentenza non spiega quale possa essere il collegamento funzionale tra gli elementi di prova, così come individuati, ed il tema di prova, ossia la partecipazione ad un’associazione a delin quere. A tal proposito, la difesa richiama l’art. 187 cod. proc. pen., norma che regola la fase di acquisizione della prova, in cui si stabilisce che deve essere rispettato il collegamento funzionale tra prova e tema di prova. Tale norma costituisce una guida nella fase di valutazione della prova acquisita. Il valore probator io dell’elemento acquisito deve essere valutato nell’oggettiva utilità/idoneità del risultato probatorio in rapporto funzionale con il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giud izio, nell’ambito dell’intero perimetro disegnato per l’oggetto della prova dalla disposizione ex art. 187 cod. proc. pen.
In altri termini, ciò che viene individuato come parametro di ammissibilità e della pertinenza al thema probandum , ai sensi degli artt. 187 e 190 cod. proc.
pen., costituisce metro di misura anche nella fase di valutazione probatoria, visto che la pertinenza è limite coessenziale alla prova stessa.
Con la sentenza Mannino, seppur il tema riguardava la diversa ipotesi del concorso esterno, si è data costruzione ad un unico statuto della causalità, valevole sia per il reato plurisoggettivo sia per quello monosoggettivo, accogliendo così una nozione tesa alla sua ricostruzione secondo la regola probatoria della elevata probabilità logica, con conseguente non accettazione delle teorie fondate sull’aumento del rischio, accusate di determinare una abnorme espansione della responsabilità penale. Si tratta di una rilevante novità, rispondente all’esigenza di riconduzione al principio di legalità formale della partecipazione nel reato associativo.
La novità più rilevante risiede, attraverso il riferimento alla sentenza Franzese, nella ricostruzione del rapporto di causalità sulla base della teoria condizionalistica o della equivalenza delle cause: ‘è causa penalmente rilevante la condotta umana, attiva o omissiva, che si pone come condizione necessaria nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza del quale l’evento stesso, da cui dipende l’esistenza del reato, non si sarebbe verificato’.
Il partecipe è colui il quale è animato dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell’accordo e del programma delittuoso in modo stabile e permanente. Sotto il profilo oggettivo, è necessario dimostrare che l’agente sia inser ito nella struttura criminale; sotto il profilo soggettivo, il dolo consiste nella coscienza e volontà di partecipare attivamente alla realizzazione dell’accordo e quindi del programma delittuoso in modo stabile.
In genere, si afferma che il partecipare da intraneo al fenomeno associativo presuppone un ruolo dinamico e funzionale in esplicazione del quale l’interessato fornisca uno stabile contributo rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. La suddetta condotta può assumere forme e contributi diversi e variabili proprio perché, per raggiungere i fini dell’associazione, occorrono diverse competenze e diverse mansioni, ognuna delle quali contribuisce al raggiungimento del fine comune. Ma, per la configurabilità del reato associativo, è necessaria un’adesione all’associazione con l’impegno di messa a disposizione attraverso l’esplicazione, perdurante nel tempo, di uno specifico ruolo, dinamico e funzionale, da cui derivi un costante, effettivo e concreto contributo, finalisticamente destinato alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione. Quindi, un soggetto può essere ritenuto parte a pieno titolo dell’associazione quando rivesta, nell’ambito della medesima, una precisa e ben definita collocazione, uno specifico e duraturo ruolo -per lo più connesso e strumentale alle funzioni ufficialmente svolte -finalizzato al
soddisfacimento delle esigenze dell’associazione. Solo quando l’attività svolta presenti i caratteri della specificità e continuità e sia funzionale agli interessi e alle esigenze dell’associazione alla quale fornisce un efficiente contributo causale, può parlarsi di partecipazione ad associazione a delinquere. Finanche nei casi in cui un soggetto presti il proprio contributo alla consumazione di un delitto fine, al fine di accertare se l’autore di taluno dei delitti inquadrabili nel programma criminoso sia anche legato al vincolo associativo criminale, è necessario verificare l’ affectio societatis , ossia la consapevolezza, desumibile anche dai fatti concludenti, di aver assunto siffatto vincolo, che deve permanere nel tempo, al di là degli accordi particolari relativi alla realizzazione dei singoli episodi criminosi, in modo da costituire, nella su a funzione propulsiva della criminalità, un attentato all’ordine pubblico.
Inoltre, la permanenza o stabilità del vincolo associativo non può essere presunta, ma necessita di prova certa. La necessarietà che il partecipe con la sua condotta presti un effettivo contributo causale destinato a fornire efficacia al mantenimento in vita della struttura o al perseguimento degli scopi di essa si desume dalla stessa tipologia della condotta di partecipazione.
Per la integrazione del reato in esame, la Suprema Corte ha affermato che occorre l’ affectio societatis scelerum , ossia la consapevolezza del soggetto di aver assunto un vincolo associativo che permane al di là degli accordi particolari relativi alla realizzazione dei singoli episodi criminosi.
Nel caso in esame, in palese violazione di quanto prevede l’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., si perviene ad una conclusione di responsabilità penale per il delitto, pur in mancanza di qualsiasi elemento da cui ricavare che l’imputata si fosse determinata a commettere un illecito con il dolo specifico di condividere il programma criminoso di un’ass ociazione a delinquere di cui farebbe parte.
Sotto il profilo della violazione di legge, con riferimento all’art. 416 cod. pen., tale norma è posta a presidio dell’ordine pubblico, messo in pericolo dall’esistenza stessa di un sodalizio criminoso. Tuttavia, nonostante tale norma appartenga all’alveo dei reati di pericolo, deve ritenersi necessario un adeguato accertamento sulla concreta idoneità del sodalizio a commettere reati. Gli elementi strutturali che compongono il perimetro tipico della norma in argomento sono costituiti dal vincolo associativo, struttura organizzativa ed indeterminatezza del programma criminoso. Tali elementi devono necessariamente coesistere al fine del perfezionamento della fattispecie associativa. Con riferimento al vincolo associativo, si rileva come esso debba intendersi quale stabile, duraturo e non circoscritto alla commissione di uno o più reati predeterminati; per quanto concerne la struttura organizzativa, questa deve essere intesa quale predisposizione di mezzi e uomini, idonei a dar seguito al programma
delinquenziale; quanto al programma criminoso, esso è costituito dalla prefigurazione di una serie indeterminata di delitti. La coesistenza di tali elementi distingue il reato associativo dal più generale istituto del concorso di persone nel reato. Alla luce di tali principi, nel caso di specie, appare evidente come non sia possibile ravvisare la sussistenza di un sodalizio criminoso così come previsto dall’art. 416 cod. pen.
6. In data 5 settembre 2025, il AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO presso questa Corte ha fatto pervenire la propria requisitoria scritta, con cui ha chiesto dichiararsi inammissibili tutti i motivi di ricorso proposti, ad eccezione del terzo motivo proveniente dalla impugnante NOME COGNOME, annullando sul punto la sentenza impugnata e disponendo la sospensione condizionale della esecuzione della pena e la non menzione in favore della medesima imputata COGNOME.
Innanzitutto, rileva il PG come tutti gli argomenti oggetto dei tre ricorsi proposti sono stati ampiamente sviscerati e motivati dalla pronuncia di appello. Ben lungi dal richiamare soltanto la sentenza di primo grado quella di seconde cure ha, assai approfonditamente, analizzato specificatamente ogni singola questione posta. Sono pertanto, al contrario, i motivi di ricorso proposti (ad eccezione di quello oggetto di accoglimento) a non essersi fatti carico delle esaustive motivazioni del giudice di appello, per giunta da leggersi congiuntamente a quelle del primo giudice. Ad esempio, alle pagg. 41 e segg. della sentenza di appello, si è ampiamente riferito delle condotte sub 2-B e 2-C commesse dal NOME. In particolare, si è dato conto del fatto che l’abusiva gestione non risultava aff atto preclusa per il fatto che i rifiuti preesistessero, posto che l’art. 452quaterdecies cod. pen. punisce anche l’allestimento di una organizzazione per il trasporto dei medesimi e non solo l’allestimento di un sito abusivo di stoccaggio (vedasi pag. 43). Ed anche ampia motivazione vi è in punto reiterazione della condotta (pag. 43). Viene poi affrontato, con riferimento al NOME, il requisito del dolo specifico, ove si riferisce come egli abbia effettivamente acconsentito ad uno spostamento mediante trasporto illecito dei rifiuti in altri due siti. E viene altresì nel dettaglio affrontato anche quello dell’ingiusto profitto, non necessariamente coincidente con il diretto incremento patrimoniale (pag. 45). Né può ritenersi irrilevante la consapevolezza, in capo al COGNOME, del profitto perseguito dai correi, fine di profitto anch’esso noto al ricorrente (pag. 46). Anche circa la colpa per assunzione la motivazione in grado di appello coglie nel segno: il COGNOME ha accettato di concorrere nella commis sione dell’illecito allorquando, come amministratore di società, ha accettato di sottoscrivere un contratto di affitto di immobile occupato assumendosi addirittura l’obbligazione di gestirne i rifiuti.
Ciò peraltro tenendo in debito conto di tutte le condotte in concreto tenute (pag. 48).
Ancora, ad esempio, la pronuncia di appello ha trattato delle condotte poste in essere dalla COGNOME con riferimento al capo 3 di imputazione. Senza richiamare qui il contenuto della pronuncia di primo grado, ed anche di quella di appello, va precisato c ome vi sia chiara evidenza in ordine al fatto che l’imputata predisponeva sistematicamente false scritture relative a registri di carico/scarico rifiuti e documenti di trasporto, tutti legati allo smistamento di rifiuti abusivi, cioè relativi a movimenti n on corrispondenti al reale, così tra l’altro ingannando gli enti preposti circa la veridicità di quanto descritto. Che altro si deve rendere provato per ritenere consumato il reato?
Neppure con riferimento al reato associativo, in questo caso relativamente a tutti e tre i ricorrenti, le conclusioni possono essere difformi. Circa il NOME la sentenza di appello supera agevolmente l’argomento relativo alla buona fede dell’imputato, r ilevando come ben difficilmente si sarebbe preso in affitto, senza alcuna evidenza di percorso illecito da compiere, un immobile aziendale colmo di rifiuti. Sia la sentenza di primo grado che quella di appello, invero, hanno offerto plurime evidenze circa l’unica ragione logica delle condotte tenute: l’offerta di uno spazio per lo stoccaggio del tutto illecito di rifiuti a imprenditori interessati a non fronteggiare i costi di mercato di un loro smaltimento regolare.
Circa, poi, la COGNOME, gli elementi descritti in motivazione di primo e secondo grado non sono di minore evidenza, di essi risultando dimentico il ricorso proposto. Non solo vi è infatti l’immediata attivazione della donna per ottenere l’apertura di cred ito bancario necessaria, anzi essenziale per l’esistenza dell’associazione, così come del tutto rilevante risulta la staffetta concernente il carico di rifiuti del 21 giugno 2018. Oltre ad essi, infatti, vi è anche una valutazione critica in ordine alla rilevanza di detti apporti, evidentemente evocativa di una partecipazione più a tutto tondo rispetto a quella concernente singoli episodi di illecito ambientale.
Circa poi l’effettivo e stabile vincolo associativo è sufficiente richiamare quanto riferito alla pag. 51 della motivazione d’appello. Circa, poi, il dolo generico, ben giustifica la medesima pronuncia l’esistenza del richiesto elemento soggettivo, esclusi gli elementi fuorvianti in ordine ad esso, anche tenuto conto di quelli che i ricorrenti minimizzano, quali ad esempio la circostanza che la COGNOME riteneva che il ‘lavoro’ richiestole necessitasse di un adeguato compenso. Così come irrilevante, ex multis , è anche che ogni tanto venisse proposta qualche attività di smaltimento rifiuti a condotta lecita.
Quanto al trattamento sanzionatorio e alle statuizioni civili adottate, con particolare riferimento al motivo di ricorso di COGNOME NOME, ancora una volta è
sufficiente richiamare l’impianto motivazionale congruo e logico proveniente dalla pronuncia di appello, che va letto sempre in uno con quella di primo grado.
Va invece accolto per il PG il motivo subordinato sempre dell’imputata COGNOME. Appare effettivamente illegittima, in assenza di impugnazione di parte pubblica, la revoca della sospensione e della non menzione concesse peraltro motivando, sempre senza in dicarne l’ostatività, circa l’esistenza di una seconda condanna a carico che peraltro, in quanto divenuta irrevocabile ben otto mesi prima della pronuncia di primo grado nel presente giudizio, poteva e doveva, ad una attenta valutazione, essere già conosci uta dal Tribunale di Como. ‘Il giudice di appello può revocare “ex officio” la sospensione condizionale della pena concessa, in violazione dell’art. 164, comma quarto, cod. pen., in presenza di cause ostative, a condizione che le stesse non fossero documentalmente note al giudice che ha concesso il beneficio, avendo egli l’onere di procedere a una doverosa verifica al riguardo’ (così Cass. Sez. 3, n. 42004 del 5 ottobre 2022, Rv. 283712). Peraltro, in questo caso, neppure sono descritte in alcun modo cause effettivamente ostative.
In data 5 agosto 2025, l’AVV_NOTAIO, difensore e procuratore speciale, come da nomina e procura speciale in atti del Comune di Como, già costituito parte civile, ha fatto pervenire memoria con conclusioni scritte e nota spese depositata telematicamente, chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi presentati perché manifestamente infondati o, comunque, il rigetto dei ricorsi perché non fondati e, per l’effetto, la conferma della sentenza impugnata, oltre al pagamento delle spese processuali.
In data 25 agosto 2025, il Comune di Dro (TN), in persona del Sindaco pro tempore , difeso dall’Avvocatura AVV_NOTAIO dello Stato , ha fatto pervenire memoria, chiedendo il rigetto dei ricorsi perché inammissibili ed infondati. Con successiva nota spese depositata telematicamente in data 11 settembre 2025, ha chiesto la liquidazione delle spese ed onorari.
In data 2 settembre 2025, l’AVV_NOTAIO, nella qualità di difensore del Comune di Cinisello Balsamo, costituito parte civile, ha fatto pervenire memoria con conclusioni scritte, chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi , depositando contestuale nota spese.
In data 16 settembre 2025, l’AVV_NOTAIO, nell’interesse del Comune di Varedo, parte civile costituita, ha fatto pervenire conclusioni scritte e
nota spese, chiedendo la conferma della sentenza impugnata, nonché la liquidazione delle spese.
In data 16 settembre 2025, l’AVV_NOTAIO, in qualità di procuratore costituito della parte civile, Comune di Gizzeria, ha depositato telematicamente conclusioni scritte e nota spese, chiedendo la conferma della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi – trattati cartolarmente in assenza di tempestive richiesta di discussione orale – sono tutti inammissibili, ad eccezione del terzo motivo di ricorso di NOME COGNOME, in relazione al quale deve essere disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza nella pare in cui ha revocato i doppi benefici di legge riconosciuti dal primo giudice.
Seguendo l’ordine suggerito dalla illustrazione dei singoli motivi, si procede anzitutto all’esame dei motivi di ricorso proposti dalla difesa del ricorrente COGNOME, tutti inammissibili.
2.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile perché generico per aspecificità e manifestamente infondato.
Generico perché non si confronta con le motivazioni dell’impugnata sentenza che, soffermandosi sulla posizione dell’attuale ricorrente e dopo aver richiamato in vari punti quanto argomentato nella sentenza di primo grado, tenta di trascinare questa Suprema Corte, sotto l’apparente deduzione di vizi di violazione di legge o motivazionali, sul terreno del fatto, chiedendo ai giudici di legittimità di procedere ad una rivalutazione degli elementi probatori acquisiti e sulla cui base è stato espresso il giudizio di responsabilità penale da parte dei giudici di secondo grado, operazione questa del tutto incompatibile con il giudizio di legittimità. Trova, dunque, applicazione il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui, in tema di inammissibilità del ricorso per cassazione, i motivi devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 2, n. 19951 del 15/05/2008, Rv. 240109).
La mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a
fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591, comma 1, lett. c), all’inammissibilità del ricorso (Sez. 4, n. 29/03/2000, n. 5191, B., Rv. 216473).
2.2. Tanto premesso, occorre soffermarsi sulla disamina della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen., al fine di evidenziare la sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato all’attuale ricorrente.
L’art. 452 -quaterdecies cod. pen. è stato inserito nel titolo VI-bis del Libro II del codice penale dall’art. 3, comma 1, lett. a), d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21 (Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103). La norma replica alla lettera il corrispondente art. 260, d. lgs. 152 del 2006, abrogato dall’art. 7, comma 1, lett. q), d. lgs. n. 21/2018, che, a sua volta, replicava l’art. 53 bis, d. lgs. n. 22 del 1997, aggiunto dall’art. 22, legge 23 marzo 2001, n. 93.
Lo scopo dell’incriminazione delle condotte in esso previste risponde all’esigenza di prevenire e reprimere il fenomeno delle c .d. ecomafie non necessariamente realizzato in forma associata. In particolare, si tratta di reato offensivo dell’ambiente, a consumazione anticipata e dolo specifico, che può ritenersi consumato indipendentemente dal conseguimento dell’ingiusto profitto, purché si compiano le condotte previste dalla norma incriminatrice (Sez. 3, n. 9133 del 13/01/2017, G., Rv. 269361). La condotta materiale consiste, alternativamente, nel cedere, ricevere, trasportare, esportare, importare o comunque gestire abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti. Tali condotte non sono sufficienti a integrare la fattispecie delittuosa: è altresì necessario che siano poste in essere: a) con più operazioni; b) attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative.
In assenza di tali requisiti la condotta del cedere, ricevere, trasportare, esportare, importare o comunque gestire abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti non integra il delitto in questione. Inoltre, è sufficiente che anche una sola delle fasi di gestione dei rifiuti avvenga in forma organizzata, in quanto, come detto, la norma incriminatrice indica in forma alternativa le varie condotte che, nell’ambito del ciclo di gestione, possono assumere rilievo penale.
Nella definizione di gestione, rientra qualsiasi forma di gestione dei rifiuti, anche l’attività di intermediazione e commercio, che sia svolta in violazione delle disposizioni in materia (Sez. 3, n. 28685 del 04/05/2006, B., Rv. 234931-01, secondo cui la condotta delittuosa non può ritenersi agganciata alla nozione di gestione di cui all’art. 183, lett. n, del d. lgs. n. 152 del 2006, né limitata ai casi in cui l’attività venga svolta al di fuori delle prescritte autorizzazioni).
Il requisito dell’allestimento di mezzi richiede la necessaria predisposizione di una, pur rudimentale, organizzazione professionale di mezzi e capitali, che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo. Non si richiede, tut tavia, l’esistenza di una struttura operante in modo esclusivamente illecito, ben potendo l’attività criminosa essere inserita in un contesto comprendente anche operazioni commerciali riguardanti i rifiuti svolte con modalità lecite.
In quanto necessariamente caratterizzato da una pluralità di condotte, alcune delle quali, se singolarmente considerate, potrebbero non costituire reato, il delitto di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen., ha natura di reato abituale proprio che si perfeziona soltanto attraverso la realizzazione di più comportamenti non occasionali della stessa specie e si consuma con la cessazione dell’attività organizzata finalizzata al traffico illecito. Ne consegue che: a) la prescrizione del reato comincia a decorrere solo dalla cessazione dell’attività organizzata; b) la competenza deve essere individuata nel luogo in cui le varie frazioni della condotta, per la loro reiterazione, hanno determinato il comportamento punibile.
Oggetto materiale delle condotte del cedere, ricevere, trasportare, esportare, importare, o comunque gestire abusivamente sono rifiuti in quantità ingenti.
Avuto riguardo alla natura abituale del reato, l’ingente quantità deve riferirsi necessariamente al quantitativo complessivo di rifiuti trattati attraverso la pluralità delle operazioni svolte, anche quando queste ultime, singolarmente considerate, possono essere qualificate di modesta entità.
Il requisito della ingente quantità, però, non può essere desunto automaticamente dalla stessa organizzazione e continuità dell’abusiva gestione di rifiuti. Sulla base di questi presupposti la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 260, d.lgs. n. 152 del 2006, per violazione dell’art. 25 Cost. sul presupposto dell’asserita indeterminatezza del concetto di ingente quantità di rifiuti, essendo al contrario senz’altro possibile definire l’ambito applicativo della disposizione tenuto conto che tale nozione, in un contesto che consideri anche le finalità della norma, va riferita al quantitativo di materiale complessivamente gestito attraverso una pluralità di operazioni, anche se queste ultime, considerate singolarmente, potrebbero essere di entità modesta.
Le condotte del cedere, ricevere, trasportare, esportare, importare o comunque gestire ingenti quantitativi di rifiuti sono qualificate dalla loro abusività. In termini generali, la condotta è abusiva non solo quando viene svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma
anche quando è posta in essere in violazione di leggi statali o regionali -ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale -ovvero di prescrizioni amministrative.
Con specifico riferimento al delitto di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen., il requisito della abusività deve essere interpretato in stretta connessione con gli altri elementi tipici della fattispecie, quali la reiterazione della condotta illecita e il dolo specifico d’ingiusto profitto. Ne consegue che la mancanza del le autorizzazioni non costituisce requisito essenziale per la configurazione del delitto che, da un lato, può sussistere anche quando la concreta gestione dei rifiuti risulti totalmente d ifforme dall’attività autorizzata (Sez. 5, n. 40330 del 11/10/2006, P., Rv. 23629401, secondo cui sussiste il carattere abusivo dell’attività organizzata di gestione dei rifiuti qualora essa si svolga continuativamente nell’inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni, il che si verifica non solo allorché tali autorizzazioni manchino del tutto, ma anche quando esse siano scadute o palesemente illegittime e comunque non commisurate al tipo di rifiuti ricevuti, aventi diversa natura rispetto a quelli autorizzati e accompagnati da bolle false quanto a codice attestante la natura del rifiuto, in modo da celarne le reali caratteristiche e farli apparire conformi ai provvedimenti autorizzatori dei siti di destinazione finale); dall’altro, può risultare in sussistente, quando la carenza dell’autorizzazione assuma rilievo puramente formale e non sia causalmente collegata agli altri elementi costitutivi del traffico.
In tema di spedizione di rifiuti, per esempio, si è affermato che, ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen., costituisce spedizione illegale di rifiuti quella effettuata mediante dichiarazione dei soli rifiuti per cui sussiste un obbligo generale di informazione ai sensi dell’art. 3, par. 2, del Regolamento CE n. 1013/2006, ma avente ad oggetto anche rifiuti diversi, per la cui spedizione sarebbe stato necessario il ricorso alla procedura di notifica ed autorizzazione preventiva ex art. 3, par. 1, dello stesso Regolamento.
Ai fini della integrazione del reato non sono necessari un danno ambientale né la minaccia grave di esso; il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti non è strutturato come reato d’evento. Né una diversa conclusione può trarsi dalla previsione del ripristino ambientale contenuta nel comma quarto del citato articolo che si riferisce alla sola eventualità in cui il pregiudizio o il pericolo si siano effettivamente verificati e, pertanto, non è idonea a mutare la natura della fattispecie da reato di pericolo presunto a reato di danno.
Il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti è di natura esclusivamente dolosa.
È perciò necessario, in primo luogo, che l’agente ponga in essere volontariamente una delle condotte tipiche (cessione, ricezione, trasporto,
esportazione, importazione, gestione) nella piena consapevolezza: a) della qualificazione dell’oggetto della condotta come rifiuti; b) della loro quantità ingente; c) della natura abusiva della condotta stessa. L’agente deve altresì porre in essere una qualsiasi delle condotte punite nella consapevolezza che siano frutto di più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate. Ove manchi la consapevolezza anche solo di uno di questi elementi della fattispecie, anche se per errore di fatto, l’agente può rispondere, ove ne ricorrano i presupposti, delle contravvenzioni di attività di gestione di rifiuti non autorizzata (art. 260, d. lgs. 152 del 2006) o di trasporto illecito di rifiuti (art. 259, d. lgs. n. 152 del 2006).
Ai fini della integrazione del delitto è altresì necessario il dolo specifico al fine di conseguire un ingiusto profitto. Il profitto costituisce la causa del delitto, il movente tipizzato della condotta che qualifica il fatto come reato o lo diversifica da altre fattispecie criminose.
In termini generali, il profitto è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato. Può consistere anche in qualsiasi utilità, incremento o vantaggio patrimoniale, anche a carattere non strettamente economico (Sez. U., n. 1 del 16/12/1998, C., Rv. 212080-01, nel senso che il profitto va inteso come qualunque vantaggio anche di natura non patrimoniale perseguito dall’autore). Il profitto del reato deve derivare in via diretta ed immediata dalla commi ssione dell’illecito; può essere di tipo accrescitivo, ma può consistere anche in un risparmio di spesa. Profitto del reato è anche il bene acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro sia causalmente collegabile al reato e sia soggettivamente attribuibile all’autore di quest’ultimo.
Applicando questi principi, la giurisprudenza ha affermato che il profitto del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti non deve necessariamente assumere natura di ricavo patrimoniale potendo consistere anche solo nella riduzione dei costi aziendali (Sez. 3, n. 45314 del 04/10/2023, S., Rv. 285335-02, secondo cui il profitto del delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., può essere costituito dal risparmio di spesa, ossia dal vantaggio economico ricavato, in via immediata e diretta, dal reato e consistente nel mancato esborso di quei costi doverosi, non sopportati in ragione dell’illecito, oggettivamente individuabili nella loro identità ed economicamente valutabili sulla base di criteri in grado di assicurarne la quantificazione, secondo un alto grado di probabilità logica; nello stesso senso, Sez. 4, n. 28158 del 02/07/2007, C., Rv. 236907-01; nel senso, invece, che la nozione di profitto del reato di cui all’art. 45 2 quaterdecies c.p. non può essere intesa come limitata al solo ‘utile netto’, ma dev’essere riferita a tutto ciò che
consegue a tale reato in via immediata e diretta, senza considerare gli eventuali costi sostenuti, la cui detrazione, violando la funzione ‘riequilibratrice’ dello ‘status quo’ economico antecedente alla perpetrazione dell’illecito, sottrarrebbe l’agente a l rischio economico da esso derivante, ma anche in vantaggi di altra natura, non necessariamente patrimoniale.
Il carattere ingiusto di profitto non deriva dal ‘ quomodo ‘ dell’esercizio (abusivo) dell’attività, bensì dal fatto che l’intera gestione continuativa e organizzata dei rifiuti costituisce strumento per conseguire vantaggi altrimenti non dovuti (sul punto Sez. 3, n. 45598 del 2005, secondo cui il requisito dell’i ngiusto profitto va meglio riconsiderato sotto il profilo che costituisce un ingiusto profitto, non solo quello esplicitamente contra legem , ma anche quello collegato a mediazioni o traffici illeciti, o ad operazioni volte a fraudolente manipolazioni dei codici tipologici). L’ingiustizia del profitto evoca, in questo caso, un concetto di relazione che gli deriva dal confronto con quello normalmente conseguito a seguito dell’esercizio lecito dell’attività, sì da rendere l’attività illecitamente svolta ingiustamente concorrenziale e/o maggiormente redditizia non solo per chi la propone, ma anche per chi ne usufruisce (il mercato). L’impresa che opera in costanza di autorizzazione scaduta, di cui però rispetti le singole prescrizioni, continuando a sopportarne i relativi costi, gestendo ingenti quantità di rifiuti e mantenendo inalterate le precedenti tariffe, non produce ingiusti profitti (Sez. 3, n. 35568 del 30/05/2017, S., Rv. 271138-01, il profitto è ingiusto qualora discenda da una condotta abusiva che, oltre ad essere anticoncorrenziale, può anche essere produttiva di conseguenze negative, in termini di pericolo o di danno per l’integrità dell’ambiente, impedendo il controllo da parte dei soggetti preposti sull’intera filiera dei rifiuti).
È stato, poi, precisato che, ai fini della configurabilità del concorso nel reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen., non è necessario che il singolo concorrente agisca al fine di conseguire un ingiusto profitto, essendo sufficiente che del profitto perseguito dai correi egli abbia consapevolezza (Sez. 3, n. 35108 del 15/05/2024, B., Rv. 286899-01).
2.3. Fatte tali premesse sulla fattispecie incriminatrice ex art. 452quaterdecies cod. pen., occorre ribadire che, al contrario di quanto sostenuto dalla difesa, dalla impugnata sentenza di secondo grado, risulta del tutto chiara, la posizione assunta dal ricorrente e la sua partecipazione all’interno dell’attività organizzata dedita al traffico illecito di rifiuti poiché, come si legge a pag. 13 dell’impugnata sentenza, l’attuale ricorrente si rendeva disponibile all’intestazione della società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE e, quindi, a fungere quale prestanome per conto del COGNOME NOME e, peraltro, nonostante fosse consapevole dell’illecita operatività della RAGIONE_SOCIALE, del tutto priva di autorizzazioni
amministrative, si impegnava a porre la società -in quanto legale rappresentante della stessa -, unitamente alla RAGIONE_SOCIALE, a disposizione del sodalizio per illeciti smaltimenti di rifiuti speciali non pericolosi, prevalentemente con codice europeo rifiuti 19.12.12 che, senza alcuna operazione di recupero, venivano avviati in siti abusivi.
In particolare, gestiva, con non meno di 24 viaggi, dal giorno 08/03/2018 al 28/03/2018, non meno di 590 tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi detenuti in un’area industriale sita in Como, trasferendoli tramite il trasportatore COGNOME a RAGIONE_SOCIALE, soggetto privo di autorizzazione per l’effettuazione del trattamento di ricondizionamento, in quanto non compresa nell’autorizzazione P.D. 23/A/ECO del 07/04/2011 rilasciata a RAGIONE_SOCIALE ed, in seguito, revocata dalla provincia di Como. In più, smaltiva illecitamente, con non meno di 10 viaggi, rifiuti speciali non pericolosi codice CER 19.12.12. per 220 ton. mc., presso il sito della RAGIONE_SOCIALE, in Dro, laddove quest’ultima era titolare di autorizzazione rilasciata dalla provincia di Trento n. 649 del 27/12/2017, che, tuttavia, non autorizzava il ritiro e conseguentemente l’ingresso e la gestione di rifiuti con il predetto codice.
Collegato allo svolgimento di tali operazioni di smaltimento illecito di rifiuti è il dolo specifico, il cui oggetto è definito dalla norma incriminatrice con la formula di ‘conseguire un ingiusto profitto’.
Secondo quanto affermato dalla Corte di appello (pag. 44), dalla stessa versione del ricorrente, si evince che, di fronte alla presenza abusiva dei rifiuti nell’immobile aziendale preso in locazione e di fronte alle richieste della Polizia Locale di bonifica, il ricorrente ha acconsentito ad uno spostamento mediante trasporto illecito di rifiuti in altri due siti, uno dei quali privo di autorizzazioni e l’altro dotato di un’autorizzazione incapiente rispetto alle qualità e quantità dei rifiuti ivi trasporta ti e gestiti. Se, da un lato, la difesa ritiene che l’operazione di spostamento non avrebbe apportato profitto, bensì avrebbe costituito un aggravio di costi, nella prospettiva che il ricorrente dovesse poi sostenere un’ulteriore spesa per il definitivo sm altimento dei rifiuti, dall’altro lato, in realtà, si tratta di un’impostazione che non tiene conto dei benefici effettivamente perseguiti dal ricorrente mediante le operazioni di trasporto realizzate. Da queste il ricorrente ha ricavato benefici consisten ti sia nel dilazionare l’effettiva intrapresa delle operazioni di bonifica dell’immobile aziendale, sia nel creare l’apparenza di una progressiva conformazione a legge dell’unico sito che era pubblicamente oggetto di attenzione da parte delle forze dell’or dine. Anche tali benefici, non immediatamente dotati di natura patrimoniale, integrano la nozione di ingiusto profitto che delinea il dolo specifico del delitto per cui si procede. Il profitto
perseguito dall’autore della condotta può consistere non necessariamente in un ricavo patrimoniale, ma anche nella semplice riduzione dei costi aziendali.
Come indicato anche dai giudici di secondo grado, integra profitto, nella sua accezione non patrimoniale, la dilazione di un incombente legalmente dovuto ma indesiderato. Senza nulla togliere al fatto che la dilazione della data in cui si sostiene un costo significativo, quale quello di una bonifica di un sito di stoccaggio di rifiuti, comporta anche un risparmio di spesa, quantomeno nell’unità di tempo, mediante la dilazione della data in cui tale costo sia destinato a essere comunque sopportato. Il perseguimento del profitto mediante trasporti abusivi di rifiuti determina la ricorrenza anche del requisito dell’ingiustizia del profitto: quest’ultimo era infatti perseguito come discendente ‘da una condotta abusiva che, oltre ad essere anticoncorrenziale, può anche essere produttiva di conseguenze negative, in termini di pericolo o di danno, per l’integrità dell’ambiente, impedendo il controllo da parte dei soggetti preposti sull’intera filiera dei rifiuti’ (Sez. 3, n. 16056 del 28/02/2019, Rv. 275399-01).
In aggiunta a ciò, con riferimento alla contestata sussistenza di elementi probatori in merito alla realizzazione della discarica abusiva da parte della difesa, risulta chiara la motivazione fornita dai giudici di secondo grado, i quali, richiamando la giurisprudenza di questa sezione, hanno affermato che, non soltanto l’immissione di nuovi rifiuti nell’immobile aziendale affittato dall’imputato, ma anche il permanere di uno stato di fatto criminoso integra il reato ambientale (Sez. 3, n. 39781 del 13/04/2016, Rv. 268236-01). Difatti, nel caso di specie, la movimentazione dei rifiuti difforme dalle autorizzazioni esistenti ha determinato un rilevante travalicamento della sfera di legittimità amministrativa dell’operato del gestore dei rifiuti. Da ciò ne deri va che l’abusività della gestione dei rifiuti non è in alcun modo esclusa dal fatto che i rifiuti preesistevano nell’immobile aziendale affittato dall’impresa amministrata dal ricorrente. Infatti, l’articolo 452 -quaterdecies cod. pen. punisce anche l’allestimento di un’organizzazione per il trasporto abusivo di rifiuti, non solo l’allestimento di un sito abusivo di stoccaggio di essi, che costituisce una species del genus della condotta di gestione.
Inoltre, risulta provata in capo al ricorrente anche la sussistenza dell’elemento soggettivo doloso, consistente nella consapevolezza dell’autore della condotta di aderire ad un’organizzazione criminale, richiesto per l’integrazione del reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, originariamente previsto dall’art. 53 bis, d. lgs. 22 del 1997, sostituito dall’art. 260 d. lgs. n. 152 del 2006, postosi in co ntinuità normativa con l’attuale art. 452 -quaterdecies cod. pen.
Con riguardo a tale elemento, come si legge a pag. 46 della impugnata sentenza, occorre valutare i tre elementi invocati dalla difesa -la preesistenza dei rifiuti nell’immobile aziendale affittato, le richieste di intervento formulate dalla
Polizia Locale a seguito di segnalazioni di odori provenienti dal sito, l’impossibilità economico finanziaria della condotta alternativa lecita, consistente nell’immediata bonifica dell’immobile aziendale affittato alla luce delle massime d’esperienza, a loro volta conformate dalla consolidata categoria della colpa per assunzione.
Versa nella c.d. colpa per assunzione colui che, non essendo del tutto all’altezza del compito assunto, esegua un’opera senza farsi carico di munirsi di tutti i dati tecnici necessari per dominarla, nel caso che quell’opera diventi fonte di danno anche a causa della mancata acquisizione di quei dati o conoscenze specialistiche. L’agire come membro di un determinato gruppo, o come portatore di un determinato ruolo sociale, comporta, infatti, l’assunzione di responsabilità di saper riconoscere ed affrontare le situazioni ed i problemi inerenti a quel ruolo, secondo lo standard di diligenza, di capacità, di conoscenze richieste per il corretto svolgimento di quel ruolo stesso. Il dovere obiettivo di diligenza che contrassegna il delitto colposo può avere a contenuto anche un obbligo di preventiva informazione, di ricorrere, cioè, alle altrui speciali competenze. Lo stesso dovere obiettivo di diligenza può spingersi, in presenza di adempimenti non delegabili o qualità insuscettibili di essere conseguite mediante avvalimento, a dare luogo in concreto a un dovere di rifiutare i compiti che non si ritiene in grado di compiere, poiché in caso contrario il soggetto che ha assunto la posizione giuridica sfavorevole, foriera cioè di obblighi o doveri, se ne assume la responsabilità a titolo di cosiddetta colpa per assunzione (Sez. 4, n. 6215 del 10/12/2009, Rv. 246419).
Non risponde a titolo di colpa per assunzione chi ‘si assume, in condizioni di urgenza indifferibile, un compito riservato a soggetto qualificato, atteso che in tal caso l’agente non era tenuto a prevedere le possibili conseguenze della sua condotta’ (Sez. 4, n. 13942 del 31/01/2008, Rv. 239256-01).
Tale complesso di regole inerenti al diverso paradigma della colpa si riflette sul diverso piano delle massime d’esperienza qui pertinenti alla valutazione del dolo. Il paradigma della colpa per assunzione, traspostosi seppur in termini meno esigenti nel comune agire sociale e in specie imprenditoriale, insegna la massima d’esperienza che un soggetto economico che conclude un contratto che lo pone in una visibile posizione d’impossibilità economico finanziaria ad adempiere ad un obbligo o dovere di legge, lo fa accettando che il rischio di non adempiere a tale obbligo o dovere si concretizzi in evento.
Nel caso di specie, il ricorrente ha affittato l’immobile aziendale comasco nella propria veste di amministratore di società; proprio in ragione della pacifica preesistenza dei rifiuti in tale immobile era pienamente consapevole dello stato di fatto al quale la normativa vigente ricollega, e già allora ricollegava, proprio quegli obblighi di bonifica, dei quali l’autorità locale di polizia gli ha sollecitato l’adempimento. Notoria è anche l’alta incidenza economica dei costi di una bonifica
di rifiuti, che ne presuppone la caratterizzazione e lo smaltimento differenziato e procedimentalizzato. Al tempo stesso, a fronte di tali, notori, ingenti costi, in quanto amministratore della società, il ricorrente era nella condizione più favorevole per avere informazioni approfondite e aggiornate sullo stato di salute del bilancio sociale e della sua cassa. Risulta, quindi, provato, anche per massime d’esperienza e fatti notori, che il ricorrente ha accettato l’evento, vale a dire la pluralità delle operazioni di trasporto abusivo di rifiuti, nel momento in cui nelle condizioni economiche aziendali date ha accettato di sottoscrivere, quale amministratore di società, un contratto di affitto di un immobile già occupato da rifiuti stoccati ed ha assunto l’o bbligazione contrattuale di gestirli.
In termini più sintetici, l’impossibilità economico finanziaria della condotta alternativa lecita era già nota al ricorrente nel momento in cui egli ha assunto, in nome e per conto della società, la posizione di affittuario e le obbligazioni ad essa inerenti, ivi incluse quelle che appunto gli era noto non potessero essere adempiute lecitamente nelle condizioni date. Le illecite operazioni di trasporto, lungi dall’essere frutto di uno stato di necessità non altrimenti evitabile oppure di un factum principis risultante dagli inviti della polizia giudiziaria, non sono state altro che l’epilogo dello stato di fatto consapevolmente creato dal ricorrente mediante la sottoscrizione del contratto d’affitto dell’immobile aziendale.
2.4. Infine, con riguardo alla contestata coesistenza del reato associativo con quello di gestione illecita di rifiuti da parte della difesa, si può ribadire quanto affermato dai giudici di secondo grado, secondo cui non sussiste alcun ostacolo giuridico.
Secondo la giurisprudenza di questa stessa sezione, deve premettersi che la possibilità di concorso tra il delitto di cui all’art. 416 cod. pen. e quello contemplato dal d. lgs. 152/2006, art. 260 (attualmente 452quaterdecies cod. pen.), è stata più volte riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte.
In proposito, si rammenta che il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti è ascrivibile a ‘chiunque’, assumendo così la natura di reato comune. Quale elemento soggettivo si richiede il dolo specifico e si tratta di reato di pericolo presunto.
I requisiti della condotta sono stati così individuati, in primo luogo, nel compimento di più operazioni; nell’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate che con le operazioni predette devono essere strettamente correlate, posto che il legis latore utilizza la congiunzione ‘e’. Si è anche precisato che tale requisito può sussistere a fronte di una struttura organizzativa di tipo imprenditoriale, idonea ed adeguata a realizzare l’obiettivo criminoso preso di mira, anche quando la struttura non sia destinata, in via esclusiva, alla commissione di attività illecite, cosicché il reato può configurarsi anche quando
l’attività criminosa sia marginale o secondaria rispetto all’attività principale lecitamente svolta. Si tratta, peraltro, di reato abituale in quanto integrato necessariamente dalla realizzazione di più comportamenti della stessa specie e rispetto al quale l’apprezzamento circa la soglia minima di rilevanza penale della condotta deve essere effettuato non soltanto attraverso il riferimento al mero dato numerico, ma, ovviamente, anche considerando gli ulteriori rimandi, contenuti nella norma, a ‘più operazioni’ ed all’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate finalizzate alla abusiva gestione di ingenti quantità di rifiuti. Sul punto si è precisato altresì che, quale reato abituale, il delitto si perfeziona soltanto attraverso la realizzazione di più comportamenti non occasionali della stessa specie, finalizzati al conseguimento di un ingiusto profitto, con la necessaria predisposizione di una, pur rudimentale, organizzazione professionale di mezzi e capitali, che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo e in tale quadro consegue che esso si consuma nel luogo in cui avviene la reiterazione delle condotte illecite. Il reato riguarda l’espletamento di attività di cessione, ricezione, trasporto, esportazione, importazione, o comunque gestione abusiva di rifiuti le quali, già sanzionate penalmente nella Parte Quarta del d. lgs. 152/2006, vengono agevolate dalle azioni propedeutiche descritte in precedenza e deve avere ad oggetto un quantitativo ingente di rifiuti oltre che essere finalizzato al perseguimento di un ingiusto profitto, non necessariamente consistente in un ricavo patrimoniale, potendosi ritenere integrato anche dal mero risparmio di costi o dal perseguimento di vantaggi di altra natura senza che sia ne cessario, ai fini della configurazione del reato, l’effettivo conseguimento di tale vantaggio.
Il bene giuridico protetto va inoltre individuato nella tutela della pubblica incolumità.
COGNOME‘altra parte, con riguardo alla associazione per delinquere, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che elementi tipici del reato sono la sussistenza di un vincolo associativo tendenzialmente permanente o, comunque, stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati, l’indeterminatezza del programma criminoso, che distingue il reato associativo dall’accordo caratterizzante il concorso di persone nel reato e l’esistenza di una struttura or ganizzative, sia pur minima, ma idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira. Si è ulteriormente chiarito che la partecipazione all’associazione, distinguendosi da quella del concorrente nel reato di cui all’art. 110 c.p ., implica, a differenza di quest’ultima, l’esistenza di un pactum sceleris , con riferimento alla consorteria criminale e della affectio societatis , in relazione alla consapevolezza del soggetto di inserirsi in un’associazione vietata.
La sussistenza del delitto di associazione per delinquere è indipendente dalla concreta realizzazione dei reatifine, poiché l’art. 416 cod. pen. sanziona la mera associazione di tre o più persone allo scopo di commettere più delitti, senza subordinare la condanna all’effettiva commissione dei singoli reati -fine, la cui effettiva realizzazione non resta conseguentemente assorbita da quella concernente il reato associativo. Si tratta, peraltro, di reati, quali i due qui in esame, aventi oggettività giuridich e diverse, l’uno riguardando l’ordine pubblico e l’altro, come si è detto, la pubblica incolumità e la tutela dell’ambiente.
Tanto precisato, la tematica della possibilità di concorso tra le due suindicate fattispecie è stata da tempo risolta da questa Corte, che ne ha ammesso la possibilità ed ha precisato che, in proposito, è necessaria la sussistenza degli elementi costitutivi di entrambi, cosicché la sussistenza del reato associativo non può ricavarsi dalla mera sovrapposizione della condotta descritta nel d. lgs. 152/2006, art. 260 con quella richiesta per la configurabilità dell’associazione per delinquere, richiedendo tale ultimo reato la predisposizione di un’organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e mezzi, funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti, nella consapevolezza, da parte di singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili ad operare nel tempo per l’attuazione del programma criminoso comune, che non può certo essere individuata nel mero allestimento di mezzi e attività continuative organizzate e nel compimento di più operazioni finalizzate alla gestione abusiva di rifiuti indicate dal d. lgs. 152/2006, art. 260 ( rectius art 452-quaterdecies cod. pen.) richiedendosi, evidentemente, un’attività e stabile partecipazione ad un sodalizio criminale per la realizzazione di un indeterminato programma criminoso.
Laddove per il reato qui in parola, inerente la materia dei rifiuti, i profili caratterizzanti sono l’allestimento di mezzi e attività continuative e per il compimento di più operazioni finalizzate alla gestione abusiva di rifiuti, così da esporre a perico lo la pubblica incolumità e la tutela dell’ambiente ed, inoltre, giova evidenziarlo, esso non ha necessariamente natura plurisoggettiva atteso che per l’attività organizzata per il traffico illecito dei rifiuti, non è richiesta una pluralità di soggetti agenti, trattandosi di fattispecie monosoggettiva, mentre è richiesta una pluralità di operazioni in continuità temporale relative ad una o più delle diverse fasi in cui si concretizza ordinariamente la gestione dei rifiuti.
Da tutto ciò è seguita anche la puntualizzazione per cui è insussistente un rapporto di specialità tra il delitto di cui all’art. 416 c.p. e quello previsto dal d. lgs. 152/2006, art. 260, ovvero 452quaterdecies cod. pen. che possono concorrere (Sez. 3, n. 40555 del 18/07/2024, non massimata).
Poste tali premesse giuridiche, si può, pertanto, affermare che nessun concorso apparente di norme e nessun rapporto di assorbimento o consunzione può ravvisarsi tra le due fattispecie incriminatrici ravvisate a carico del ricorrente.
Il secondo motivo di ricorso COGNOME è manifestamente infondato e, pertanto, va dichiarato inammissibile.
3.1. In via preliminare, va chiarito che il sindacato demandato alla Corte di cassazione si limita a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri di questa Corte quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U., n. 6402 del 30/04/1997, D., Rv. 207944-01).
La Corte di appello ha correttamente dato atto -come si legge a pag. 40 dell’impugnata sentenza che il reato di discarica abusiva perdura anche nella fase post-operativa della discarica. In sostanza, il ricorrente ha acquisito tramite RAGIONE_SOCIALE la detenzione del fondo già precedentemente, per sua stessa ammissione, adibito a discarica abusiva e anziché procedere alla denuncia alle autorità, ponendosi a disposizione per la bonifica, ha conservato la detenzione del sito illegalmente gestito e ha continuato, seppure per gestire una situazione provvisoria, a svolgere attività illecite su rifiuti ivi giacenti, senza introdurre alcuna soluzione di continuità ed anzi perpetrando lo stato di fatto illecito.
In tal caso, come affermato da questa stessa Sezione, il concetto di gestione di una discarica abusiva deve essere inteso in senso ampio, includendo qualsiasi contributo, sia attivo che passivo, diretto a realizzare od anche semplicemente a tollerare e mantenere il grave stato del fatto-reato, strutturalmente permanente. Sicché più soggetti possono concorrere, a titolo di dolo o colpa, nella gestione di una discarica abusiva, quali i responsabili di imprese che smaltiscono rifiuti propri, i responsabili di imprese che smaltiscono rifiuti di terzi, i trasportatori, i proprietari dell’area interessati, nonché, i pubblici amministratori. Si è aggiunto che la gestione di una discarica abusiva può comportare il concorso di contributi attivi o passivi da parte di più soggetti, concorrenti tra loro oppure agenti in un quadro di cooperazione colposa, venendo tutti tali soggetti chiamati a rispondere per gli apporti dati alla realizzazione del reato (Sez. 3, n. 12159 del 15/12/2016, M., Rv. 270354-01).
Inoltre, come si legge a pag. 42 della impugnata sentenza, risultano accertate le condotte di trasporto abusivo di cui ai capi 5 e 7 poiché in tema di reati ambientali, sussiste concorso formale, e non rapporto di specialità, tra il delitto di attività org anizzata per il traffico illecito di rifiuti, previsto dall’art. 452 -quaterdecies cod. pen. e la contravvenzione di gestione di discarica non autorizzata, di cui all’art. 256, comma 3, d. lgs. 152 del 2006, nel caso in cui ricorrano, in concreto, sia gli e lementi sostanziali del primo, ossia l’allestimento di mezzi e di attività continuative organizzate, che l’elemento formale della seconda, quale la mancanza di autorizzazione’ (Sez. 3, n. 39076 del 03/12/2021, Rv. 28376501). E, nel caso in esame, l’attivi tà si è avvalsa di un sito del tutto abusivo in quanto privo di qualsivoglia titolo autorizzativo, quello di RAGIONE_SOCIALE, e di un sito, quello di RAGIONE_SOCIALE, le cui autorizzazioni sono state disattese con riferimento alla tipologia di rifiuto conferito.
Ad ogni modo, con riguardo alle contravvenzioni di cui ai capi 5 e 7, è stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, poiché sono stati commessi prima del 19/10/2021, non trovando così applicazione l’art. 161 -bis cod. pen., introdotto dall’art. 2, comma 1, lettera c), legge 34 del 2021, contestualmente all’abrogazione della causa di sospensione della prescrizione già prevista dall’art. 159, comma 2, cod. pen.
Anche il terzo ed ultimo motivo di ricorso COGNOME è manifestamente infondato oltre che generico e, pertanto, va dichiarato inammissibile.
4.1. In particolare, la difesa non si confronta con quanto argomentato dalla impugnata sentenza in cui risulta configurabile il reato di cui all’art. 416 cod. pen. nella parte in cui si afferma che sia stato accertato il ruolo partecipativo del ricorrente all’interno dell’associazione, consistito nell’essersi reso disponibile a fungere da formale intestatario di imprese e di aver tenuto condotte attive per rafforzare il sodalizio.
In sostanza, ripercorrendo la vicenda processuale, il ricorrente aveva conosciuto COGNOME nel 2017, quando questi lo aveva aiutato ad ottenere due automobili marca Audi e Volkswagen. Successivamente, venuto a sapere che COGNOME era stato arrestato e che sua moglie era rimasta con tre figli priva di autovetture, aveva prestato uno dei due veicoli ed era stato ampiamente ringraziato da COGNOME nel corso di una visita presso il carcere in cui era ristretto. Uscito questi dal carcere, il ricorrente nel gennaio 2018 aveva preso in affitto il magazzino di INDIRIZZO ed aveva assunto COGNOME grazie ad un permesso del Tribunale, mentre era sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari. Si erano, quindi, rivolti a COGNOME per ottenere le autorizzazioni prescritte dalla normativa ambientale. COGNOME aveva, inoltre, presentato al ricorrente il titolare
della RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME, e i tre si erano accordati per smaltire i rottami ferrosi che ingombravano il magazzino di RAGIONE_SOCIALE, che il ricorrente si era obbligato a rimuovere, presso RAGIONE_SOCIALE
Nel marzo 2018, RAGIONE_SOCIALE era stata sottoposta a sequestro in quanto eccessivamente carica di rifiuti, di conseguenza COGNOME si era attivato per acquisire una società autorizzata, RAGIONE_SOCIALE di Dro (TN). Infine, a causa delle difficoltà economiche, il ricorrente si risolveva a cedere la società a COGNOME, il quale da tempo la gestiva e aveva a disposizione la relativa carta di credito aziendale.
4.2. Alla luce di ciò, i giudici di secondo grado hanno correttamente affermato che dagli atti veniva in rilievo che il ricorrente avesse assunto il ruolo di prestanome per eccellenza di COGNOME. In altri termini, il ricorrente, formale intestatario di RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE era pienamente consapevole dell’assenza delle necessarie autorizzazioni ambientali in capo a RAGIONE_SOCIALE, che trasformava da impresa di trasporto di cereali in impresa operante nel settore dei rifiuti per conto di NOME e, in aggiunta, acconsentiva a far assumere a quest’ultimo la gestione incontrastata della società, utilizzando telefoni, posta elettronica e carta di credito di RAGIONE_SOCIALE, ma ne rimaneva formalmente amministratore e unico socio illimitatamente responsabile.
Pertanto, l’esplicita manifestazione di volontà associativa non è necessaria per la costituzione del sodalizio, potendo la consapevolezza dell’associato essere provata attraverso comportamenti significativi che si concretino in una attiva e stabile partecipazione, come avvenuto nel caso di specie.
In quest’ottica, anche gli elementi certi relativi alla partecipazione di determinati soggetti ai reati fine effettivamente realizzati possono essere influenti nel giudizio relativo all’esistenza del vincolo associativo e all’inserimento di costoro nell’or ganizzazione, specie quando siano dimostrativi del tipo di criminalità, della struttura e delle caratteristiche dei singoli reati, nonché delle modalità della loro esecuzione. Di conseguenza, la ripetuta commissione, in concorso con i partecipi al sodalizio criminoso, di reati-fine può integrare, per ciò stesso, gravi, precisi e concordanti indizi in ordine alla sussistenza di un programma delittuoso comune partecipazione al reato associativo (Sez. 2, n. 28868 del 02/07/2020, D., Rv. 279589-01).
Nel caso di specie, la Corte ha preso atto della consapevolezza da parte del ricorrente di far parte di un’organizzazione criminosa e ha evidenziato come l’attività svolta dal medesimo avesse una portata organizzativa generale e di predisposizione degli strumenti indispensabili per lo svolgimento successivo di una pluralità ipoteticamente infinita di condotte per effetto dell’accordo preesistente con i correi. Difatti, Il ricorrente si rendeva disponibile all’intestazione di COGNOME
RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE e, quindi, a fungere quale prestanome per conto di COGNOME. Consapevole dell’illecita operatività di RAGIONE_SOCIALE, del tutto priva di autorizzazioni amministrative, metteva la società, unitamente a RAGIONE_SOCIALE, a disposizione del sodalizio per illeciti smaltimenti.
4.3. Inoltre, il fatto che non avesse rapporti diretti con altri membri dell’associazione, come COGNOME e COGNOME, non esclude la sua responsabilità penale per il reato di cui all’art. 416 cod. pen., poiché, in tema di associazione per delinquere, ai fini della configurabilità della condotta di partecipazione, non è richiesta la prova della conoscenza reciproca di tutti gli associati, ma è sufficiente la consapevolezza e volontà di partecipare, assieme ad almeno altre due persone aventi la stessa consapevolezza e volontà, ad una società criminosa strutturata e finalizzata secondo lo schema legale (Sez. 5, n. 2910 del 04/12/2024, A., Rv. 287482-01) e, peraltro, avendo avuti contatti costanti con due sodali, rispettivamente COGNOME e COGNOME, non può esservi alcun dubbio sulla propria consapevolezza che il gruppo criminale non si esauriva nella propria persona e in quella di COGNOME, ma includeva anche una terza persona, risultando, di conseguenza, la sua consapevolezza della sussistenza del numero legale tipico del delitto ex art. 416 cod.pen.
Passando all’esame del ricorso COGNOME, sono inammissibili i primi due motivi, mentre, quanto al terzo, lo stesso è fondato per le ragioni di cui si dirà infra .
5.1. E’, anzitutto, manifestamente infondato il primo motivo di ricorso che, pertanto, va dichiarato inammissibile.
In primo luogo, va osservato che i giudici di secondo grado hanno compiutamente dimostrato la partecipazione della ricorrente all’associazione per delinquere dedita al traffico illecito di rifiuti, ponendo in essere -in qualità di consulente ambientale di COGNOME NOME -varie condotte, tra cui: predisporre sistematicamente false scritturazioni nei registri di carico e scarico rifiuti e nei documenti di trasporto della società RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE di NOME, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE ed RAGIONE_SOCIALE, in modo tale da rappresentare un percorso lecito dei rifiuti; far perdere la reale identificazione e tracciabilità del rifiuto; indicare CER fittizi, determinando, in tal modo, false annotazioni, sottoposte al controllo degli Enti e dell’Autorità Amministrativa.
Inoltre, la circostanza secondo cui la ricorrente abbia, talvolta, proposto soluzioni di gestione lecita dei rifiuti, non fa venir meno la sua qualità di sodale, poiché il parallelo svolgimento di attività illecite e lecite è connotato pienamente
compatibile con la partecipazione in un’associazione per delinquere (Sez. 2, n. 52005 del 24/11/2016, Rv. 268767-01).
Peraltro, l’esplicita manifestazione di volontà associativa non è necessaria per la costituzione del sodalizio, potendo la consapevolezza dell’associato essere provata attraverso comportamenti significativi che si concretino in una attiva e stabile partecipazione, come avvenuto nel caso di specie.
In quest’ottica, anche gli elementi certi relativi alla partecipazione di determinati soggetti ai reati fine effettivamente realizzati possono essere influenti nel giudizio relativo all’esistenza del vincolo associativo e all’inserimento di costoro nell’or ganizzazione, specie quando siano dimostrativi del tipo di criminalità, della struttura e delle caratteristiche dei singoli reati, nonché delle modalità della loro esecuzione. Di conseguenza, la ripetuta commissione, in concorso con i partecipi al sodalizio criminoso, di reati-fine può integrare, per ciò stesso, gravi, precisi e concordanti indizi in ordine alla sussistenza di un programma delittuoso comune partecipazione al reato associativo (Sez. 2, n. 28868 del 02/07/2020, D., Rv. 279589-01).
5.2. Per quanto concerne la contestata stabilità effettiva del vincolo associativo, per i giudici di secondo grado l’asserita discontinuità dei suoi rapporti professionali con COGNOME non trova conforto nell’istruttoria, poiché è emerso che la stessa era la c onsulente di fiducia dell’imprenditore.
Inoltre, irrilevante è che il vincolo associativo abbia avuto origine in un momento nel quale l’associazione già esisteva, operava ed aveva consumato alcuni reati fine. Infatti, ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere non è necessario che il vincolo associativo assuma carattere di assoluta stabilità, essendo sufficiente che esso non sia a priori e programmaticamente circoscritto alla consumazione di uno o più delitti predeterminati, in quanto l’elemento temporale insito nella nozione stessa di stabilità del vincolo associativo non va inteso come necessario protrarsi del legame criminale, occorrendo soltanto una partecipazione all’associazione pur se limitata ad un breve periodo (Sez. 2, n. 19917 del 15/01/2013, Rv. 255914-01).
Quanto all’elemento soggettivo del delitto ex art. 416, comma secondo, cod. pen., esso consiste non nel mero dolo eventuale, bensì nel dolo diretto, che postula la consapevolezza della finalità perseguita dal sodalizio con il quale si collabora in maniera stabile e attiva, atteso che è proprio la finalità di commettere un numero indeterminato di delitti l’elemento discriminante che rende illecita l’associazione, altrimenti organismo lecito, al quale si partecipa in esplicazione del diritto fondamentale, ric onosciuto dall’art. 18 Cost. (Sez. 3, n. 1465 del 10/11/2023, Rv. 285737-01).
Nel caso di specie, il dolo diretto consiste nel fatto che la ricorrente ha consapevolmente agito in maniera illecita falsificando CER o scritturazioni nei registri di carico e scarico rifiuti, agevolando in tal modo l’operato dell’associazione per delinquere. Inoltre, i giudici di secondo grado hanno correttamente ricavato dalle intercettazioni telefoniche la consapevolezza della ricorrente di partecipare all’associazione criminosa dichiarando la stessa di voler accettare un ruolo di direttore tecnico, ma solo a condizione di una ricompensa idonea a controbilanciare i correlati rischi penali.
5.3. COGNOMEa minuziosa descrizione contenuta nella stessa sentenza di primo grado, è possibile cogliere la stabile partecipazione della ricorrente e la consapevolezza dell’operare illecito dell’associazione.
In particolare, si legge a pag. 11 della sentenza di primo grado che dalle conversazioni telefoniche intrattenute tra la ricorrente e il consulente ambientale COGNOME NOME, emerge chiaramente che la prima fosse a conoscenza del ruolo apicale di fatto svolto da COGNOME all’interno della compagine aziendale della quale la stessa era l’unica consulente ambientale. Emerge, inoltre, una discussione riguardante i vari canali di smaltimento dei rifiuti in uscita dall’impianto di Como e, a tal proposito, NOME -che era alla ricerca di trasportatori disponibili per svuotare in tempi rapidi il sito di La Guzza -chiede alla ricorrente di attivarsi in sua vece, per estendere i contatti a varie ditte specializzate del Nord e Sud Italia.
Sempre dalle conversazioni traspare come la ricorrente – che fino a quel momento non era a conoscenza del progetto di COGNOME all’interno della RAGIONE_SOCIALE, consistente nel liberare l’impianto, gestendolo lui in prima persona al fine di poterlo utilizzare a suo piacimento una volta riportato nei quantitativi assentiti -coglie l’occasione per proporgli una soluzione al fine di far uscire dagli impianti calabresi i rifiuti che sono e che saranno ivi temporaneamente stoccati per mezzo di trasportatori più malleabili, mercè di un disegno criminoso che prevede i conferimenti di rifiuti -previa eventuale loro declassificazione (procedimento, anche chiamato ‘giro -bolla’, per cui i residui transitano da un sito ad un altro solo cartolarmente, senza trattamento alcuno, al precipuo scopo di eludere le prescrizioni autorizzative del sito di destinazione finale) -all’estero e specificamente presso il termovalorizzatore di Dusseldorf.
La ricorrente dimostra, pertanto, una notevole conoscenza del settore e soprattutto ha le capacità di creare nuovi legami e canali commerciali ed essendo consapevole della necessità di COGNOME di smaltire i rifiuti da prelevare dal sito in INDIRIZZO in ComoINDIRIZZOLa Guzza, gli prospetta un canale da lei gestito, ovvero una discarica estera quale soluzione per lo smaltimento dei rifiuti ad un prezzo conveniente.
Inoltre, il COGNOME le chiede anche di intercedere con la discarica croata al fine di ottenere un buon prezzo per i conferimenti, offrendole in cambio la possibilità di concludere numerosi contratti con diverse imprese da lui controllate o a lui riconducibili, come la RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE.
Alla luce degli elementi di fatto, è innegabile che la figura della ricorrente, connotata non solo da elevate competenze professionali in materia ambientale, bensì dotata di notevoli capacità di interesse a gestire rapporti commerciali con molteplici soggetti della filiera dei rifiuti, sia da considerare intranea al sodalizio criminoso, fornendo un indispensabile supporto tecnico sia per l’illecita attività svolta dal sodalizio stesso. Dal momento che il reato di cui all’art. 416 cod. pen. è a forma libera, anche la normale attività professionale (ad es. quella di commercialista), svolta con lo scopo di concorrere alla realizzazione di un’associazione per delinquere, nonostante la formale aderenza ai canoni della professione, configura una condotta rilevante ai fini della configurabilità del reato in questione, essendo sufficiente che il soggetto agente intenda aderire all’accordo associativo e che il suo comportamento sia, anche solo parzialmente, funzionale alla realizzazione del progetto criminoso perseguito dai consociati (Sez. 6, n. 13175 del 08/04/2020).
5.4. Con riguardo, poi, alla mancata valutazione probatoria inerente al reato ex art. 484 cod. pen., la difesa non si è adeguatamente confrontata con quanto argomentato dai giudici di secondo grado nella sentenza impugnata, i quali hanno affermato che, quanto agli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa, essi sono da rinvenire nella condotta, consistente nella scrittura o nel consentire la scrittura di false indicazioni che non hanno alcuna corrispondenza nella realtà (Sez. 2, n. 10753 del 13/02/2004, Rv. 228633-01) e nel presupposto della condotta, l’obbligo di fare registrazioni soggette all’ispezione dell’autorità di pubblica sicurezza. Tale secondo requisito è interpretato nel senso che se il dovere di registrazione è previsto con riguardo ad un organo diverso dell’am ministrazione pubblica, tale dovere, tuttavia, deve ritenersi sussistente anche nei confronti dell’autorità di pubblica sicurezza qualora una norma demandi anche a quest’ultima un potere di controllo sulle registrazioni (Sez. 5, n. 1089 del 27/11/1978, Rv. 141003-01). È pertanto irrilevante che abbia concretamente proceduto all’accertamento della falsità un’autorità diversa da quella di pubblica sicurezza (Sez. 5, n. 7019 del 19/11/2019, Rv. 278385-01).
Per i giudici di secondo grado nessuna censura avanzata dalla ricorrente si dirige all’uno o all’altro di tali requisiti di fattispecie. La successione temporale tra la scrittura di false indicazioni e la commissione del reato in materia ambientale non ha alcuna rilevanza ai fini della configurabilità del delitto contro la fede
pubblica. È evidente che esso, con la propria struttura di fattispecie di reato di mera condotta, non solo non richiede la commissione di un ulteriore reato quale evento o condizione di punibilità, ma anche non pone la falsificazione delle indicazioni in rapporto cronologico con alcun altro illecito. Corrisponde ad una tutela effettiva della fede pubblica la scelta legislativa di sanzionare anche la scrittura di false indicazioni che avvenga al fine di occultare un reato già consumato. L’illiceità penale de l fatto non è in alcun modo elisa dal contesto di consulenza professionale in cui esso è stato consumato. È evidente che la formulazione alternativa della condotta ‘scrive o lascia scrivere false indicazioni’ comprende un ampio ventaglio di comportamenti, attivi ed omissivi, nell’ambito di un reato comune. Dunque, è conforme al tipo di condotta della consulente che presti la propria opera a supporto di un imprenditore intenzionato a scrivere false indicazioni nei registri relativi alla gestione di rifiuti e che così facendo agevoli la scrittura di esse e comunque le ‘lasci scrivere’. Sul punto, è irrilevante che l’opera di supporto sia stata meramente materiale e circoscritta alla redazione di un numero limitato di formulari di identificazione dei rifiuti concernenti il trasporto di rifiuti. Si tratta, infatti, di un reato istantaneo, non abituale, con la conseguenza che una sola condotta conforme al tipo consuma il delitto.
5.5. Infine, con riferimento al risarcimento dei danni a favore delle parti costituite, in linea con quanto afferma la sentenza di primo grado a pag. 38, viene ribadito l’orientamento della Corte di cassazione secondo cui in tema di reati ambientali, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 318, comma 2, lett. a), d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, tutti i soggetti diversi dallo Stato, singoli o associati, comprese le Regioni e gli altri enti pubblici territoriali, possono esercitare l’azione civile in sede penale , ai sensi dell’art. 2043 c.c., per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, ulteriori e concreti, conseguenti alla lesione di diritti particolari, diversi dall’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente, pur se derivanti dalla stessa condotta lesiva (Sez. 1, n. 44528 del 25/09/2018). In altri termini, il danno ambientale è di esclusiva pertinenza statale, mentre tutti gli altri soggetti (diversi dallo Stato), pubblici o privati, possono esercitare l’azione civile per ottenere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, ulteriori, conseguenti alla lesione di altri loro diritti particolari, diversi dall’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente, pur se derivanti dalla stessa condotta lesiva (Sez. 3, n. 24677 del 09/07/2014).
Con riferimento ai danni risarcibili all’ente territoriale in conseguenza di una condotta offensiva dell’ambiente, sulla stessa linea si è espressa Sez. 3, n. 19437 del 17/01/2012: la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambient ali spetta non soltanto al ministro dell’ambiente per il risarcimento del danno ambientale, ma anche all’ente pubblico territoriale (nella specie, il comune)
che, per effetto della condotta illecita, abbia subito un danno diverso da quello ambientale e derivante dalla lesione di interessi locali specifici e differenziati (nel caso concreto, il degrado del territorio derivato dall’interramento rudimentale di polveri di ferro).
Nel caso di specie, dall’agire degli imputati, oltre al nocumento derivante dagli esborsi finanziari necessari alla bonifica dei luoghi, è al contempo scaturita una compromissione all’immagine degli enti locali, suscettibile di valutazione economica, da individuarsi nella lesione che gli stessi hanno indirettamente subito, sul piano del prestigio e della reputazione, nei confronti della collettività, con riferimento all’efficacia dell’azione, ad essi demandata, di custodia e valorizzazione delle risorse naturali insistenti nei rispettivi comprensori.
Anche il secondo motivo di ricorso della ricorrente COGNOME è manifestamente infondato e, pertanto, va dichiarato inammissibile.
6.1. In primo luogo, con riguardo al trattamento sanzionatorio, secondo quanto afferma il giudice di secondo grado a pag. 59 della sentenza impugnata, la cornice edittale applicabile per il reato ex art. 416, comma secondo, cod. pen. è da 1 a 5 anni di reclusione.
Nel caso di specie, la pena applicata è di 1 anno e 6 mesi di reclusione.
Ciò significa che, tenendo conto dell’ampiezza della cornice edittale, la pena base applicata si colloca in posizione equidistante dal minimo edittale e dal punto medio, sicché il distanziamento dal minimo edittale si rivela moderato in funzione dell’ampio ventaglio sanzionatorio previsto dal legislatore.
In tal caso, gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. giustificano tale pena base.
Difatti, gli indici di commisurazione della pena di cui all’art. 133 cod. pen. forniscono al giudice l’armamentario per forgiare la condanna sulla persona dell’imputato in considerazione della finalità rieducativa della pena stessa. La centralità e l’impor tanza della sua quantificazione è stata più volte sottolineata dal Giudice delle leggi secondo cui il potere discrezionale del giudice nella determinazione della pena forma oggetto, nell’ambito del sistema penale, di un principio di livello costituzionale rimarcando che la finalità rieducativa della pena stessa non è limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma costituisce una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’a stratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue. La quantificazione della pena, dunque, non può essere frutto di scelte immotivate né arbitrarie, ma nemmeno di valutazioni esasperatamente analitiche. Quel che conta, in ultima analisi, è che dell’uso del
potere discrezionale il giudice dia conto rendendo noti gli elementi che lo giustificano (art. 132 c.p.).
Risulta insuperato l’insegnamento di Sez. U., n. 5519 del 21/04/1979, P., Rv. 142252, secondo cui è da ritenere adempiuto l’obbligo della motivazione in ordine alla misura della pena allorché sia indicato l’elemento, tra quelli di cui all’art. 133 c.p., ritenuto prevalente e di dominante rilievo, non essendo tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi.
Costituisce altresì insegnamento altrettanto consolidato quello secondo il quale quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente quali, tra i criteri, oggettivi o soggettivi, enunciati dall’art. 133 cod. pen. siano stati ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio, dovendosi perciò escludere che sia sufficiente il ricorso a mere clausole di stile, quali il generico richiamo alla ‘entità del fatto’ e alla ‘personalità dell’imputato’. È consentito far ricorso esclusivo a tali clausole, così come a espressioni del tipo: ‘pena congrua’, ‘pena equa’, ‘congruo aumento’, solo quando il giudice non si discosti molto dai minimi edittali oppure quando, in caso di pene alternative, applichi la sanzione pecuniaria, ancorché nel suo massimo edittale.
È stato anzi precisato che, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen.
Al di fuori di questi casi, la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale non può essere affidata alla intuizione del giudice, con riferimento a generiche formule di stile o sommari richiami al parametro contenuto nell’art. 133 c.p., perché se è pur vero che non è richiesto l’analitico esame in rapporto a ogni elemento del complesso parametro richiamato, resta tuttavia la doverosità della specifica individuazione delle ragioni determinanti la misura della pena, al fine di dar conto dell’u so corretto del potere discrezionale che al giudice di merito è affidato, e di garantire l’imputato della congruità della pena inflitta (Sez. 1, n. 12364 del 02/07/1990, I., Rv. 185320, che ha ricordato come nell’irrogazione di una pena, relativa ad un rea to circostanziato, analogamente a quanto previsto per un reato semplice, il giudice adempie all’obbligo motivazionale solo allorché indica in modo specifico i motivi che giustificano l’uso del suo potere discrezionale al riguardo e non già adoperando delle formule stereotipate. Infatti, l’obbligo della motivazione, predisposto dalla legge, è generale in quanto vale per tutti i provvedimenti per i quali la legge lo prescrive; indisponibile perché deve
essere adempiuto unicamente dall’autore del provvedimento; destinato ad essere pubblicizzato e completo, nel senso che deve essere quantitativamente correlato al dispositivo, con l’effetto che in assenza di queste caratteristiche non può dirsi compiutamente adempiuto) (Sez. 3, n. 35108 del 15/05/2024, B., Rv. 28689901).
Pertanto, nel caso di specie, le contestazioni sono manifestamente infondate avuto riguardo alla determinazione della pena base. Infatti, come affermato nella sentenza impugnata, le modalità esecutive della condotta criminosa costituiscono indice di una gravità del reato notevole poiché la ricorrente si è inserita nell’associazione dopo la ripetuta prestazione di consulente nei confronti di COGNOME, nell’ambito della propria attività professionale. Il passaggio dal lecito svolgimento di prestazioni d’oper a intellettuale alla partecipazione intranea al sodalizio criminale è transitato attraverso la presa di coscienza dell’esistenza di una struttura stabilmente dedita ad attività illecite.
Inoltre, la modalità di realizzazione del delitto da parte sua è consistita nel commettere altri delitti satellite nell’interesse di un apicale dell’associazione, ossia ha realizzato delitti contro la fede pubblica idonei ad occultare i fatti illeciti di COGNOME e, peraltro, il fatto di partecipare nell’associazione per delinquere ha dato luogo ad un danno notevole per l’ordine pubblico, poiché il sodalizio si è caratterizzato per la sua efficacia operativa e per la sua ampiezza di persone e mezzi.
6.2. In secondo luogo, si collega alla gravità del reato commesso dalla ricorrente l’infondatezza di una differenziata determinazione delle statuizioni risarcitorie rispetto agli altri due coimputati. Difatti, le modalità delittuose della sua condotta -come po c’anzi esposto , la sua qualifica professionale rivestita, il suo ruolo assunto all’interno dell’associazione per delinquere, la commissione dell’ulteriore delitto di cui all’art. 484 cod. pen., non possono inevitabilmente condurre ad una determinazione delle statuizioni civili diversa da quella prevista per gli altri coimputati.
A diverso approdo deve pervenirsi, invece, quanto al terzo ed ultimo motivo del ricorso della ricorrente COGNOME, che il Collegio reputa fondato.
7.1. Ebbene, nella sentenza di primo grado, come si legge a pag. 21, il Tribunale di Como ha accordato alla ricorrente i cosiddetti doppi benefici di legge in ragione del suo corretto comportamento processuale e della prognosi favorevole rispetto alla sua futura astensione da comportamenti criminosi.
Tuttavia, il giudice di secondo grado ha disposto la revoca di tali benefici, tenuto conto che si tratta della seconda condanna penale per la ricorrente e che, nel complesso, i fatti dimostrano un’abitualità di comportamento criminoso. In
particolare, la motivazione data riguarda le modalità esecutive della condotta che denotano una gravità del reato, essendosi inserita nell’associazione dopo la ripetuta prestazione di consulenze nei confronti di COGNOME, nell’ambito della propria attività professionale. Il passaggio dal lecito svolgimento di prestazioni d’opera intellettuale alla partecipazione intranea al sodalizio criminale è transitato attraverso la presa di coscienza dell’esistenza di una struttura stabilmente dedita ad attività praticate senza scrupoli di legalità. Inoltre, la modalità di realizzazione del delitto da parte sua è consistita nel commettere altri delitti satellite nell’interesse di un apicale dell’associazione, ossia ha commesso delitti contro la fede pubblica volti ad occultare gli illeciti di COGNOME. Peraltro, il fatto di partecipare in un’associazione per delinquere ha dato luogo ad un danno notevole per l’ordine pubblico, poiché il sodalizio si è caratterizzato per la sua efficacia operativa e per la sua ampiezza di persone e mezzi.
7.2. La fondatezza di tale motivo sollevato dalla difesa si rinviene nella sentenza delle Sezioni Unite (n. 36460 del 01/10/2024), in cui è stata data risposta al seguente quesito: «se sia legittima la revoca, in sede esecutiva, della sospensione condizionale della pena disposta in violazione dell’art. 164, comma quarto, cod. pen., per l’esistenza di una causa ostativa ignota al giudice di primo grado e nota però a quello di appello, il quale ultimo non abbia esercitato ex officio il potere di revoca o non sia stato investito dell’impugnazione del pubblico RAGIONE_SOCIALE o, ancora, non sia stato da quest’ultimo sollecitato alla revoca».
In tale sentenza, a seguito dell’esame dei vari orientamenti formatisi in giurisprudenza, si è affermato che, in materia di benefici -sospensione condizionale e non menzione -e di attenuanti, il giudice di appello ha un potere di concessione al di là del devoluto, per espressa previsione di legge contenuta nell’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., disposizione che, però, è di stretta interpretazione nella misura in cui comporta una eccezione alla regola generale dell’effetto devolutivo e, come tale, non pu ò essere applicata oltre i casi in essa considerati. Non può, dunque, farsi leva su questa disposizione per argomentare che, come il giudice di appello può concedere la sospensione, pur quando la cognizione sul punto non gli sia stata devoluta, così può revocarla oltre il devoluto quando sia stata illegittimamente applicata.
Pertanto, le Sezioni Unite correggono l’affermazione, propria dell’orientamento maggioritario, del potere del giudice della cognizione di revoca della sospensione illegittimamente concessa in termini di mera facoltà, di potere meramente surrogatorio rispet to alle attribuzioni del giudice dell’esecuzione.
È piuttosto il potere di quest’ultimo a dover essere qualificato in termini di complementarità in riferimento alle attribuzioni del giudice della cognizione, che si esercitano, fuori dei casi in cui la legge conferisca un’attribuzione sganciata dai
confini della domanda impugnatoria, nel rispetto del principio della devoluzione parziale.
Impostata in questi termini, non viene in rilievo il nodo della possibile interferenza con il divieto della reformatio in peius, perché esso è limite al potere decisorio del giudice di appello che presuppone logicamente l’attribuzione del potere di cognizione per mezzo della devoluzione.
Se il punto della sospensione condizionale è devoluto al giudice di appello, a fronte di una illegittimità della concessione operata con la sentenza di primo grado, non può che esser conseguenza di una impugnazione del pubblico RAGIONE_SOCIALE, non potendosi rav visare un interesse all’impugnazione dell’imputato che abbia beneficiato, al di fuori delle condizioni di legge, della sospensione condizionale. In tale ipotesi, non vi è spazio per l’operatività del divieto, appunto perché impugnante è il pubblico RAGIONE_SOCIALE.
Ove mai si volesse ipotizzare una devoluzione per iniziativa dell’imputato condannato in primo grado, magari interessato a non avere la sospensione condizionale della pena pecuniaria, la domanda di revoca dell’imputato porrebbe all’evidenza nel nulla il di vieto di reformatio in peius.
Si afferma, pertanto, il principio di diritto per il quale ‘è legittima la revoca, in sede esecutiva, della sospensione condizionale della pena disposta in violazione dell’art. 164, quarto comma, cod. pen., in presenza di una causa ostativa ignota al giudice di primo grado e nota a quello d’appello, a cui il punto non sia stato devoluto con l’impugnazione’ (Sez. U., n. 36460 del 30/05/2024, Z., Rv. 287004).
In altri termini, il giudice dell’appello può pronunciarsi sulla illegittimità della concessione della sospensione condizionale della pena solo in conseguenza di una specifica impugnazione sul punto del pubblico RAGIONE_SOCIALE, altrimenti può procedere d’uffici o senza violare il divieto di reformatio in peius .
7.3. Alla luce di tale principio di diritto, si ravvisa che, nel caso di specie, al giudice di appello non è stata devoluta la cognizione del punto relativo alla sospensione condizionale della pena e non menzione della condanna e, d’altro canto, neppure il pubblico RAGIONE_SOCIALE ha proposto impugnazione contro la sentenza di primo grado che aveva concesso i benefici di legge.
Se, pertanto, il punto della sospensione condizionale non ha formato l’oggetto della devoluzione, di conseguenza, il giudice di appello, non potendo avere cognizione sul punto, non poteva disporre la revoca dei benefici di legge.
Dunque, la sentenza va annullata disponendo l’eliminazione di tale revoca.
Resta da esaminare il ricorso proposto dalla ricorrente COGNOME che, come anticipato, non sfugge al giudizio di inammissibilità.
Il predetto ricorso è, infatti, manifestamente infondato, oltre che generico per aspecificità e, pertanto, va dichiarato inammissibile.
9.1. In particolare, la difesa non si confronta con le motivazioni della sentenza impugnata e, inoltre, propone una rivalutazione dei fatti, operazione questa del tutto incompatibile con il giudizio di legittimità.
In primo luogo, dall’esame della sentenza di secondo grado (pag. 50), si osserva che, con riguardo al requisito della fattispecie, ossia la finalizzazione alla commissione di una pluralità di delitti, la sentenza di primo grado ha ritenuto sintomatici della sua adesione al sodalizio e alle sue finalità illecite sia il suo intervento per l’attivazione di un rapporto bancario, sia il suo contro -pedinamento nei confronti della polizia giudiziaria nei pressi della CAVA PARISI di Gizzeria.
Dunque, si può affermare che le condotte da lei tenute, costituendo sintomo di uno stabile inserimento nel sodalizio, costituiscono comportamenti inerenti ad una condivisione di interessi riferiti alle attività illecite in concreto svolte dal compagno COGNOME . Difatti, l’esplicita manifestazione di una volontà associativa non è necessaria per la costituzione del sodalizio, potendo la consapevolezza dell’associato essere provata attraverso comportamenti significativi che si concretino in una attiva e stabile partecipazione.
In quest’ottica, anche gli elementi certi relativi alla partecipazione di determinati soggetti ai reati-fine effettivamente realizzati possono essere influenti nel giudizio relativo all’esistenza del vincolo associativo e all’inserimento di costoro nell’or ganizzazione, specie quando siano dimostrativi del tipo di criminalità, della struttura e delle caratteristiche dei singoli reati, nonché delle modalità della loro esecuzione. Di conseguenza, la ripetuta commissione, in concorso con i partecipi al sodalizio criminoso, di reati-fine può integrare, per ciò stesso, gravi, precisi e concordanti indizi in ordine alla sussistenza di un programma delittuoso comune di partecipazione al reato associativo (Sez. 2, n. 28868 del 02/07/2020, D., Rv. 279589-01).
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha evidenziato una serie di elementi da cui desumere non solo la partecipazione ai reati fine, ma anche la presenza di un accordo stabile finalizzato alla commissione di una pluralità indeterminata di reati. La Cor te ha preso atto della consapevolezza dell’imputata dell’operato illecito dell’associazione per delinquere, la cui attività, svolta dalla stessa ricorrente, costituiva un ausilio e sostegno all’organizzazione: sfruttando il suo radicamento sul territorio e la fitta rete di conoscenza, ha contribuito a facilitare lo sblocco dell’apertura del c/c n. 3993059 di RAGIONE_SOCIALE presso la filiale della Banca Monte dei Paschi di Siena di Lamezia TermeS. NOME. In aggiunta, l’episodio principe da cui il giudi ce di prime cure ha ritenuto di poter desumere l’adesione della ricorrente al sodalizio criminoso è quello accaduto il 21 giugno 2018, in
occasione del trasporto di rifiuti operato da COGNOME NOME, con partenza da SMR RAGIONE_SOCIALEIA di Como e destinazione RAGIONE_SOCIALE e, infine, dirottato presso la ‘Cava AVV_NOTAIO‘, nel medesimo territorio di Gizzeria. Giunto il carico in Calabria la mattina del 21 giugn o, COGNOME NOME contatta l’autista di NOMENOME fornendogli indicazioni per raggiungere il sito ed avvisandolo che lui stesso provvederà ad accompagnarlo nella zona di scarico dei rifiuti. E nell’occasione, è stato appurato che l’autista dell’Audi A8 con targ a di nazionalità tedesca con a bordo il COGNOME fosse proprio la ricorrente.
Per i giudici di secondo grado, proprio tale attivazione in ambito bancario e l’episodio della staffetta del carico di rifiuti del 21/06/2018 rappresentano elementi specifici da cui desumere la sussistenza del requisito dell’indeterminatezza del programma criminoso.
Difatti, al contrario di quanto afferma la difesa secondo cui, nel caso di specie, non sia possibile ravvisare la sussistenza di un sodalizio criminoso come previsto dall’art. 416 cod. pen., si osserva che il delitto di associazione a delinquere si caratterizza per la presenza di tre elementi fondamentali -tutti ravvisabili nel caso in esame: un vincolo associativo tendenzialmente permanente o comunque stabile e destinato a durare anche oltre la realizzazione dei singoli delitti programmati; l’indeterminatezza del programma criminoso e l’esistenza di una struttura organizzativa, sia pure minima, ma idonea alla realizzazione degli obiettivi criminosi presi di mira. E, con particolare riferimento al requisito della indeterminatezza del programma criminoso deve chiarirsi che detto elemento non viene meno per il solo fatto che il sodalizio sia finalizzato esclusivamente alla realizzazione di reati di un medesimo tipo o natura, in quanto esso attiene al numero, alle modalità, ai tempi, agli obiettivi dei delitti programmati e non certo alla loro qualificazione giuridica.
Sulla base della costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini della configurabilità di un’associazione a delinquere, il cui programma criminoso preveda un numero indeterminato di delitti, non si richiede l’apposita creazione di un’organizzazione, sia p ure rudimentale, né è necessario che il vincolo associativo assuma carattere di stabilità, essendo sufficiente che esso non sia a priori circoscritto alla consumazione di uno o più reati predeterminati, né occorre il notevole protrarsi del rapporto nel tempo (Sez. 2, n. 16339 del 17/01/2013, B., Rv. 255359-01).
Di conseguenza, come correttamente affermato dai giudici di secondo grado, la limitata estensione temporale degli apporti dati dalla ricorrente all’associazione non si pone in rapporto antinomico con il requisito costitutivo dell’indeterminatezza del progr amma criminoso. Al contrario, in punto di fatto, deve ritenersi rilevante l’apporto dato all’operatività bancaria del sodalizio e quello
dato nel momento in cui si stava concretizzando il rischio dell’accertamento di polizia di un reato fine. Entrambi gli apporti, proprio perché non specificamente agevolativi della commissione dell’uno o dell’altro reato, dimostrano la funzionalità dei comportamenti della ricorrente ad un programma criminoso di natura indeterminata, nel quale la priorità non era la consumazione dell’una o dell’altra operazione illecita, bensì la conservazione dell’efficacia operativa della struttura di persone e di mezzi posta a servizio della realizzazione di delitti ambientali.
9.2. Inoltre, a differenza di quanto afferma la difesa, non risulta superfluo e irrilevante il rapporto sentimentale tra la ricorrente e il sodale COGNOME, poiché, come si legge a pag. 51 dell’impugnata sentenza, questo accresceva la stabilità dell’affidamento ing enerato dalle sue condotte partecipative più specificamente riferite all’operatività e all’efficienza del sodalizio. Difatti, richiamando la giurisprudenza di questa Corte, con riferimento alla stabilità del vincolo associativo, è infatti sintomo di stabilità qualunque condotta che determina uno stabile affidamento del gruppo sulla disponibilità all’utilizzo del pianificato meccanismo delittuoso, mediante la costituzione di un vincolo reciproco durevole, che supera la soglia del rapporto sinallagmatico contrattuale delle singole operazioni e si trasforma nell’adesione dell’acquirente al programma criminoso (Sez. 3, n. 8472 del 17/01/2023, Rv. 284201-01).
9.3. Infine, con riferimento al requisito del dolo, occorre osservare che i giudici di secondo grado si sono pronunciati sul motivo di appello proposto dalla ricorrente con cui, nel premettere che ai fini della valutazione circa l’appartenenza ad una associazione a delinquere il dolo specifico deve investire sia il fatto tipico sia il contributo causale offerto all’associazione e alla realizzazione del programma criminoso del sodalizio, si sosteneva che il percorso argomentativo del Collegio di primo grado si fosse limitato a ravvisare la sussistenza di dolo eventuale, quale accettazione del rischio, senza accertare l’effettiva consapevolezza dell’esistenza stessa dell’associazione e intenzione di parteciparvi.
I giudici territoriali, nel confutare l’eccezione difensiva, hanno chiaramente premesso come, con riferimento all’elemento soggettivo del delitto ex art. 416, secondo comma, cod. pen., esso consiste non nel mero dolo eventuale, bensì nel ‘dolo diretto, che postula la consapevolezza della finalità perseguita dal sodalizio con il quale si collabora in maniera stabile e attiva, atteso che è proprio la finalità di commettere un numero indeterminato di delitti l’elemento discriminante, che rende illecita l’associazione, altrimenti organismo lecito, al quale si partecipa in esplicazione del diritto fondamentale riconosciuto dall’art. 18 Cost.’ (Sez. 3, n. 1465 del 10/11/2023, dep. 2024, Rv. 285737 -01). Sulla base di tale rilievo, si noti, la Corte territoriale h a ritenuto ‘esorbitante dalla cornice legale’ l’approccio al tema dell’allora appellante COGNOME, che aveva evocato il dolo specifico,
replicando tale eccezione, senza alcun elemento di novità critica, dinanzi a questa Corte di cassazione. Quest’ultima categoria, già evidenziavano i giudici territoriali, non è pertinente al delitto di associazione per delinquere, bensì alla circostanza ag gravante, non dedotta nel presente giudizio, dell’agevolazione mafiosa (Sez. 6, n. 25510 del 19/04/2017, Rv. 270158 -01; Sez. 5, n. 1706 del 12/11/2013 Ud. – dep. 16/01/2014, Rv. 258951 -01), nonché alla differente associazione di cui all’articolo 416 -bis cod. pen. (Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, Rv. 202904 -01, infatti già citata dalla difesa appellante). Non coglie, pertanto, nel segno l’obiezione difensiva, atteso che i giudici territoriali, nel replicare alle doglianze difensive, non hanno operato alcun riferimento alla categoria del dolo eventuale. Anzi, proprio dalla ricostruzione del ruolo della NOME operato dai giudici di merito e, segnatamente, dal primo giudice (cfr. pagg. 18/20 della sentenza di primo grado), emerge con immediata evidenza la sussistenza del richiesto dolo ‘diretto’, sufficiente ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico del reato di partecipazione ad associazione per delinquere, inteso come volontà del concorrente di contribuire a realizzare gli scopi in vista dei quali era costituito ed operava il sodalizio criminoso. Analizzando, infatti, gli elementi ivi descritti (segnatamente, si noti, quello che viene definito come episodio ‘principe’ del 21.06.2018, da cui il primo giudice, aveva, come argomentazioni del tutto immuni da vizi logico -giuridici, ritenuto di poter ‘inconfutabilmente’ desumere l’adesione della RAGIONE_SOCIALE al sodalizio criminoso), gli stessi caratterizzano la condotta del ricorrente come di partecipazione attiva al gruppo avente lo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti, condotta costituente oggetto di rappresentazione e volontà: nella fattispecie di cui all’art. 416 cod. pen., è proprio questo fine l’elemento discriminante, che rende l’associazione una struttura illecita. Sul punto, dunque, la sentenza non merita censura.
10. Conclusivamente, l’impugnata sentenza dev’essere annullata senza rinvio nei confronti di COGNOME NOME, limitatamente alla revoca dei doppi benefici di legge, eliminando la relativa statuizione. Nel resto, il ricorso della ricorrente COGNOME deve essere dichiarato inammissibile come, parimenti, devono essere dichiarati inammissibili i ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME NOME, con condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali e della somma di 3000 euro ciascuno di ammenda in favore della Cassa delle ammende, versando i ricorrenti in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità. All’inammissibilità dei ricorsi segue, infine, inoltre la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa delle spese in giudizio, liquidate come da dispositivo in base ai parametri ministeriali, disciplinati dal D.M. 55/2014, aggiornati al D.M. n. 147 del 13/08/2022.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME limitatamente alla revoca dei doppi benefici di legge, statuizione che elimina. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso di COGNOME NOME.
Dichiara inammissibili i ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME NOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, i ricorrenti alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che liquida in complessivi euro 3.686,00, per ciascuna di esse, oltre accessori di legge. Così deciso, il 24/09/2025
Il AVV_NOTAIO estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME