Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 130 Anno 2025
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Penale Sent. Sez. 5 Num. 130 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 26/11/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME (CUI CODICE_FISCALE) nato in NIGERIA il 28/04/1991 NOME (CUI CODICE_FISCALE) nato in NIGERIA il 21/04/1997 NOME (CUI CODICE_FISCALE) nato in NIGERIA il 14/07/1988
avverso la sentenza del 12/01/2024 della CORTE D’APPELLO di CATANIA Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto rigettarsi i ricorsi, riportandosi alla memoria depositata;
uditi gli avvocati NOME COGNOME per NOME COGNOME anche in sostituzione dell’avvocato NOME COGNOME per NOME COGNOME e dell’avvocato NOME COGNOME per NOME COGNOME che si è riportato ai ricorsi per tali ultimi imputati, illustrando i motivi del primo ricorso e i motivi aggiunt depositati per il primo ricorrente, chiedendo raccoglimento di tutti i ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Catania, con la sentenza emessa il 12 gennaio 2024 riformava la sentenza del Tribunale etneo- riconoscendo le circostanze attenuanti generiche, con conseguente riduzione della pena – e confermava nel resto la decisione, che aveva accertato la responsabilità penale di NOME COGNOME e NOME COGNOME in ordine al delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso contestato al capo 1), mentre NOME COGNOME oltre che per la partecipazione all’associazione citata, era stato ritenuto responsabile anche del delitto di detenzione, trasporto e cessione di stupefacente del tipo cocaina e marjuana, aggravato dall’art. 416-bis 1 cod. pen., sia nella forma oggettiva che soggettiva.
Quanto all’associazione di stampo mafioso, aggravata dalla disponibilità delle armi – la partecipazione al sodalizio risultava contestata anche ad altri imputati, non ricorrenti – era denominata RAGIONE_SOCIALE o “RAGIONE_SOCIALE“, facente parte del più ampio sodalizio radicato in Nigeria e diffuso in diversi stati europei e extraeuropei, caratterizzato dalla presenza di una struttura organizzativa di carattere gerarchico, suddivisa nel territorio italiano in gruppi, con competenza su specifiche porzioni dello stesso, appartenendo tutti gli indagati al gruppo denominato “RAGIONE_SOCIALE” operante in Catania e provincia ed in modo particolare nel C.a.r.a. di Mineo.
L’associazione criminale risultava, secondo l’impostazione accusatoria, finalizzata alla commissione di un numero indeterminato di delitti, in particolare: -delitti contro la persona, opponendosi e scontrandosi con gruppi rivali variamente denominati per assumere mantenere il predominio nell’ambito sia della comunità nigeriana sia sul territorio dove operano; -delitti in materia di stupefacenti e contro il patrimonio, commessi avvalendosi della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva, allo scopo di procurare alla associazione un vantaggio ingiusto, consistente nell’affermare e rafforzare la forza, la capacità di azione ed il predominio del gruppo sia nei confronti degli associati, sia nei confronti della comunità nigeriana e degli altri gruppi criminali nigeriani; a tali fini gli associati si avvalevano de forza di intimidazione del vincolo associativo, nonché si avvalevano della condizione di assoggettamento e di omertà che dall’associazione medesima deriva e che si sostanziava, nel caso di specie, nell’osservanza delle rigorose regole interne, di rispetto ed obbedienza alle direttive dei vertici con ricorso all’esercizio di violenza e minaccia anche mediante l’uso di armi bianche da punta e taglio, e ciò anche per la risoluzione dei conflitti con altri gruppi o con singoli ritenuti grado di ostacolare le finalità criminali e di predominio dell’associazione.
I ricorsi per cassazione proposti nell’interesse di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME sono articolati in motivi che verranno enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il ricorso nell’interesse di NOME COGNOME consiste in un unico articolato motivo, ai quali vengono aggiunti i motivi nuovi.
3.1 Lamenta il ricorrente violazione di legge processuale, con riferimento all’art. 192 cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
In particolare, la Corte di appello avrebbe reiterato l’errore del Tribunale, per un verso non operando una valutazione di attendibilità del collaboratore NOMECOGNOME per altro verso ritenendo riscontro, con travisamento della prova, le dichiarazioni di COGNOME Difatti, quest’ultimo riferiva di una riunione in INDIRIZZO per una sorta rituale di iniziazione, ma il dichiarante aveva invece affermato trattarsi di una festa, con registrazione di un brano musicale.
Oltre a tale discrasia, anche l’accusa – dal collaboratore rivolta al ricorrente in ordine a un acquisto di stupefacente operato in Napoli – risulterebbe smentita dalla circostanza che all’esito della perquisizione non veniva rinvenuto stupefacente e le conversazioni in vero rappresenterebbero che COGNOME si sarebbe recato nella città partenopea per una festa, non per acquistare solo 20 euro di droga.
Per cui, non sarebbe provato l’episodio e lo stesso non può logicamente fungere da elemento comprovante la partecipazione al sodalizio criminoso contestato.
Inoltre, neanche sarebbero indicati gli elementi sintomatici, secondo le previsioni di Sez. U. COGNOME, del ‘prendere parte’ all’associazione mafiosa, indicativi del contributo offerto alla stessa da parte dell’imputato. Da qui l’inesattezza e l’illogicità della motivazione impugnata.
3.2 Con i motivi aggiunti e con la memoria conclusiva la difesa del ricorrente precisa e integra le censure in ordine ai temi già dedotti, prospettando violazione di legge in relazione all’art. 416 bis cod. pen. e vizio di motivazione. In particolare censura la contraddittorietà della motivazione in ordine alla attendibilità del collaboratore di giustizia, il travisamento della dichiarazione del collaboratore di giustizia, che riferiva di una riunione per registrare un brano musicale e non per un rito di iniziazione, la mancata valorizzazione dell’esito negativo della perquisizione conseguente al viaggio a Napoli, il che avrebbe dovuto condurre all’esistenza di una quadro probatorio contraddittorio, nonché il riferimento manifestamente illogico – alla circostanza che l’imputato indossava la divisa
‘rossa’ che sarebbe stata sintomatica della partecipazione, lamentando che il prenedere parte all’associazione mafiosa richiede non l’accertamento di uno status bensì di un contributo dinamico.
Il ricorso nell’interesse di NOME COGNOME consiste in un due articolati motivi.
4.1 II primo motivo è sviluppato, a sua volta, nelle doglianze di violazione di legge penale – in relazione all’art. 416-bis cod. pen, anche sotto il profilo dell’omessa riqualificazione nel delitto associativo mafioso nell’ipotesi di associazione per delinquere ex art. 416 cod. pen – nonchè di vizio di motivazione.
In particolare, errato sarebbe l’argomentare della Corte territoriale ove trae la prova dell’esistenza dell’associazione dalla circostanza che alcuni dei coimputati non avevano presentato appello, in ordine alla sussistenza dell’associazione di stampo mafioso.
Inoltre, la Corte territoriale non avrebbe valutato l’attendibilità del collaboratore NOMECOGNOME pur a fronte delle falsità dichiarate in occasione dell’audizione tenuta nel procedimento per ottenere la protezione internazionale, essendo manifestamente illogica la motivazione della sentenza impugnata sul punto.
Difetterebbe, poi, adeguata motivazione in ordine al metodo mafioso – che implica omertà e assoggettamento, durevole e costante, oltre che percepibile come richiesta in dottrina e in giurisprudenza, con le peculiarità proprie delle associazioni criminali mafiose straniere, dunque non ‘storiche’.
Il collaboratore di giustizia non indicava, poi, specificamente il ruolo di COGNOME, narrava un episodio di una lite fra l’imputato – che avrebbe rotto una bottiglia in testa all’avversario – non per ragioni associative, ma perché i due ‘non si erano capiti’, né costituirebbero riscontro alla generica chiamata in correità le dichiarazioni di COGNOME che riferiva della partecipazione dell’imputato agli scontri nel C.a.r.a. di Mineo il 6 novembre 2018. Al più la stessa dichiarazione integrerebbe la prova del delitto di rissa – anche alla luce delle dichiarazioni del teste di polizia giudiziaria COGNOME – in relazione agli scontri fra ospiti della struttur appartenenti ad etnie diverse.
Né la conversazione prog. n. 3702 – ove due nigeriani dialogavano fra loro dello stato di salute dell’imputato – era indicativa della appartenenza al sodalizio criminoso di quest’ultimo.
In sostanza, la Corte di appello opererebbe una sommatoria di elementi, senza adeguata analisi critica e, comunque, non valuterebbe che il C.a.r.a. non era struttura di reclusione, il che inficia la struttura logica della motivazione.
Anche difetta ogni valutazione di attendibilità della dichiarazione di Admin Friday.
Residuerebbe solo l’individuazione fotografica da parte di COGNOME mentre COGNOME e COGNOME riconoscono l’imputato, ma non lo indicano come partecipe dell’associazione, né, nonostante la Corte territoriale faccia riferimento a intercettazioni telefoniche, emergono conversazioni tra l’imputato e altri sodali, denunciando il ricorrente un travisamento per invenzione a riguardo.
Neanche risulta la partecipazione dell’imputato alla riunione di vertice per la designazione del nuovo capo dell’associazione.
Dal contenuto di una conversazione – prog. N. 236 – nel corso della quale si narra di una ragazza che si sottrae alle telefonate, negandosi al ruolo di corriere per il trasporto di stupefacenti, il ricorrente trae la considerazione del difetto d prova della intimidazione ex art. 416 bis cod. pen.
Il motivo ripercorre il contenuto della conversazione progr. N. 3687, per dimostrare che gli scontri del 6 novembre 2018 non furono espressivi dell’azione del sodalizio mafioso, contro altra organizzazione per il predominio del C.a.r.a., bensì furono determinati dal furto di una collana.
Ne conseguirebbe una – al più potenziale – volontà di affermazione del gruppo criminale, non certamente le necessarie caratteristiche sussistenti della forza di intimidazione, tanto più che i due presunti appartenenti al sodalizio ebbero a denunciare gli avversari, venendo meno così alla regola dell’omertà propria dei contesti mafiosi.
Ne consegue l’assenza della prova del metodo mafioso.
4.2 II secondo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla aggravante dell’associazione armata.
La Corte di appello non ha accertato che l’imputato avesse consapevolezza della disponibilità di armi da parte degli associati o che ne ignorasse l’esistenza per colpa, non potendo a tal fine essere utile il referto che vede vittima di ferimento lo stesso imputato.
Sul punto sarebbe stata disattesa la doglianza di appello, senza alcuna motivazione. Il motivo reitera la doglianza sulla inattendibilità del dichiarante NOME, già formulata con il primo motivo.
Il ricorso nell’interesse di NOME COGNOME consiste in tre articolati motivi.
5.1 Il primo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla inesistenza dell’associazione mafiosa.
Il ricorrente, dopo aver tracciato la storia dei gruppi universitari nigeriani degli anni ’60-’70, con finalità di rivendicazione di diritti, e la loro trasposizione n gruppi poi migrati all’estero, tracciata anche la dinamica conflittuale esistente fra
diverse etnie nello stesso continente africano, riconduce a tale matrice lo scontro fra NOME e NOME avvenuto nel centro di Mineo, rappresentando invece il difetto di qualsivoglia controllo del territorio e la vorticosa turnazione nel ruolo di direzione di executioner, ruolo mai spettato al ricorrente, fattori indicativi dell’insussistenza delle caratteristiche della associazione mafiosa.
Difetterebbe la cassa del sodalizio, restando i guadagni acquisiti da chi commette gli illeciti, né vi sarebbe omertà, controllo territoriale, intimidazione, stabile organizzazione. A fronte di ciò la motivazione impugnata è generica e non si confronta con tali emergenze.
5.2 Il secondo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla estraneità dell’imputato alla associazione mafiosa.
Le dichiarazioni del collaboratore NOME restano prive di riscontro, quanto al ricorrente, che non viveva neanche nel C.a.r.a., ove domiciliava la moglie; inoltre, l’imputato non risponde all’interlocutore nel corso delle telefonate, dove si parla del capo di turno, non commette delitti fine, ricopre il ruolo di ministro di culto, i quanto persona colta e al corrente dei riti cultisti, e come tale coinvolto nei riti iniziazione ai Vikings, che non sono né criminali né mafiosi.
Una contraddizione logica sarebbe riscontrabile nell’aver ritenuto l’imputato come colui che nomina un capo, pur non essendolo a sua volta.
5.3 Il terzo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al capo 3), in ordine al delitto di detenzione di stupefacente.
In assenza di sequestro di sostanza stupefacenti, l’unica fonte è da rinvenirsi nelle dichiarazioni di NOMECOGNOME smentito quanto alla sussistenza dell’associazione ex art. 74 d.P.R. 309/90, ma reo confesso con riscontri, che però non sussistono per l’attuale ricorrente.
Inoltre, COGNOME non usa i termini COGNOME e COGNOME, utilizzati da altri per indicare lo stupefacente in modo criptico, nel corso delle conversazioni intercettate; non ha redditi adeguati, quali sarebbero quelli tratti dal commercio di stupefacente; la moglie, sua presunta sodale, è stata mandata assolta dal delitto per non aver commesso il fatto, sulla scorta di conversazioni fra i coniugi. Il ricorrente chiede l’esclusione dell’aggravante dell’art. 416-bis 1 cod. pen.
Il ricorso è stato trattato, con intervento delle parti, ai sensi dell’art. 2 comma 8, d.l. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell’art. 7, comma 1, d.l. n. 105 del 2021, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall’art. 94 del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall’art. 5-duodecies d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla I. 30 dicembre 2022, n.
199, nonché entro il 30 giugno 2024 ai sensi dell’art. 11, comma 7, del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito in legge 23 febbraio 2024, n. 18.
7. Le parti hanno concluso come indicato in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono complessivamente infondati.
Va premesso, ai fini della migliore comprensione dei ricorsi e data la natura sovrapposta di alcune doglianze dei tre ricorrenti, che in ordine all’esistenza dell’associazione di stampo mafioso contestata al capo 1) la sentenza impugnata chiarisce come la prova della sussistenza della stessa si tragga da una pluralità di elementi probatori.
La Corte di appello richiama la sentenza della Corte di cassazione n. 35987 del 2019, che ha attestato l’esistenza del sodalizio in sede cautelare quanto al ricorso di COGNOME NOME (cfr, fol. 22 della sentenza di primo grado), aggiungendovi la formazione del ‘giudicato interno’ nel presente procedimento per omessa presentazione di motivi di appello da parte di altri imputati non ricorrenti.
Se la doglianza difensiva lamenta fondatamente l’insussistenza del cd. ‘giudicato interno’, che può riguardare i singoli imputati e non anche coloro che invece hanno presentato impugnazioni, deve anche osservarsi come oltre a tale parte della motivazione la sentenza impugnata (fol. 13 e ss., anche in riferimento alle singole posizioni) indica ulteriori fonti di prova.
Richiamando la sentenza di primo grado, vengono indicate le dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME sulla credibilità del quale la prima sentenza, condivisa da quella di secondo grado, si diffondeva ai foll. da 5 a 9. In particolare, il dichiarante riferiva della ripartizione dei ruoli internamente all’organismo criminale, delle regole del sodalizio, della finalità di commissione di reati, dell’utilizzazione del metodo mafioso.
Tale prima fonte di prova veniva riscontrata anche dalle dichiarazioni rese da tre testimoni escussi nel corso dell’istruttoria dibattimentale in primo grado – NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME – che confermavano come l’associazione criminale fosse dedita alla commissione di furti, estorsioni e cessione di stupefacenti all’interno del C.a.r.a. di Mineo, indicando quali capi del gruppo, con la qualifica di executioner, NOME COGNOME e poi il dichiarante NOME COGNOME detto NOMECOGNOME I tre testimoni dichiaravano anche di essere stati richiesti di entrare a far parte del gruppo criminale, denominato Catacata, e invitati a commettere reati, in tema di stupefacenti in particolare, avendo anche avuto la richiesta di affiliarsi:
avendo opposto un rifiuto, avevano subìto ritorsioni, come per il caso di NOME Friday, al quale era stata rotta una bottiglia in testa.
Anche fonte di prova ulteriore, indicava la Corte di Appello, consisteva nei riscontri tratti dalle dichiarazioni di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME – acquisite per intervenuta irreperibilità degli stessi nel corso del dibattimento che confermavano la sussistenza del gruppo mafioso, caratterizzato dall’utilizzo di metodi violenti, tanto che i dichiaranti erano stati costretti a lasciare il C.a.r.a p timore di ritorsioni.
Ulteriori riscontri risultavano dalle attività di intercettazione poste in essere dagli investigatori, come anche da quella di osservazione della polizia giudiziaria.
La Corte di appello evidenzia come integri, inoltre, la prova dell’esistenza dell’associazione mafiosa l’esistenza di un rito di affiliazione, comprensivo anche di canti, nonché l’utilizzo di abiti di colore rosso, simboli per il riconoscimento dell’adesione al sodalizio.
Il ricorso nell’interesse di NOME COGNOME è complessivamente infondato e va rigettato.
2.1 Va premesso che l’imputato lamenta violazione di legge processuale, in relazione all’art. 192 cod. proc. pen.
A riguardo va ricordato come sia non consentito il motivo con cui si deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l’omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all’ammissibilità del doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, Sentenza n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027).
2.2 Viene anche dedotto il travisamento della prova quanto alla difformità fra la narrazione del collaboratore e quanto riferito dal teste di polizia giudiziaria COGNOME in ordine alla riunione del 20 settembre 2018 in INDIRIZZO in Catania.
Anche in questo caso la doglianza è reiterativa di quella di appello e trova già risposta nella motivazione ora impugnata: la Corte territoriale rileva senza incongruità come dalle dichiarazioni di COGNOME e dalle intercettazioni operate emergesse che gli indumenti rossi e neri indossati, i canti e l’aggiunta agli stessi dei nomi dei nuovi affiliati, con la richiesta di entrare nel sodalizio, risultasser coincidere con la narrazione del collaborante, avendo l’attuale ricorrente proprio il compito di aggiungere nel testo del canto il nome dei nuovi affiliati, durante il relativo rito.
In vero, per come formulata, la doglianza risulta non consentita. Difatti, a pena di specificità spetta al deducente il travisamento non limitarsi a evidenziare la difformità, dovendo invece, in relazione ai contenuti diversi da quelli emergenti dalle sentenze di merito, allegare la loro integrale trascrizione, così da rendere il motivo specifico con riferimento alle relative doglianze, in base al combinato disposto degli artt. 581, comma primo, lett. c), e 591 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, COGNOME, Rv. 270071; Sez. 4, Sentenza n. 46979 del 10/11/2015, COGNOME, Rv. 265053; Sez. 3, Sentenza n. 43322 del 02/07/2014, COGNOME, Rv. 260994 Sez. 2, Sentenza n. 26725 del 01/03/2013, COGNOME, Rv. 256723).
Diversamente ai motivi aggiunti e alla memoria difensiva sono stati allegati solo stralci delle deposizioni, che evidentemente rendono non consentita la verifica sollecitata sotto forma di travisamento: infatti, qualora la prova omessa o travisata abbia natura dichiarativa, il ricorrente ha l’onere di riportarne integralmente il contenuto, non limitandosi ad estrapolarne alcuni brani ovvero a sintetizzarne il contenuto, giacchè così facendo viene impedito al giudice di legittimità di apprezzare compiutamente il significato probatorio delle dichiarazioni e, quindi, di valutare l’effettiva portata del vizio dedotto (ex multis Sez. 4 n. 37982 del 26 giugno 2008, COGNOME, rv 241023; Sez. 3, n. 19957/17 del 21 settembre 2016, COGNOME, Rv. 269801).
Nel caso in esame, dunque, a fronte di una doppia conforme, la doglianza risulta aspecifica.
2.3 Altra censura viene rivolta alla circostanza che l’imputato si recasse a Napoli per rifornirsi di tramadol da rivendere nel catanese. La prova viene tratta da parte dei collegi di merito dalle conversazioni telefoniche intercettate, anche fra l’imputato e il collaboratore di giustizia, già capo del sodalizio, a riscontro dell dichiarazioni di quest’ultimo.
L’argomento difensivo che lo stupefacente non fu rinvenuto, che tenderebbe a dimostrare una errata interpretazione delle conversazioni criptiche, risulta non consentito per due ragioni.
In primo luogo, in quanto in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità. (Sez. U, Sentenza n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715); l’apprezzamento del contenuto delle conversazioni non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 2, Sentenza n. 50701 del 04/10/2016, COGNOME, Rv. 268389). E’ possibile prospettare un’interpretazione del significato di
un’intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza di travisamento della prova, ossia nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale e la difformità risulti decisiva ed incontestabile (Sez. 3, n. 6722 del 21/11/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272558 – 01; Sez. 5, n. 7465 del 28/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259516 – 01; Sez. 2, 17 ottobre 2007, n. 38915, COGNOME, rv 237994). Ma anche in questo caso la doglianza è assolutamente generica e non vengono allegate o trascritte le conversazioni che si ritengono travisate, cosicché il motivo sul punto resta generico.
Quanto all’esito della perquisizione negativa, anche in questo caso si vede in tema di doglianza aspecifica, in quanto la Corte di appello, facendo propria la sentenza di primo grado, di fatto sposa anche l’interpretazione della conversazione prog. 1970 e 2022 – riportate al fol. 37 della sentenza di primo grado – dalle quali emerge che l’imputato fu aiutato a eludere il controllo degli investigatori, cosicché il dato che non fu sequestrato stupefacente risulta altrimenti spiegato e non assume carattere di decisività, come invece prospettato in ottica difensiva. Con tale argomento non si confronta la doglianza formulata con il ricorso.
2.4 Quanto agli elementi comprovati il ‘prendere parte’ dell’imputato al sodalizio mafioso, va premesso che le due sentenze di merito integrano la cd. doppia conforme, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, in quanto la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595 – 01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 12/04/2012, COGNOME, Rv. 252615 – 01). Pertanto, il giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile. (Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997 – dep. 05/12/1997, COGNOME, Rv. 209145).
E bene, il ruolo dell’imputato emergente dalla sentenza impugnata – sia per il ruolo assunto nel rito di affiliazione dei nuovi adepti, sia anche nell’acquisizione di stupefacente e nella rivendita dello stesso, come pure per la vicinanza al capo del sodalizio, attestata dalle conversazioni pure indicate, che riscontra l’accusa di essere il ‘braccio destro’ del capo (fol. 38 della sentenza di primo grado) – in uno alla motivazione dedicata al ricorrente proprio dalla prima sentenza, integrano la
sussistenza di elementi non manifestamente illogici attestanti il ‘prendere parte’ all’associazione mafiosa.
A riguardo, sia il commercio di stupefacenti, sia anche il ruolo nella fase della affiliazione – che si svolge con una pratica non diversa dalla cd. pungiuta propria di ‘cosa nostra’ – in una organizzazione quale è la mafia nigeriana di tipo cultuale, che dunque annette un ruolo centrale alla fase dell’ingresso formale, oggetto di una ampia e non contestata disanima ai foll. 23 e ss. della sentenza del Tribunale di Catania, evidenzia la centralità del contributo dell’imputato, la sua messa a disposizione, la sua affidabilità, rispetto all’organizzazione criminale di stampo mafioso.
A ben vedere, Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, COGNOME, Rv. 281889 – 02 hanno chiarito come in tema di associazioni di tipo mafioso, l’affiliazione rituale può costituire grave indizio della condotta partecipativa, ove la stessa risulti, sulla base di consolidate e comprovate massime d’esperienza e degli elementi di contesto che ne evidenzino serietà ed effettività, espressione di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione. Nel caso in esame il ruolo dell’imputato, di collaboratore al culto nella fase di affiliazione di nuovi adepti, risulta in modo non manifestamente illogico valorizzato dalle sentenze di merito come ulteriore e significativo contributo all’esistenza della associazione di stampo mafioso, oltre he nella consumazione di delitti fine afferenti agli stupefacenti.
In tal senso la sentenza impugnata fa buon governo del principio per cui in tema di associazione di tipo mafioso, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno “status” di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231670 – 01). Come noto in motivazione la Corte ha osservato che la partecipazione può essere desunta da indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi la appartenenza nel senso indicato, purché si tratti di indizi gravi e precisi – tra i quali, esemplificando i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, e però significativi “facta concludentia” -, idon senza alcun automatismo probatorio a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione.
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Quanto alle doglianze – infondate – relative alla attendibilità del collaboratore di giustizia, risultando le stesse sovrapponibili alle censure di altro ricorrente, saranno trattate a seguire al par. 3.2. e s., come anche in relazione ad altri profili di sussistenza del sodalizio mafioso.
2.4 II ricorso pertanto è complessivamente infondato.
Anche il ricorso nell’interesse di NOME COGNOME è complessivamente infondato e va rigettato.
3.1 Quanto alla doglianza che lamenta l’erroneità della valutazione di sussistenza fondata sul giudicato interno, tale censura risulta non decisiva a fronte dell’insieme degli elementi probatori richiamati (cfr. par. 1).
In sostanza, la doglianza in sé difetta di decisività, in quanto, ai fini dell’osservanza del principio di specificità, in relazione alla prospettazione di vizi di motivazione e di travisamento dei fatti, è necessario che il motivo di ricorso contenga la compiuta rappresentazione e dimostrazione di un’evidenza pretermessa o infedelmente rappresentata dal giudicante – di per sé dotata di univoca, oggettiva ed immediata valenza esplicativa, in quanto in grado di disarticolare il costrutto argomentativo del provvedimento impugnato per l’intrinseca incompatibilità degli enunciati (Sez.1, n. 54281 del 05/07/2017, COGNOME, Rv. 272492 – 01).
Il che nel caso in esame non si verifica.
3.2 Anche la doglianza, relativa alla inattendibilità del collaboratore di giustizia, è aspecifica. Difatti, non si rinviene alcuna omissione della Corte territoriale nella valutazione di attendibilità del dichiarante NOMECOGNOME in particolare rispetto alla falsità delle dichiarazioni rese in sede di procedimento amministrativo per ottenere la protezione internazionale: la motivazione della Corte territoriale esiste (fol. 20), è assolutamente congrua e non manifestamente illogica, facendosi riferimento a quanto affermato in relazione all’appellante COGNOME al fol. 15.
Difatti, oltre a fare proprie le valutazioni indicate dalla sentenza di primo grado – foll. da 5 a 9- la Corte di appello rileva come le dichiarazioni false rese in sede di procedimento amministrativo non siano sufficienti a minare la credibilità del dichiarante, essendo limitate ad un diverso contesto e funzionali a ottenere la protezione internazionale per evitare il rimpatrio.
Tale motivazione, di conferma di quella già resa dal Tribunale (cfr. foll. 8 e 9) è congrua e non manifestamente illogica, tanto più che la Corte territoriale evidenzia come il dichiarante abbia ammesso di aver dichiarato tali falsità, a riprova della sua attendibilità, elemento con il quale non si confronta il motivo di ricorso.
3.3. Quanto al difetto di prova del metodo mafioso, la Corte di appello affronta il tema in parte generale, del quale si è dato conto al par. 1.
Non di meno la sentenza di primo grado ai fol. 16 e ss. e in particolare dal fol. 20 affronta il tema delle mafie straniere, correttamente rilevando come la modifica apportata al comma settimo dell’art. 416-bis cod. pen. , estenda anche alle mafie straniere la possibilità di sussunzione nella fattispecie incriminatrice in presenza del valersi della forza di intimidazione.
Sul punto la valutazione dei Collegi di merito risulta assolutamente in sintonia con i principi consolidati e univoci della giurisprudenza di legittimità.
Difatti per le mafie straniere, quanto alla prova del reato, è necessario che sia dimostrata l’esistenza di una forza di intimidazione accumulata attraverso la consumazione di delitti a base violenta idonei ad ingenerare timore, ma tali azioni violente non devono essere necessariamente contestuali alle condotte di partecipazione, potendo preesistere alle stesse; né è necessario che il singolo partecipe abbia posto in essere direttamente le azioni che hanno contribuito a consolidare il capitale criminale del sodalizio. Inoltre, si è chiarito, proprio co riferimento a una articolazione locale “RAGIONE_SOCIALE” della «mafia nigeriana » “Eiye”, che, per le mafie a base etnica, come è quella in esame, la forza di intimidazione del gruppo non deve essere necessariamente diretta all’assoggettamento della popolazione di un territorio, ma può anche essere funzionale al controllo ed alla sottomissione di un gruppo di persone ristretto in quanto facente capo ad una medesima comunità (Sez. 2, n. 14225 del 13/01/2021, Johnson, Rv. 281126 01). Nello stesso senso è stato anche affermato – Sez. 6, n. 37081 del 19/11/2020, Anslem, Rv. 280552 – 01 – che il reato di associazione di tipo mafioso è configurabile con riferimento a sodalizi criminosi a matrice straniera che, pur non avendo l’indiscriminato controllo del territorio sul quale operano, siano in grado di esercitare la forza di intimidazione nei confronti degli appartenenti ad una comunità etnica ivi insediata, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi e della forza di intimidazione che promana dal vincolo associativo, a nulla rilevando che la percezione di tale potere criminale non sia generalizzata nel territorio di riferimento: in sostanza la Corte ha ritenuto che la mancanza di attitudine del sodalizio ad estendere la sua capacità di intimidazione nella comunità nazionale e l’acquisizione di un potere impositivo sulla sola comunità nigeriana non escludessero il connotato della “mafiosità”. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Di questi principi fanno buon governo le sentenze di merito, riferendosi quella di primo grado alle tre testimonianze di stranieri che, rifiutandosi di aderire al sodalizio nel Ca.r.a. di Mineo, ebbero a subire ritorsioni, descrivendo costoro anche le tipologie di reati fine del gruppo mafioso (violenze, furti, estorsioni, spaccio di stupefacente); inoltre, altre testimonianze dei testimoni resisi irreperibili, dunque
acquisite ex art. 512 cod. proc. pen., confermavano tali emergenze di ‘mafiosità straniera’, essendo stati, anche costoro, costretti a lasciare il C.a.r.a. per evitare ritorsioni; nonché le dichiarazioni di NOME COGNOME e NOME COGNOME quest’ultima sentita dal G.i.p. in sede di incidente probatorio, vittime di ritorsioni punitive dissuase dal denunciare in relazione agli abusi subiti.
Le sentenze di merito, in particolare in modo diffuso quella di primo grado dal fol. 27 in avanti, ritengono comprovati gli elementi essenziali del delitto associativo mafioso, facendo riferimento anche alla cassa comune, all’esistenza di una organizzazione strutturata in ruoli, stabile, funzionale alla commissione di delitti fine, che intimidiva anche coloro che si rifiutavano di trasportare droga (così Badimele al fol. 27 della sentenza di primo grado).
La Corte territoriale, inoltre, evidenzia come gli scontri all’interno del C.a.r.a. siano sintomatici dell’esistenza di due gruppi in contrapposizione, essendo i Viking in contrasto con l’altra organizzazione mafiosa nigeriana.
Inoltre, la prova della assenza di intimidazione, tratta dalla conversazione prog. 236 solo trascritta per brani – il che rende comunque non consentita la doglianza – non si confronta con la motivazione di primo grado che invece riferisce, come già indicato, delle ritorsioni contro chi non si affiliava e contro ch si rifiutava di trasportare la droga, cosicchè non manifestamente illogica è l’affermazione della sentenza ora impugnata allorchè evidenzia che il rifiuto della donna, coraggioso, non inficiava l’esistenza del gruppo mafioso.
Quanto alla natura non consentita della doglianza come formulata, inoltre, va richiamato il principio già citato relativo alla necessità della allegazione integrale dell’atto assunto come travisato.
A fronte di tale argomentata e corretta ricostruzione, operata dalle sentenze di merito, la doglianza sul difetto del metodo mafioso e sulla sua motivazione risulta del tutto infondata oltre che aspecifica.
3.4 Quanto al ruolo del ricorrente nell’associazione mafiosa nigeriana, la Corte di appello enumera la partecipazione agli scontri nel C.a.r.a. del 6 novembre 2018, dal lato dei Viking, confortato dalla circostanza che l’imputato era stato ferito e NOME era stato colpito dall’imputato con la bottiglia alla testa. Inoltre, l’imputat veniva accusato da COGNOME dell’averlo picchiato violentemente con NOME, insieme ad altri esponenti dei Viking, proprio per aver rifiutato il trasporto di droga, il che risultava riscontrato dal referto medico.
Inoltre, l’imputato veniva anche accusato da NOME di averlo colpito al capo per aver rifiutato l’affiliazione, il tutto riscontrato da una relazione sanitaria dal quale emergeva il probabile ricorso all’uso di una bottiglia, circostanza questa tratta dai frammenti di vetro ancora in testa alla vittima. L’imputato risultava poi
avere stretti rapporti con il capo e con NOMECOGNOME con i quali commentava gli scontri avvenuti.
A fronte di tali emergenze, per un verso va evidenziato come la doglianza che il collaboratore non abbia indicato il ruolo dell’imputato nella organizzazione è smentita dalla motivazione della sentenza di primo grado al fol. 53, dalla quale emerge che il ‘sistemare le cose’ – espressione utilizzata dal dichiarante – voglia rappresentare che l’imputato interveniva per ‘risolvere i problemi con le buone o con la violenza’, il che viene riscontrato dagli episodi richiamati dalla Corte di appello, di pestaggio in danno di estranei al sodalizio mafioso.
Pertanto, la doglianza sul ruolo di COGNOME è del tutto infondata.
Anche il vizio di motivazione, che scaturirebbe dalla circostanza che il collaboratore avrebbe riferito che l’episodio in danno di Friday era conseguente al fatto che con Oniovosa ‘non si erano capiti bene’, risulta privo di indicazione specifica dell’atto nel quale il dichiarante avrebbe utilizzato tale espressione, cosicchè la doglianza non è consentita.
Quanto alla partecipazione dell’imputato agli scontri nel C.a.r.a., dei quali l’imputato viene accusato da COGNOME il motivo sollecita una non consentita rilettura quanto alla causale degli stessi, che in doppia conforme sono stati ritenuti conseguenti non ad un mero furto, bensì al conflitto fra gruppi criminali per il predominio nel C.a.r.a., non risultando decisivo, per altro, il riferimento alle dichiarazioni del teste di polizia giudiziaria COGNOME che affermava che tali scontri avvenivano fra appartenenti ad etnie diverse e non fra gruppi criminali. Il che, in vero, non esclude, tenuto conto della sussistenza di mafie etniche, la sussistenza del sodalizio mafioso e il ‘prenderne parte’ da parte del ricorrente.
Ma anche su questo punto il riscorso è aspecifico, in quanto il vizio dedotto non è sorretto dalla allegazione delle dichiarazioni di COGNOME, il che accade anche per la proposta di interpretazione alternativa delle conversazioni – comunque non consentita in assenza di evidente illogicità, non emergente nel caso di specie, in relazione alla conversazione progr. 3702 e 3687, oltretutto non allegate, con evidente aspecificità della relativa doglianza, per i principi già enunciati.
A ben vedere, diversamente da quanto deduce il ricorrente, la sentenza impugnata, in uno a quella di primo grado, opera una valutazione complessiva delle fonti di prova, in sintonia con il noto e consolidato principio per cui il giudic di merito non può limitarsi ad una valutazione parcellizzata ed atomistica dei singoli indizi, ma deve procedere anche ad un esame globale degli stessi al fine di verificare se l’ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa essere superata (Sez. 1, n. 26455 del 26/03/2013 – dep. 18/06/2013, P.G. e COGNOME in proc. COGNOME e altro, Rv. 255677).
Quanto alla attendibilità di Friday la relativa doglianza risulta generica, comunque non consentita, in quanto inedita, non risultando riportata nel riepilogo dei motivi di appello – che si legge nella sentenza ora impugnata, ai foll. 9-11 non contestato dalla difesa.
Anche le doglianze quanto alle dichiarazioni di COGNOME e COGNOME che riconoscono l’imputato ma non lo indicano come partecipe dell’associazione, non solo scontano il reiterato difetto di specificità, ma comunque appaiono non decisive.
Il motivo è pertanto in parte infondato in parte aspecifico.
3.5 II secondo motivo è aspecifico e manifestamente infondato.
A ben vedere, non vi è dubbio che consolidato sia l’orientamento, condiviso da questa Corte, per cui in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso la circostanza aggravante della disponibilità di armi, prevista dall’art. 416-bis, comma quarto, cod. pen., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa, per l’accertamento della quale assume rilievo anche il fatto notorio della stabile detenzione di tali strumenti di offesa da parte del sodalizio mafioso (Sez. 2, n. 50714 del 07/11/2019, COGNOME, Rv. 278010 – 01; conf. N. 44704 del 2015 Rv. 265254 – 01, N. 13008 del 1998 Rv. 211901 – 01).
A ben vedere l’intervento riformatore dell’art. 1 I. n. 19 del 1990 ha introdotto nell’art. 59, comma 2, cod. pen. il principio della imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti, escludendone l’attribuzione per responsabilità oggettiva e richiedendo un coefficiente soggettivo doloso o colposo.
Pertanto, se ben può farsi riferimento al sodalizio nel suo complesso, prescindendo dallo specifico soggetto che abbia la concreta disponibilità delle armi (Sez. 6, n. 32373 del 04/06/2019, COGNOME, Rv. 276831 – 02, in motivazione), occorre però che la conoscenza di tale disponibilità sia concreta o colpevolmente ignorata a fronte di elementi concreti.
In tal senso, si è affermato che colposa è l’ignoranza del possesso di armi da parte degli associati, per l’accertamento del quale ben può assumere rilievo il fatto notorio della detenzione di strumenti di offesa in capo ad un determinato sodalizio mafioso, a condizione che detta detenzione sia desumibile da indicatori concreti, quali fatti di sangue ascrivibili al sodalizio o risultanze di titoli giudiz intercettazioni, dichiarazioni od altre fonti, di cui il giudice deve specificamente dare conto nella motivazione del provvedimento (Sez. 1, n. 7392 del 12/09/2017, dep. 15/02/2018, COGNOME, Rv. 272403 – 01).
La Corte di appello fa buon governo del principio e al fol. 21 chiarisce che l’imputato aveva consapevolezza della disponibilità di armi bianche da parte dei Vikings, all’interno del C.a.r.a., come dimostra la partecipazione agli scontri
all’interno della struttura, avvenuti con l’utilizzo di armi, oltre che per l’uso, parte dello stesso imputato, di bottiglie per colpire.
Con tale motivazione non si confronta il motivo di ricorso.
3.4 Ne consegue la complessiva infondatezza del ricorso.
Il ricorso nell’interesse di NOME COGNOME è in parte generico e in parte infondato.
4.1 Quanto al primo motivo, a fronte delle motivazioni delle sentenze di merito va evidenziato che, per quanto in precedenza evidenziato, la prima sentenza, richiamata e fatta propria da quella di appello, fa esplicito riferimento all’esistenza di una cassa comune, oltre che all’organizzazione e alla gerarchia interna.
Sul resto, il motivo genericamente reitera doglianze sulla sussistenza dell’associazione mafiosa già proposte dagli altri ricorrenti e risultate infondate.
4.2 Quanto al secondo motivo, la Corte di appello aveva evidenziato come le doglianze in quel grado di giudizio fossero del tutto generiche a fronte della motivazione della sentenza di primo grado dal fol. 45 al fol. 51.
A ben vedere il riepilogo dei motivi di appello (fol. 8) effettivamente non riporta – e non è contestato sul punto, né è contestata la sentenza ora impugnata per aver valutato generici i motivi di appello – alcuna doglianza specifica quanto alla estraneità dell’imputato alla associazione mafiosa, se non quella relativa al ridotto periodo di adesione al sodalizio.
Pertanto, tranne che su tale punto, il motivo di ricorso è inedito, mentre sul tema della durata trova una congrua risposta al fol. 14 della sentenza impugnata, allorchè la Corte di merito chiarisce in modo condivisibile, in sintonia con l’orientamento consolidato, che ai fini della configurabilità del reato di partecipazione a un’associazione per delinquere di tipo mafioso non rileva la durata del vincolo tra il singolo e l’organizzazione, potendo ravvisarsi il reato anche in una partecipazione di breve periodo (Sez. 1, n. 5445 del 07/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278471 – 01; conf.: N. 31845 del 2011 Rv. 250771 -01, N. 18756 del 2015 Rv. 263698 – 01).
4.3 Quanto al terzo motivo lo stesso risulta inedito, in quanto con l’atto di appello la doglianza in ordine al capo 3) era limitata al trattamento sanzionatorio e non alla responsabilità penale per il delitto in tema di stupefacenti, per quanto indica la sentenza impugnata al fol. 19, non contestata sul punto, né emerge diversamente dal riepilogo dei motivi di appello, pure non contestato.
Ad ogni buon conto le doglianze sono poi versate in fatto e difettano di specificità, anche quando richiedono una nuova interpretazione delle conversazioni intercettate senza allegarne il contenuto.
Anche la doglianza quanto all’aggravante dell’art. 416 bis 1 cod. pen, risulta inedita oltre che formulata genericamente con il presente ricorso.
4.4 Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso
Alla infondatezza complessiva dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 26/11/2024