Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 37865 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 37865 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
REPUBBLICA ITALIANA
Data Udienza: 23/10/2025
In nome del Popolo RAGIONE_SOCIALE
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
Composta da
NOME COGNOME COGNOME
Presidente –
Sent. n. sez. 1599/2025
NOME COGNOME
CC – 23/10/2025
NOME BELMONTE
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME COGNOME
– Relatore –
NOME COGNOME
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a PALERMO il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 28/05/2025 del Tribunale di Palermo
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
sentite le conclusioni del Sostituto AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO, NOME COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso; sentito il difensore presente, AVV_NOTAIO, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso riportandosi anche alla memoria già depositata in cancelleria in data 16.10.2025.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza impugnata, emessa il 28.5.2025, il Tribunale di Palermo, decidendo quale giudice di appello ex art. 310 c.p.p., in accoglimento dell’impugnazione proposta dal Pubblico Ministero avverso il provvedimento con cui il G.i.p. aveva rigettato la richiesta di applicazione della misura custodiale, applicando, nei confronti di COGNOME NOME quella dell’obbligo di dimora e di presentazione alla P.g. limitatamente ai reati di cui ai capi 20 (estorsione
continuata, aggravata dal metodo mafioso e dalla finalità dell’agevolazione mafiosa) e 21 (associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti nell’ambito della raccolta illecita delle scommesse e del gioco clandestino, aggravato dall’agevolazione dell’attività di associazione mafiosa), ha applicato al predetto la custodia cautelare in carcere anche in ordine al reato di cui all’art. 416-bis, commi 1, 3 e 4, c.p., di cui al capo 2 dell’imputazione provvisoria.
2.Avverso la suindicata ordinanza, ricorre per cassazione l’indagato, tramite il difensore di fiducia, deducendo tre motivi, di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1.Col primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’individuazione di condotte dimostrative della partecipazione del ricorrente all’associazione mafiosa ed erronea applicazione dell’art. 416-bis c.p. in ordine al capo 2 dell’incolpazione provvisoria. L’ordinanza impugnata ha fatto malgoverno delle regole interpretative e degli insegnamenti giurisprudenziali in ordine all’applicazione della fattispecie di cui all’art. 416-bis e ai canoni della logica e ai principi di diritto che presiedono all’apprezzamento delle risultanze probatorie rendendo così una motivazione palesemente illogica e apparente.
Dopo aver passato in rassegna i più autorevoli e attuali insegnamenti giurisprudenziali, in particolare quelli espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte in tema di associazione di stampo mafioso, rileva come il provvedimento impugNOME abbia ritenuto sussistente, in base ad un percorso argomentativo illogico, apodittico e giuridicamente errato, i gravi indizi di colpevolezza in capo al COGNOME in ordine alla fattispecie di associazione a delinquere di stampo mafioso di cui al capo 2.
La sussistenza del fumus commissi delicti di tale partecipazione è stata ricavata, nell’ordinanza impugnata, dai seguenti elementi: conversazioni intercettate tra i coindagati che facevano riferimento a tale COGNOME; dichiarazioni del collaboratore di giustizia COGNOME; sommarie informazioni rese da COGNOME, COGNOME, COGNOME e COGNOME; dall’avere gestito la cosiddetta riffa e i cosiddetti ‘pannelli’ ed avere ricevuto da tali attività la cosiddetta retribuzione mensile. Trattasi all’evidenza di dati che non vedevano in alcun modo protagonista il COGNOME e che non sono corroborati da puntuali riscontri estrinseci di carattere individualizzante.
Innanzitutto, con riguardo a quanto riferito dal collaboratore COGNOME va rammentato come le dichiarazioni di questi siano assolutamente irrilevanti e generiche relativamente al periodo temporale contestato nel capo 2 di imputazione, rivelandosi del tutto poco credibili in ordine ai fatti relativi al COGNOME. Non hanno trovato riscontro nella parte in cui il predetto riferiva, nel corso degli interrogatori,
che a COGNOME Vecchio si occupava della riffa il COGNOME e che lo stesso era stretto collaboratore del coindagato COGNOME e riceveva il mensile, e che i proventi della cosiddetta riffa confluivano nella cassa della famiglia mafiosa di COGNOME Vecchio e che i commercianti che non partecipavano all’acquisto dei biglietti della riffa subivano ritorsioni.
Le dichiarazioni del COGNOME sono del tutto poco credibili e inattendibili in quanto non chiariscono in quale qualità ha appreso che il COGNOME si occupava della riffa dal momento che non era intraneo al consorzio criminoso. Né ha indicato le modalità con cui effettivamente i soldi della riffa confluivano nelle casse del sodalizio mafioso. Genericamente ha riferito che chi non acquistava i biglietti subiva delle ritorsioni senza però nulla dire in merito ad un ruolo dinamico e concreto del ricorrente in seno alla presunta compagine criminale circa la commissione di tali atti intimidatori. Ha riferito di commercianti cui veniva proposto l’acquisto di tali biglietti senza sapere indicarne per buona parte le generalità e il periodo temporale in cui ciò gli veniva proposto.
L’ordinanza impugnata ha quindi valorizzato le propalazioni del dichiarante senza che questi abbia riferito fatti ed episodi specifici riguardanti gli atti intimidatori, le modalità di gestione del flusso di danaro provento delle riffe, e come ha saputo che effettivamente tale flusso fosse gestito dal coindagato COGNOME, stante la sua estraneità al sodalizio criminoso in argomento. Le persone informate sui fatti, COGNOME, COGNOME, COGNOME, COGNOME hanno soltanto confermato che la proposta di acquisto dei biglietti della riffa veniva posta dal COGNOME ma non hanno confermato, a differenza del collaborante, che lo stesso una volta preso atto del rifiuto di questi di acquistare i predetti biglietti li minacciava di ritorsioni. Quanto alle dichiarazioni dell’COGNOME nella parte in cui riferiva di avere subito ritorsioni tramite la collocazione di colla nel negozio di ferramenta, trattasi di circostanza rimasta priva di un effettivo collegamento con la persona del COGNOME.
Sicché si rivela del tutto illogico e apodittico il passo argomentativo del Tribunale secondo cui ‘l’intervento del COGNOME non è stato occasionale, rivolto a un singolo esponente mafioso ma reiterato, incondizioNOME e finalizzato a incrementare le casse del sodalizio attraverso la vendita dei numeri della riffa. La partecipazione alle attività intimidatorie di imposizione attraverso le quali ‘RAGIONE_SOCIALE‘ tipicamente persegue il proprio fondamentale obiettivo di affermazione e consolidamento sul territorio forniscono grave indizio della stabile e fattiva partecipazione del COGNOME alla famiglia mafiosa di COGNOME Vecchio, al cui mantenimento lo stesso ha apportato un contributo casualmente rilevante’.
Tale impostazione è frutto di un evidente travisamento dell’indizio e dei fatti e di una scorretta applicazione dell’art. 273 del codice di rito e della fattispecie criminosa di cui all’art. 416-bis cod. pen.
Parimenti errato è l’ulteriore passaggio argomentativo secondo cui ‘è altresì emerso come COGNOME operasse sotto le direttive non soltanto del coindagato COGNOME ma anche di NOME NOME che aveva ordiNOME di levargli i ‘picciuli’ della settimana e si rapportasse anche agli altri sodali come il NOME. Significativo il fatto che il 29 giugno 2022 COGNOME abbia incontrato COGNOME NOME per la consegna del denaro, così come disposto da COGNOME NOME. Nel corso dell’incontro il ricorrente consegnava la somma di 3.000 € il COGNOME riceveva una somma di danaro quale retribuzione mensile che veniva prelevata dalle casse del sodalizio’.
Ebbene, dalla piattaforma indiziaria non si traggono elementi che riscontrino che effettivamente il ricorrente abbia ricevuta una retribuzione mensile in quanto soggetto partecipante al sodalizio criminoso, né che la somma consegnata al coindagato COGNOME fosse provento dell’attività estorsiva. Le conversazioni intercettate non suffragano la partecipazione del COGNOME alla consorteria mafiosa. Il fatto che il ricorrente abbia incontrato il COGNOME ed abbia consegNOME una somma pari ad euro 3000 non è dimostrativo della gravità indiziaria in ordine al reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso in quanto l’iter motivazionale seguito dal Tribunale non chiarisce se tali somme derivavano da attività estorsiva o, come ben possibile che sia, dall’attività dei giochi e delle scommesse illecite di cui alla contestazione mossa al capo 21.
2.2. Col secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’affermata sussistenza delle esigenze cautelari in relazione al delitto di cui all’art. 416-bis contestato al capo 2 dell’imputazione provvisoria. Il Tribunale ha ritenuto sussistente il concreto e attuale pericolo di inquinamento probatorio e di fuga e di reiterazione di gravi delitti sulla base della gravità dei fatti, della rete di relazioni criminali con personaggi di spicco della consorteria mafiosa, del livello di adesione e compenetrazione nel sodalizio.
Innanzitutto, erroneamente, è stato ritenuto il pericolo di inquinamento probatorio, non emergendo dagli atti elementi concreti attuali tali da far ritenere che l’indagato possa inquinare la genuinità della prova. Appare arduo affermare che il ricorrente possa avere la capacità concreta di cancellare o distruggere gli elementi già cristallizzati nel compendio probatorio in atti, che è costituito per lo più dagli esiti dell’attività di intercettazione tra presenti e dei servizi di osservazione e pedinamento, tali da non poter essere alterati in quanto lo stesso non ha accesso ai servers installati presso la Procura della Repubblica in cui sono conservate tutte le captazioni. Né tantomeno vi sono elementi concreti e attuali dai quali desumere
che lo stesso possa avere contatti coi soggetti passivi in quanto dal compendio indiziario si ricava che gli stessi sono già stati escussi a sommarie informazioni con conseguente impossibilità per essi di cambiare la versione di quanto già riferito salvo cadere nel reato di favoreggiamento o di falsa testimonianza.
Quanto poi al pericolo di fuga non esiste attualmente alcun elemento indiziante che possa in concreto far desumere l’allontanamento del ricorrente. Questi invero non ha posto in essere alcuna condotta che possa far desumere il pericolo concreto di un suo imminente allontanamento. Anzi vi è la prova contraria dal momento che nel periodo intercorso tra la scarcerazione e l’attualità, nel corso della pendenza del procedimento penale cautelare, in cui è stato libero, non si è mai dato alla fuga.
Quanto infine al pericolo concreto e attuale della reiterazione di gravi delitti di cui alla lettera c) dell’art. 274 c.p.p., non risulta parimenti sussistere tale esigenza ravvisata erroneamente sulla base della parimenti erronea supposta partecipazione del ricorrente alla presunta associazione di tipo mafioso attraverso un contributo significativo e idoneo, dal momento che i propositi espressi nelle captazioni intercettate sono rimasti allo stadio di meri intenzioni mai concretizzati in atti aventi penale rilevanza.
In ogni caso non adeguato risulta il ragionamento posto dal Tribunale a base della ravvisata inidoneità della misura degli arresti domiciliari col braccialetto elettronico, dal momento che l’applicazione di tale presidio non permetterebbe la reiterazione delle condotte criminose consentendo un pronto e celere intervento delle forze dell’ordine. Il Tribunale avrebbe quindi ben potuto applicare la misura degli arresti domiciliari tenuto conto del contraddittorio e precario quadro indiziario a carico del ricorrente, da cui si evince come sia del tutto marginale la sua posizione, ricavando così elementi tali da far presumere che si asterrà dal commettere ulteriori gravi delitti.
2.3. Col terzo motivo deduce violazione di legge in relazione agli articoli 125, 274, 275, 310 e 546 del codice di rito e all’art. 416-bis in ordine al capo 2 della contestazione provvisoria. Merita censura l’ordinanza impugnata anche nella parte in cui ravvisa la sussistenza della duplice presunzione di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p. in capo all’odierno ricorrente in ordine al delitto di associazione di tipo mafioso contestato al capo 2.
Invero, il Tribunale ritiene la doppia presunzione di ricorrenza di tutte le esigenze di cautela di cui all’art. 274 c.p.p., nonché di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere, da ritenersi operativa anche in relazione agli altri reati contestati, in ragione del riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.
Ebbene, si rammenta che l’art. 275, comma 3, è stato più volte oggetto di critiche circa la sua compatibilità con i principi fondamentali essendo stato più volte dichiarato parzialmente illegittimo dalla Corte costituzionale. Alla luce delle pronunce della Corte costituzionale appare evidente come la disciplina si ponga manifestamente in contrasto con la Carta costituzionale e il diritto sovranazionale in particolare con gli articoli 3, 13, 24, 27, 117, comma 1, Cost. in relazione agli articoli 2 e 5 Cedu. Le norme censurate, secondo la difesa, sono in contrasto sia con l’art. 3 per l’ingiustificata e irrazionale assoggettamento ad un regime cautelare speciale più gravoso per i soggetti indagati per determinate ipotesi di delittuosa, sia con l’art. 13 comma 1 Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale, sia infine con l’articolo 27 comma 2 in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.
A tal fine è doveroso precisare che ciò che vulnera i parametri costituzionali richiamati non è la presunzione in sé ma il suo carattere assoluto che implica una indiscriminata e totale negazione di rilevanza del principio del ‘minor sacrificio necessario’.
Le presunzioni assolute, specie quando limitano i diritti fondamentali della persona, violano il principio di uguaglianza in quanto arbitrarie ed irrazionali, atteso che non permettono di valutare l’adeguatezza della misura cautelare personale con riguardo al caso concreto, operando tale preclusione in maniera pressoché automatica. Oltre a mettere in luce le ricadute della disciplina in esame sul criterio di proporzionalità, l’applicazione del regime cautelare speciale segnala la possibile diversità del ‘significato’ di ciascuno di essi sul piano dei pericula libertatis, il che offre un’ulteriore conferma dell’insussistenza di una congrua base statistica a sostegno della presunzione censurata.
Alla luce di ciò deve affermarsi anzitutto che le due presunzioni non possono avere come giustificazione quella di placare l’allarme sociale dovuto all’intensificarsi dei reati commessi perché questa funzione non è propria della misura cautelare bensì della pena e presuppone la certezza circa la responsabilità del singolo delitto. In secondo luogo deve rilevarsi che la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere non può essere giustificata razionalmente in base alla gravità del reato, né in base all’importanza dell’interesse tutelato perché tali aspetti servono a determinare la sanzione ma non incidono direttamente sull’esistenza delle esigenze cautelari in concreto, né infine possono precludere l’applicazione di misure meno afflittive del carcere alla luce del singolo caso concreto dal momento che ben possono in concreto presentarsi delle situazioni che facciano eccezione alla regola stabilita dal legislatore.
D’altra parte, La Corte costituzionale ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che anche i condannati per reati ostativi che non abbiano collaborato con la giustizia possano accedere ai permessi premio qualora siano stati in concreto acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamento con la criminalità organizzata sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Più precisamente il giudice delle leggi ha riconosciuto che la presunzione assoluta di pericolosità sociale dei detenuti non collaboranti di cui alla norma in esame è illegittima per contrasto con gli articoli 3 e 27 e deve essere sostituita da una presunzione soltanto relativa che possa cioè essere vinta da prova contraria.
Il ricorso, proposto successivamente al 30.6.2024, è stato trattato – ai sensi dell’art. 611 come modificato dal d.lgs. del 10.10.2022 n. 150 e successive integrazioni, e dell’art. 127 c.p.p. – in presenza di richiesta, con l’intervento delle parti che hanno rassegNOME le conclusioni indicate in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.Il ricorso è, nel suo complesso, infondato.
1.1. Il primo motivo, pur presentando tratti di inammissibilità anche con riferimento alle questioni poste, che risultano già adeguatamente vagliate dal Tribunale, o, comunque, anche per implicito, risolte attraverso la compiuta ricostruzione da esso svolta, è, nel suo complesso, privo di pregio, non potendosi, in definitiva, ritenere sussistenti i vizi denunciati.
Il ricorrente, dopo aver ripercorso i principali passaggi giurisprudenziali registratisi nell’ambito della giurisprudenza di legittimità in tema di partecipazione all’associazione di stampo mafioso, facendo riferimento soprattutto a quelli espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte – a partire dalla pronuncia COGNOME fino a giungere a quella COGNOME – ha dedotto il travisamento del fatto e della prova indiziaria con riguardo agli elementi posti a base dell’affermata sussistenza, nel caso di specie, della gravità indiziaria della partecipazione del ricorrente all’associazione mafiosa di cui al capo 2 dell’imputazione (che vede coinvolti, tra gli altri, quali coindagati, correi, COGNOME NOME, COGNOME NOME cl. DATA_NASCITA73, COGNOME NOME COGNOME NOME). Ritiene, in buona sostanza, il ricorso che gli elementi raccolti siano stati fraintesi ed erroneamente valorizzati ai fini della ravvisata partecipazione perché da essi non si trarrebbero quei caratteri che la
giurisprudenza di legittimità richiede ai fini della configurazione del reato di partecipazione ad associazione mafiosa.
1.2. Ebbene, risultando il motivo in scrutinio imperniato sul vizio del travisamento probatorio – attraverso cui si tende a far emergere la violazione di legge, in riferimento, in particolare, all’art. 416-bis c.p. – in cui sarebbe incorso il Tribunale, occorre premettere RAGIONE_SOCIALE debba intendersi per tale vizio e quali sono i limiti entro cui esso può essere dedotto nella presente sede di legittimità.
È invero pacifico che in tema di motivi di ricorso per cassazione, il cd. vizio di “contraddittorietà processuale” (o “travisamento della prova”) vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l’eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova (Sez. 5, Sent. n. 26455 del 09/06/2022, COGNOME, Rv. 283370 – 01).
Il vizio di motivazione, a sua volta, deve presentare il carattere della essenzialità, nel senso che la parte deducente deve dare conto delle conseguenze del vizio denunciato rispetto alla complessiva tenuta logico-argomentativa della decisione. Infatti, sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, Rv. 262965).
E quanto alle contestazioni in ordine ai contenuti delle intercettazioni, non si può prescindere – neppure – dal fatto che anche rispetto all’applicazione e conferma delle misure cautelari vige il principio, affermato da questa Corte, secondo cui il vaglio di legittimità relativo alle intercettazioni può essere svolto solo nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui le intercettazioni stesse sono recepite, in quanto l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di questa Corte (cfr. Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715 – 01).
Più in AVV_NOTAIO è preclusa a questa Corte l’interpretazione del contenuto delle conversazioni intercettate.
1.3. Ebbene, ad avviso di questo Collegio, il ricorrente nell’illustrazione delle ragioni di critica non ha rispettato tali limiti. Egli, invero, pur sussumendo le argomentazioni sotto lo schema della violazione di legge e del vizio di motivazione ha articolato una critica, non consentita, al contenuto della prova, rectius della gravità indiziaria, finendo per tal via col sindacare direttamente il fatto sia pure in rapporto alla fattispecie del reato associativo.
I profili introdotti dal ricorrente mirano innanzitutto ad evidenziare non condivise valutazioni degli elementi di prova, piuttosto che ad evidenziare effettivi errori logici nella motivazione del giudice nella valutazione degli stessi, introducendo in tal modo una critica ai contenuti e quindi al merito della decisione. Essi introducono, quindi, in sede di legittimità, una richiesta di rilettura delle risultanze probatorie, finendo per altro verso col mettere in discussione la stessa configurazione dell’associazione, laddove il RAGIONE_SOCIALE si era limitato a rilevare la mancanza di elementi unicamente riguardo alla partecipazione del ricorrente.
1.4. Ne è prova il fatto che l’argomento centrale della critica riguarda la valutazione delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia COGNOME delle quali, il ricorso, denuncia la mancanza di credibilità e di riscontri. A tal fine si assume, tra le righe, ma neppure troppo velatamente, che il collaboratore non sarebbe neppure intraneo al sodalizio, e si argomenta che le dichiarazioni dal medesimo rese sono comunque de relato , generiche e prive di riscontri.
Quanto al primo aspetto, è bene sottolineare, che le dichiarazioni “de relato” sono liberamente valutabili, ove non venga in rilievo alcuna delle ipotesi di inutilizzabilità tassativamente previste dall’art. 195, commi 3 e 7, cod. proc. pen.
Rispetto al caso di specie, vertendosi in sede cautelare, non v’è dubbio che l’indizio deve ritenersi sufficiente a suffragare un assunto probatorio anche per la impossibilità di applicare il meccanismo rafforzativo di cui all’art. 195, commi 1 e 3, c.p.p.
A ciò deve aggiungersi che l’assunto che le dichiarazioni del COGNOME siano de relato non è, come ben evidenzia il AVV_NOTAIO nella memoria in atti, del tutto esatto. Il collaboratore, infatti, ha precisato di aver anche operato con ‘COGNOME‘ (che, attraverso un riconoscimento fotografico ha, con certezza, individuato nell’odierno ricorrente, di cui ha rammentato anche le generalità).
Quanto, poi, all’attendibilità del collaboratore, il Tribunale, in via preliminare, ha dato atto che essa è stata già positivamente vagliata dal primo giudice. Si è poi soffermato sul contenuto delle dichiarazioni del collaboratore, e nel dare conto degli elementi che depongono per la configurazione del ruolo operativo-partecipativo del ricorrente, non ha mancato di indicare gli specifici riscontri emersi al riguardo,
costituiti soprattutto dagli esiti delle intercettazioni (puntualmente passati in rassegna nel provvedimento impugNOME alle pagine 6-9).
Ha, in particolare, posto in evidenza il Tribunale che il COGNOME, nel corso dei suoi interrogatori, ha ampiamente fatto riferimento a COGNOME NOME, sottoposto con la medesima ordinanza impugnata a custodia cautelare in carcere in quanto gravemente indiziato, tra gli altri, del reato di cui all’art. 416-bis c.p., braccio destro del reggente del mandamento COGNOME, attribuendogli un ruolo di spicco all’interno di ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e descrivendone il coinvolgimento nell’attività criminale/mafiosa del gioco e scommesse. Particolarmente significativa, a riscontro della credibilità del narrato, sono state ritenute le reazioni registrate nell’ambito delle conversazioni oggetto di captazione di COGNOME NOME e COGNOME NOME, parimenti gravemente indiziato del reato di cui all’articolo 416-bis e attinto dalla misura della custodia cautelare in carcere, alla notizia della collaborazione del COGNOME. COGNOME NOME secondo quanto si riporta nel provvedimento impugNOME, ancora ignaro del contenuto della collaborazione, si sfogava con NOME dicendosi sicuro del fatto che il COGNOME lo avrebbe accusato di gestire, precisamente ‘comandare’ per conto del sodalizio mafioso il settore del gioco e scommesse; per tale motivo era certo di essere ormai monitorato dalle forze dell’ordine.
COGNOME NOME – prosegue il Tribunale – ha poi descritto il ruolo rivestito dall’odierno indagato, COGNOME NOME, indicandolo come stretto collaboratore del COGNOME, di cui quest’ultimo si avvaleva sia per la cosiddetta riffa sia per la gestione dei ‘pannelli’, ossia dei siti di raccolta scommesse online. Il COGNOME aveva altresì precisato che il COGNOME ‘fa parte della famiglia del COGNOME, e si si occupa con NOME sia dei numeri della riffa (che è come un’estorsione), sia di prendere soldi nelle agenzie (quelli dei pannelli).
COGNOME ha anche precisato che NOME, identificandolo nel COGNOME, era tra i soggetti che ricevevano il mensile, precisando che a quest’ultimo qualche volta il mensile non è stato dato e che il denaro per il pagamento del mensile veniva prelevato dalla cassa della famiglia di COGNOME Vecchio in cui confluivano anche i proventi della riffa, che venivano consegnati a COGNOME COGNOME; ha altresì precisato il collaboratore, sempre secondo quanto si riporta nel provvedimento impugNOME, che l’imposizione dell’acquisto dei biglietti della riffa si affiancava all’attività estorsiva, settore nell’ambito del quale il COGNOME ha dichiarato di aver operato proprio insieme al COGNOME, in tal mondo dando conto del suo diretto coinvolgimento.
Il Tribunale ha dato altresì atto delle dichiarazioni del collaboratore in punto di descrizione del sistema di gioco della riffa spiegando come l’acquisto dei biglietti
venisse imposto dal sodalizio, e aggiungendo che il rifiuto da parte dei commercianti dava luogo a ritorsioni.
Ha poi rilevato che il dinamismo criminale del ricorrente, oltre a trovare positivo riscontro nel contenuto delle intercettazioni passate in rassegna, risulta corroborato dalle dichiarazioni rese dagli stessi commercianti escussi a sommarie informazioni, alcuni dei quali hanno espressamente riconosciuto nel COGNOME il giovane che ‘proponeva’, con toni impositivi, l’acquisto dei biglietti (oramai da circa due anni), precisando che al loro rifiuto erano conseguiti atti di ritorsione.
Indi, il Tribunale, sulla base della pluralità degli elementi indicati, dei quali solo alcuni di essi si sono qui riportati, ha concluso per il carattere seriale, dinamico e qualificato del ruolo del COGNOME, idoneo quindi a delineare il pieno e perdurante coinvolgimento associativo dello stesso nell’ambito della famiglia mafiosa di COGNOME Vecchio, articolazione del mandamento mafioso di Porta Nuova (occupandosi sia della riffa che della gestione dei ‘pannelli’, in sinergia e sotto la direzione di altri sodali).
D’altronde, questa Corte ha avuto modo più volte di affermare che in tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, qualora una chiamata in correità riguardi la condotta di partecipazione al sodalizio o di direzione dello stesso, un riscontro esterno individualizzante – idoneo, ai sensi dell’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. a conferire alla chiamata valore di prova -, è costituito dalla partecipazione del singolo chiamato alla consumazione dei delitti fine dell’associazione, atteso che, attraverso tale condotta, si manifesta il ruolo effettivo e dinamico del singolo nel gruppo criminale, e, quindi, la sua adesione ad esso (tra tante, Sez. 2, Sentenza n. 18940 del 14/03/2017, Rv. 269658 – 01).
E’ altresì pacifico che in tema di associazione di stampo mafioso, la realizzazione, al servizio dell’organizzazione, di attività delittuose, anche di bassa manovalanza, -ma pur sempre necessarie per il perseguimento dei fini dell’organizzazione – rappresenta univoco sintomo – indipendentemente dalla prova di una formale iniziazione – di inserimento strutturale nel sodalizio e, quindi, di vera e propria partecipazione, seppur ad un livello minimale, all’associazione, mentre, invece, la “legalizzazione” e la conseguente qualifica di “uomo d’onore” costituisce uno stadio più evoluto nella progressione carrieristica del mafioso nell’organigramma piramidale criminoso.
L’accertamento dell’intraneità al sodalizio criminoso prescinde dal formale inquadramento secondo le regole proprie del codice mafioso e comunque da valutazioni di tipo criminologico o antropologico, dovendo avere per oggetto unicamente il fatto tipico delineato dalla norma incriminatrice. Come si evince dalla stessa pronuncia, Sez. U, Sentenza n. 36958 del 27/05/2021, COGNOME, Rv.
nel caso di specie dal ricorrente alla luce dei rapporti di stretta vicinanza intessuti con soggetti di spicco della consorteria.
1.6. Il terzo motivo, con cui si avanzano dubbi sulla legittimità del citato art. 275, comma 3, c.p.p., è inammissibile alla stregua di quanto detto, non essendosi il Tribunale limitato a valutare le esigenze cautelari alla stregua della doppia presunzione di cui alla disposizione tacciata di incostituzionalità.
In ogni caso, deve ricordarsi che la Corte costituzionale ha già avuto modo di pronunciarsi su tale questione, giudicandola manifestamente infondata.
La presunzione in argomento trova ragion d’essere, come ha precisato la Corte Costituzionale nel sancirne più volte la ragionevolezza nelle sue pronunce che hanno affrontato il tema, proprio nella particolarità della natura permanente dell’associazione di stampo mafioso, che, a differenza dell’associazione in genere, si connota per <>, ossia per la sua tendenziale, connaturale, stabilità, per le peculiari caratteristiche che contraddistinguono il contesto associativo di tipo mafioso, il quale per la forza di intimidazione e le condizioni di assoggettamento e di omertà che esprime, fa ritenere le misure cautelari minori insufficienti a troncare i rapporti tra indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza in modo da neutralizzarne la pericolosità (cfr. la sentenza n. 191 del 2020, nonché l’ordinanza n. 136 del 2017, con cui la Corte Costituzionale, nel dichiarare manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale che erano stati sollevati sulla presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere confermata dalla legge n. 47 del 2015 in relazione alla fattispecie di partecipazione all’associazione mafiosa, ha ribadito il concetto di stabile inserimento nell’associazione di tipo mafioso, il quale, per le caratteristiche del vincolo, capace di permanere inalterato nonostante le vicende personali dell’associato e di mantenerne viva la pericolosità, fa ritenere che questa non sia adeguatamente fronteggiabile con misure cautelari “minori” – § 2.8).
1.7. Sicché il ricorso è, come detto, nel suo complesso infondato, avendo, in definitiva, addotto vizi insussistenti.
Dalle ragioni sin qui esposte deriva il rigetto del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento.
Seguono, per la Cancelleria, gli adempimenti di cui all’art. 28 Reg. Esec. Cod. Proc. Pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28 Reg. Esec. Cod. Proc. Pen.
Così deciso il 23/10/2025.
Il Consigliere estensore
COGNOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME