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Associazione mafiosa: ‘ndrangheta e prova del vincolo

La Corte di Cassazione ha confermato un’ordinanza di custodia cautelare per un soggetto accusato di essere promotore di un clan della ‘ndrangheta. La sentenza ribadisce che per un’associazione mafiosa storica, la forza di intimidazione è presunta e non necessita di prove specifiche per ogni nuovo caso. Sono state respinte le argomentazioni difensive sulla coltivazione lecita di canapa light, poiché le indagini hanno svelato un modus operandi sistematico volto a mascherare la produzione illegale di stupefacenti dietro aziende agricole di facciata.

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Pubblicato il 1 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Associazione Mafiosa: La Cassazione sui Criteri di Prova per la ‘Ndrangheta

La recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Penale, fornisce chiarimenti cruciali sulla configurabilità del reato di associazione mafiosa e sulle prove necessarie per dimostrarne l’esistenza, specialmente quando si tratta di organizzazioni storiche e radicate come la ‘ndrangheta. Il caso analizzato riguarda un ricorso contro un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per un soggetto accusato di essere promotore e organizzatore di un clan, nonché di una connessa associazione dedita al narcotraffico.

I Fatti del Caso e le Doglianze del Ricorrente

All’imputato veniva contestato un ruolo apicale all’interno di un’articolazione ‘ndranghetistica attiva nel territorio lametino, legata sia a un’omonima famiglia operante nel vibonese, sia ai vertici di un’altra potente cosca. La difesa ha presentato ricorso in Cassazione lamentando un vizio di motivazione su due fronti principali.

In primo luogo, si contestava l’effettiva esistenza dell’associazione mafiosa, sostenendo che i riferimenti a precedenti sentenze non fossero sufficienti a dimostrare la sussistenza attuale del vincolo. La difesa ha argomentato che, per configurare il reato previsto dall’art. 416-bis c.p., fosse necessario provare una concreta e attuale capacità di intimidazione e un effettivo assoggettamento omertoso della popolazione, elementi che, a suo dire, mancavano nel caso di specie.

In secondo luogo, veniva contestata la sussistenza di gravi indizi per i reati legati al narcotraffico. L’indagato, titolare di un’azienda agricola, sosteneva di coltivare esclusivamente canapa “light”, nel pieno rispetto della normativa (legge 242/2016), producendo documentazione a supporto e richiamando una precedente assoluzione per un’ipotesi di reato analoga, invocando il principio del bis in idem.

La Decisione della Corte: La Prova dell’Associazione Mafiosa Storica

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato in ogni sua parte. La motivazione della Corte è di particolare interesse per la distinzione operata tra mafie storiche e consorterie criminali di nuova costituzione. I giudici hanno stabilito che, nel caso di mafie storiche come la ‘ndrangheta, la cui forza di intimidazione è un fatto notorio e consolidato, non è necessario un accertamento specifico e caso per caso della capacità di assoggettamento del territorio. Questo potere è intrinseco al vincolo associativo stesso e deriva dalla storia criminale dell’organizzazione.

Il Collegio ha valorizzato le risultanze investigative e le statuizioni di altri importanti procedimenti penali che avevano già delineato l’esistenza, l’operatività e la storia della famiglia in questione, inclusi i legami con altre articolazioni territoriali e i rapporti con i vertici della ‘ndrangheta.

Il Modus Operandi nel Narcotraffico

Anche la seconda doglianza è stata respinta. La Corte ha ritenuto che la motivazione del Tribunale del riesame fosse puntuale nel descrivere un collaudato modus operandi finalizzato alla produzione di ingenti quantitativi di stupefacenti. Le indagini, basate su intercettazioni, GPS e sequestri, hanno dimostrato che l’organizzazione creava aziende agricole ad hoc, intestate a prestanome, con l’oggetto sociale lecito della coltivazione di canapa sativa. Queste aziende servivano da copertura per mascherare la reale attività: la coltivazione di cannabis indica per la produzione di marijuana. È stata evidenziata la complicità di un membro delle forze dell’ordine che garantiva l’assenza di controlli e la copertura documentale in cambio di denaro. Un’intercettazione in cui l’indagato discuteva di trovare un prestanome per intestargli la ditta dietro compenso è stata considerata un elemento chiave a sostegno dell’accusa.

Le Motivazioni

La Suprema Corte ha quindi concluso che la motivazione dell’ordinanza impugnata fosse logica e coerente. Per l’associazione mafiosa, la storicità del clan rendeva superfluo dimostrare nuovamente la sua capacità intimidatoria, essendo questa un elemento costitutivo e presunto. Per il narcotraffico, le prove raccolte (intercettazioni, sequestri, il coinvolgimento di un pubblico ufficiale e l’uso di prestanome) erano più che sufficienti a configurare i gravi indizi di colpevolezza e a superare la tesi difensiva della coltivazione di canapa “light”. La Corte ha sottolineato come la creazione di una struttura aziendale di facciata fosse proprio la prova della volontà di delinquere, escludendo l’ipotesi di una coltivazione lecita.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un principio fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata: per le mafie storiche, il requisito della forza intimidatrice è presunto, semplificando l’onere probatorio dell’accusa. Inoltre, evidenzia come la criminalità organizzata si adatti, utilizzando strumenti apparentemente legali, come le aziende agricole per la canapa light, per mascherare attività illecite su larga scala. La decisione conferma che un’analisi attenta del modus operandi e delle prove raccolte può smascherare questi schemi, distinguendo nettamente tra attività imprenditoriale lecita e copertura per il narcotraffico.

Per provare l’esistenza di un’associazione mafiosa storica come la ‘ndrangheta è necessario dimostrare specifici e attuali atti di intimidazione?
No. Secondo la Corte di Cassazione, per le mafie storiche la forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e la condizione di assoggettamento che ne deriva sono elementi presunti. Non è richiesto uno specifico accertamento di tali elementi caso per caso, a differenza di quanto avviene per le consorterie criminali di nuova costituzione.

Come ha distinto la Corte la coltivazione lecita di “canapa light” da quella illecita nel caso specifico?
La Corte ha ritenuto che il modus operandi dell’associazione fosse la prova decisiva. La creazione di aziende agricole di facciata, intestate a prestanome, con la complicità di un pubblico ufficiale per evitare controlli, e le intercettazioni in cui si discuteva di queste operazioni, hanno dimostrato che l’attività lecita era solo una copertura per la coltivazione su larga scala di cannabis indica a scopo di spaccio.

Una precedente assoluzione per un reato simile impedisce una nuova misura cautelare basata su nuove prove?
No. La sentenza chiarisce che il principio del bis in idem non è violato se la nuova misura si basa su prove nuove e diverse, come le intercettazioni emerse successivamente al primo procedimento. Il giudice può riesaminare la posizione di un soggetto alla luce di un quadro probatorio nuovo e più ampio.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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