Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 30113 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 30113 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 03/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nato a Rosarno il 23/07/1959
COGNOME NOME nato a Gioia Tauro il 08/02/1990
COGNOME NOME nata a Oliveto Citra il 03/08/1977
NOME Domenico nato a Policoro il 23/12/1989
avverso la sentenza del 17/04/2024 della Corte di appello di Reggio Calabria visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo:
-l’annullamento, con o senza rinvio, del ricorso di COGNOME;
-l’inammissibilità del ricorso di Marino;
-il rigetto dei ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME NOME. Uditi gli avvocati:
–NOME COGNOME per l’Avvocatura Generale dello Stato, nell’interesse del Ministero dell’interno in persona del Ministro pro-tempore, che ha depositato conclusioni scritte e nota spese e ha chiesto la conferma della sentenza e la condanna alla
rifusione delle spese alle parti civili da parte di COGNOME NOME e COGNOME NOME;
–NOME COGNOME – difensore di fiducia di COGNOME -, NOME COGNOME – difensore di fiducia di Marino -, NOME COGNOME – difensore di fiducia di COGNOME NOME e COGNOME NOME -, i quali si sono riportati ai motivi del ricorso, chiedendone l’accoglimento;
letta l’istanza dell’avvocato NOME COGNOME di differimento della trattazione del ricorso a data successiva al 19 maggio 2025, al fine di consentire alla difesa di produrre le motivazioni della sentenza del Tribunale di Palmi in data 20/11/2024 relativa al giudizio ordinario della medesima vicenda processuale (sopravvenuto alla sentenza di appello del rito abbreviato oggetto della presente impugnazione), che ha ritenuto l’insussistenza della stessa consorteria mafiosa per la quale sono stati condannati COGNOME NOME e COGNOME NOME.
RITENUTO IN FATTO
1.Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Reggio Calabria, in parziale riforma della sentenza emessa dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Reggio Calabria in data 13 giugno 2022, all’esito di rito abbreviato, ha assolto COGNOME NOME dai reati ascrittigli ai capi 4) e 14) della rubrica perché il fat non sussiste; ha escluso l’aggravante di cui all’art. 416-bis. 1 cod. pen. contestata al capo 5) nei confronti di COGNOME NOME; ha assolto NOME dal reato ascrittogli al capo 69) perché il fatto non sussiste; ha confermato la condanna di COGNOME NOME in ordine ai reati a lui ascritti ad anni 12 di reclusione e ha rideterminato per gli altri imputati le pene come segue:
COGNOME NOME anni nove, mesi sei e giorni venti di reclusione;
COGNOME NOME anni sei, mesi cinque e giorni dieci di reclusione;
NOME anni undici e mesi quattro di reclusione;
Si contesta, segnatamente, a COGNOME NOME e COGNOME NOME di avere fatto parte dell’associazione di ‘ndrangheta nota come cosca “Pisano”, operante nel territorio di Rosarno, nella qualità di partecipi (capo 1), nonché di avere commesso molteplici violazioni della legge armi (capi 2, 3, 5) ; al solo NOME si contest anche il reato di danneggiamento (capo 9) e, al solo NOME, anche i reati di estorsione e tentata estorsione (capi 11 e 12), e di tentata importazione di sostanza stupefacente (capo 13). Con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa.
Si contesta a COGNOME e COGNOME il reato di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti (capo 29), associazione avente una diramazione in Campania, con sede logistica a Battipaglia, della quale faceva parte
COGNOME e una sede logistica a Policoro della quale faceva parte Marino. Con l’aggravate della agevolazione mafiosa.
Si contestano alla sola COGNOME i reati di cui agli artt. 378, 497-bis cod. pen. (capi 35 e 36) e 73 d.P.R. 309/90 (capo 37) e a Marino i reati di cui all’ art. 73 d.P.R. 309/90 (capi 47, 48, 61, 68).
Avverso la sentenza ricorre per cassazione COGNOME NOME deducendo i motivi di annullamento di seguito sintetizzati ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.
2.1.1. In nessuna delle vicende giudiziarie citate nella sentenza impugnata è stata accertata la esistenza di una cosca mafiosa denominata “COGNOME” operante in Rosa rno.
Il richiamo operato dal G.U.P., nella sentenza di primo grado, a una ordinanza di custodia cautelare del G.I.P. di Palmi in data 1 dicembre 1991 nel proc. pen. n. 437/90 RGNR – nella quale si afferma l’esistenza di un patto federativo tra le diverse cosche operanti in Rosarno, tra le quali anche quella dei COGNOME, per il controllo del territorio, con la contestazione del delitto di cui all’art. 416-bis co pen. a NOME, NOME, NOME e NOME COGNOME, nonché all’odierno ricorrente – è erroneo, non avendo tale accusa retto al vaglio della cognizione.
Nel processo “Tirreno” non viene fatto il minimo cenno alla cosca COGNOME quale entità criminale collettiva di tipo mafioso.
2.1.2. Un’ulteriore dimostrazione della sussistenza del sodalizio contestato viene erroneamente desunta dai molteplici episodi nei quali COGNOME NOME è contattato da altri soggetti per la soluzione di questioni criminali. Ma in tali fa COGNOME NOME opera a titolo esclusivamente individuale.
2.1.3. I Giudici territoriali sviluppano il loro ragionamento sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, che sono, però, connotate dalla assoluta mancanza di concretezza e specificità. I giudici di merito non verificano la attendibilità intrinseca dei propalanti né, quanto a Bruzzese, la attendibilità della fonte diretta.
2.1.4. La vicenda della eredità COGNOME ha, infine, scarsissima efficacia dimostrativa rispetto alla fattispecie di cui all’art. 416-bis cod. pen., stante natura del tutto personale della stessa, di esclusivo interesse di COGNOME NOME.
L’aggressione subita da COGNOME NOME ad opera di COGNOME NOME (che in passato era stato condannato per uxoricidio, avendo ucciso la sorella della moglie di COGNOME NOME) viene considerato occasione di scontro tra due consorterie, quella dei COGNOME da un lato, quella dei COGNOME, dall’altro. In realtà, dall’esame di tutte le intercettazioni utilizzate per ricostruire il fatto, emerge come la question
ereditaria abbia riguardato esclusivamente NOME NOMECOGNOME il quale, in precedenza, aveva anche convinto i Vecchio a non costituirsi parte civile nel processo penale a carico del nipote con l’accusa di uxoricidio.
Da ultimo si denuncia la illogicità della sentenza nella parte dedicata alla vicenda delle elezioni amministrative del Comune di Rosarno. Le intercettazioni ambientali dimostrano non la mancanza di un candidato comune, quanto piuttosto la contrapposizione netta tra i componenti della famiglia COGNOME in tali competizioni, indice della mancanza di unitarietà che costituisce la base di un gruppo criminale.
A soluzioni diametralmente opposte e incompatibili con la sentenza impugnata sono giunti i giudici del Tribunale penale di Palmi con la sentenza emessa in data 20 novembre 2024 (successivamente alla sentenza impugnata), nel troncone del presente procedimento celebratosi mediante il giudizio ordinario, mediante l’assoluzione di tutti gli imputati dal delitto associativo (capo 1, cosca COGNOME) con la formula “perché il fatto non sussiste”.
2.1.5. Quanto alla responsabilità del ricorrente in ordine al reato di cui al capo 1), la Corte di appello non ha fornito risposta alla denunciata inidoneità della condotta mutuata dai delitti in materia di armi ad integrare l’atto di partecipazione al delitto associativo.
2.1.6. Le contestazioni estorsive evidenziano fatti di esclusivo interesse personale di COGNOME NOME e non sono riferibili al programma di un gruppo.
2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 2 e 7 I. n. 895/67 (capo 2).
Il ragionamento probatorio ruota esclusivamente attorno alla espressione proferita da COGNOME NOME al cognato COGNOME NOME circa il fatto che aveva rischiato veti anni di carcere per “avere spostato quelle cose”. La Corte di appello di Reggio Calabria ha ritenuto arbitrariamente che COGNOME NOME si sia riferito alle armi maneggiate qualche giorno prima nel medesimo luogo da COGNOME NOME e COGNOME NOME. Contraddittoria appare, poi, la motivazione impiegata per escludere che il riferimento fosse diretto, in realtà, a sostanza stupefacente, posto che l’ipotesi di tentata importazione di droga contestata al capo 13) in concorso con COGNOME NOME è stata ricostruita probatoriamente dai contenuti di una intercettazione ambientale intercorsa lo stesso giorno tra COGNOME NOME e COGNOME NOME.
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al reato di tentata estorsione.
La Corte d’appello ha ammesso che il ricorrente si era limitato a chiedere alla persona offesa un prestito di mille euro e che quest’ultima non aveva adempiuto, adducendo difficoltà economiche. Il ricorrente non ha posto in essere alcun atto
ulteriore; in maniera del tutto presuntiva, nella sentenza impugnata, si sostiene che la natura minacciosa della formulazione della richiesta è implicitamente ricavabile dalla pregressa richiesta estorsiva alla quale la vittima era stata costretta ad aderire (quella di cui al capo 12). Tra le due vicende vi è, in realtà, una netta frattura logico-temporale e il sindacato della Corte di appello appare illogico.
2.4. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al reato di tentata importazione di sostanza stupefacente, che si ritiene integrato in quanto era stato già raggiunto l’accordo corruttivo (mediante la consegna di una somma di denaro) con gli agenti della Guardia di finanza infedeli non identificati per poter “esfiltrare dal porto di Gioia Tauro lo stupefacente. Tale segmento del fatto è accessorio e diverso dal fatto tipico contestato all’art. 73 d.P.R. 309/90, che deve costituire il termine di riferimento per verificare l’idoneità degli atti e la loro direzione commettere in modo non equivoco l’acquisto di sostanza stupefacente dal Sud America. I Giudici di appello non si sono confrontati con le deduzioni difensive che evidenziavano che l’accordo si era concluso con un nulla di fatto e che dall’estero non era stato spedito alcun carico di sostanza stupefacente. La Corte di appello non ha saputo giustificare la considerazione del ricorrente «io non sono interessato»: se COGNOME avesse finanziato l’affare, avrebbe, al contrario, avuto tutto l’interesse a chiedere notizie sulle sorti del capitale investito.
2.5. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell’aggravante della agevolazione mafiosa, che è fondata dai giudici di merito solo su supposizioni.
2.6. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine ai criteri di determinazione della pena e agli aumenti per la continuazione.
Ricorre per cassazione COGNOME NOME deducendo i motivi di annullamento di seguito sintetizzati ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del reato di cui al capo 1).
Il motivo è formulato esattamente negli stessi termini rispetto al primo motivo di COGNOME NOME, al quale, conseguentemente, si rinvia.
3.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell’aggravante della agevolazione mafiosa.
Anche in questo caso, il motivo è formulato esattamente negli stessi termini rispetto al quinto motivo di COGNOME NOME, al quale, conseguentemente, si rinvia.
Avverso la sentenza ricorre per cassazione NOME COGNOME imputato per i delitti rubricati ai capi 29), 47), 48) 61) e 68), di imputazione, deducendo i seguenti motivi.
4.1. Violazione di legge e vizio di motivazione (in realtà, è dedotta anche la violazione della lettera d) dell’art. 606 cod. proc. pen.) in relazione agli artt. 192 cod. proc. pen. e 73 d.P.R. 309/90 con riferimento al capo 47).
Le evidenze probatorie inducono a ritenere la impossibilità oggettiva dello stesso imputato a partecipare al fatto delittuoso, stante il proprio status detentivo. Sul punto la Corte reggina ritiene che «lo stato detentivo all’epoca dell’individuazione delle piantagioni da parte delle forze dell’ordine non esclude che Marino possa avere realizzato la piantagione e dato le disposizioni per gestirla allorché si trovava in libertà». In realtà, stando alle massime di esperienza, la realizzazione di una piantagione di marijuana non può essere realizzata un anno prima del raccolto, avvenuto, nel caso de quo, durante il mese di settembre del 2016.
4.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 192 cod. proc. pen. e 73 d.P.R. 309 del 1990 con riferimento al capo 48).
La Corte di appello non ha spiegato perché i soldi nella diponibilità di Pace Giuseppe, sarebbero stati allo stesso consegnati proprio dal Marino.
La sentenza dà per scontata la consegna dello stupefacente da Pace a Marino omettendo di argomentare in che modo la marijuana sia stata trasportata.
4.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 192 cod. proc. pen., 56 cod. pen. e 73 d.P.R. 309/90 con riferimento al capo 61).
Nell’atto di appello era stato evidenziato come nella conversazione intercorsa tra Pace, NOME e tale NOME, il 10 gennaio 2018, i tre non discutessero di qualità, quantità e prezzo dello stupefacente, bensì di diverse qualità di stupefacente che il predetto NOME avrebbe potuto fornire a NOME. La Corte di appello nulla ha detto sul punto.
4.4. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 192 cod. proc. pen. e 74 d.P.R. 309/90 con riferimento al capo 29).
La Corte di appello non ha individuato una concreta condotta, da parte del ricorrente, atta a dimostrare la stabilità del vincolo tra lo stesso e la contestata associazione. La difesa sottolinea: – la totale estraneità del ricorrente agli util dell’associazione; – il fatto che Marino alla data del 18 dicembre 2017 risultava soggetto sconosciuto a NOME, figlia e longa manus del NOME; – la assenza di contatti con soggetti imputati del medesimo delitto, diversi da NOME.
I contatti del ricorrente con il coimputato COGNOME, strumentali alla realizzazione di singoli illeciti, non sono di per sé sufficienti a ritenere configurato il delitto d al capo 29).
Il ruolo di “partecipe preposto al procacciamento di nuovi canali di approvvigionamento”, attribuitogli dalla Corte reggina è smentito dalla circostanza di cui al capo 48), laddove NOME viene condannato per aver acquistato lo stupefacente da NOME.
5.Avverso la sentenza ricorre per cassazione COGNOME, deducendo i motivi di annullamento di seguito sintetizzati ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
5.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla partecipazione della ricorrente al reato di cui all’art. 74 d.P.R. 309/90 con riferimento al capo 29). Riqualificazione e rideterminazione della pena nell’ipotesi di cui agli artt. 110 cod. pen. e 73 D.P.R. 309/90 con riferimento al capo 37).
Le conversazioni intercettate e poste alla base del convincimento da parte dei giudici del merito provano unicamente la partecipazione a titolo di concorso nell’attività di detenzione e spaccio, tenuto conto che è l’unico momento in cui la COGNOME ha che fare con la droga. Il fatto che la ricorrente conosca gli acquirenti destinatari della droga non denota di certo il contributo attivo previsto dalla normativa speciale in tema di stupefacenti. Dalle altre intercettazioni si desume inoltre che la COGNOME, allorché progetta di andare a recuperare i soldi provento di spaccio che il marito ha buttato a terra, non è intenzionata ad agire per il gruppo associativo, ma per un interesse strettamente personale. La Corte valorizza, poi, la condotta partecipativa della COGNOME nell’incontro avvenuto il 10 febbraio 2018 in Rosarno: dai riscontri e dal servizio di OCP si appura la mera presenza dell’imputata, null’altro è provato.
5.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine agli artt. 1, 497-bis cod. pen. e all’art. 25 Cost.
Si contesta all’imputata, al capo 36), il possesso e la fabbricazione di documenti falsi, in concorso con COGNOME NOME. La sentenza impugnata sottolinea che le risultanze processuali hanno stabilito che il documento falso trovato in possesso del latitante al momento del suo arresto gli sia stato fornito dalla COGNOME, la quale lo aveva ritirato dal falsario. La condotta materiale potenzialmente posta in essere dalla ricorrente non rientra nella fattispecie tipica prevista dalla norma applicata ma è da considerarsi, al più, come attività di favoreggiamento personale del latitante. La Corte territoriale si è limitata a valutare la sola circostanza che dal compendio intercettivo è emerso che era stata la ricorrente a ricevere il documento dal falsario e a fornirlo al latitante; quindi, da escludersi il possesso del documento (primo comma) e la relativa attività
fattuale di contraffazione/formazione e concorso in detta attività (secondo comma).
5.3. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 378 cod. pen. di cui al capo 35).
Dalla attività di indagine, è emerso che COGNOME si sottraeva alla cattura a seguito dell’esecutività dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale di Reggio Calabria nel procedimento “Narcos”. Il COGNOME riceveva ausilio in detta circostanza da NOME, il quale lo ospitava presso un B&B. Dunque, il soggetto principale che ha favorito la latitanza è il COGNOME L’accusa mossa nei confronti dell’odierna imputata, unitamente al marito NOME COGNOME, è quella di aver fornito sostegno al latitante e, in particolare, di aver procurato il vitto. Il giud di responsabilità sulla COGNOME è fondato su una frase da questa detta nella conversazione del 19 dicembre 2017 allegata al ricorso ove testualmente riferisce al Pace: «ci mandi due panini per mezzogiorno … e stasera gli faccio un po’ di pasta”. Tale conversazione non è utile ai fini della prova, e nulla è emerso circa il fatto che l’effettiva condotta di favoreggiamento personale da parte della COGNOME è stata posta in essere durante tutto il periodo di latitanza. Le conversazioni nel corso delle quali COGNOME riferisce ai propri interlocutori che il latitante era a pranzo tutti i giorni da “quelli di Battipaglia” sono irrilevanti poi le forze dell’ordine di Reggio Calabria in quel periodo erano nel territorio battipagliese in servizio di OCP e, dunque, se ciò fosse stato vero, avrebbero di sicuro arrestato COGNOME e COGNOME. L’unica frase, dunque, dalla quale emerge un ipotetico coinvolgimento dalla ricorrente è del tutto priva di ogni riscontro oggettivo. La stessa non si è mai recata al B&B e non conosceva il latitante. Anche a volere ammettere che l’imputata abbia organizzato, in una occasione, il pranzo e la cena per il predetto, non può dirsi che la stessa abbia commesso il reato contestato. CONSIDERATO IN DIRITTO Corte di Cassazione – copia non ufficiale
1.Deve premettersi che l’istanza di differimento della trattazione del presente procedimento formulata dall’avvocato NOME COGNOME è stata rigettata, con motivazione dettata a verbale, per l’insussistenza dei presupposti legittimanti il rinvio.
Ciò detto, ritiene il Collegio che i ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME NOME siano fondati limitatamente al capo 1) e all’aggravante di cui all’art. 416bis 1 cod. pen. contestata negli altri capi. La sentenza impugnata deve, dunque essere annullata con rinvio per nuovo giudizio su tali capi e punto ad altra Sezione della Corte di appello di Reggio Calabria.
I ricorsi dei due COGNOME sono inammissibili, nel resto. Del pari, sono inammissibili i ricorsi di COGNOME e COGNOME.
2.Ricorso di COGNOME NOME.
È fondato il primo motivo che censura la ritenuta esistenza di una cosca mafiosa denominata “Pisano” operante in Rosarno. Del pari fondato è il quinto motivo di ricorso relativo alla aggravante di cui all’art. 416-bis cod. pen. I due motivi saranno trattati preliminarmente.
2.1. Per quanto concerne il primo motivo, rileva il Collegio che la motivazione della sentenza impugnata è connotata da molteplici e decisive contraddittorietà rispetto ai pregressi provvedimenti giudiziari che dovrebbero costituire le premesse delle conclusioni del suo ragionamento.
A pagina 37 si sostiene che i precedenti giudiziari citati nella sentenza del G.u.p. hanno postulato l’esistenza di una cosca mafiosa “COGNOME“, intesa come “i diavoli” operante in Rosarno, in sintonia con le altre cosche presenti nel territorio: i COGNOME e i COGNOME. Ciò, tramite il richiamo della sentenza emessa nel processo “Mafia delle tre Province” (“pur relativo a fatti in materia di stupefacenti commessi fino all’aprile 1985, nel quale sarebbe stata accertata l’esistenza di un gruppo familiare facente capo ai tre fratelli COGNOME: NOME, NOME e NOME“) e della sentenza emessa nel processo “Arena più altri” (nel quale il ricorrente è stato condannato per partecipazione alla cosca “Pesce” e nel quale, contemporaneamente, sarebbe stata affermata la operatività di una cosca “COGNOME“). La permanente attività di tale ultimo sodalizio, in termini di autonomia rispetto alle altre famiglie rosarnesi, infine, sarebbe stata acclarata nella sentenza “Tirreno”.
Con tali affermazioni, connotate da scarsa specificità, i giudici di appello si sono limitati a richiamare quanto ha sostenuto dal G.i.p., non prendendo in considerazione le deduzioni difensive che contestavano puntualmente il tema in argomento. Più precisamente, i Giudici territoriali non si sono confrontati con le specifiche allegazioni relative al fatto che in nessuna delle vicende giudiziarie anzidette è stata accertata la esistenza di una cosca mafiosa denominata “COGNOME” operante nel territorio di Rosarno.
2.1.1.A smentita degli enunciati della sentenza impugnata legati alla vicenda denominata “RAGIONE_SOCIALE” la difesa denunciava che in tale procedimento l’originaria contestazione ex art. 416-bis cod. pen. nei confronti dei germani NOME, NOME e NOME COGNOME era stata riqualificata in associazione semplice ai sensi dell’art. 416 cod. pen., mentre il capostipite NOME NOME era stato completamente assolto totalmente (vedasi sentenza della Corte di assise di Palmi del 26/02/94, confermata in appello).
2.1.2. Quanto poi alla vicenda giudiziaria “COGNOME più altri” i Giudici reggini hanno sostenuto testualmente: «nel processo COGNOME Domenico e altri, nell’ambito del quale l’odierno imputato COGNOME NOME ha riportato condanna definitiva quale partecipe della cosca Pesce fino al gennaio 1989, è stata comunque ribadita l’esistenza della cosca COGNOME, conosciuta come i diavoli, operante soprattutto nel settore degli stupefacenti nel territorio di Rosarno».
Deve osservarsi che la difesa aveva dedotto in appello che la cosca “COGNOME“, della quale si parlava nel processo “Arena”, era genericamente intesa e non qualificata come mafiosa, anzi ne era segnalata l’operatività nel settore degli stupefacenti. Del tutto differente deve ritenersi l’oggetto dell’accertamento devoluto con l’imputazione associativa mafiosa del capo 1) del presente procedimento.
Peraltro, come evidenziato dalla difesa, nel processo “Arena più altri” la contestazione associativa ex art. 416-bis cod. pen. non riguardava minimamente la cosca “COGNOME” e l’odierno ricorrente risulta essere stato condannato come partecipe alla differente cosca mafiosa “Pesce”, per come ammesso dalla stessa sentenza (vedasi allegato 3 della difesa).
La Corte di appello nulla ha detto sul punto, sicché, non essendo stata elevata in tale diverso pregresso ambito giudiziario alcuna contestazione a carico di una cosca “Pisano”, semplice o qualificata, la pretesa della sentenza impugnata di trarre da tale procedimento significati dimostrativi validi per la presente vicenda appare illogica.
2.1.3. Alla luce delle argomentazioni difensive, neppure il richiamo operato dal G.u.p. e dalla Corte di appello ad una ordinanza di custodia cautelare del G.i.p. di Palmi in data 01/12/1991 nel proc. pen. n. 437/90 RGNR appare sufficiente a salvare la tenuta logico-giuridica della decisione di merito; anzi, la indebolisce ulteriormente. In tale ambito il G.u.p. segnalava come nel richiamato titolo custodiale si affermasse l’esistenza di un patto federativo tra le diverse cosche operanti in Rosarno, tra le quali anche quella dei “COGNOME“, per il controllo del territorio, con la contestazione del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. ai germani NOME, NOME, NOME e NOME COGNOME, nonché all’odierno ricorrente. Rileva il Collegio che i Giudici di appello non hanno fornito, sul punto, risposta alcuna alle osservazioni difensive relative al fatto che, in realtà, siffatta accusa non aveva retto al vaglio della cognizione.
Il ricorrente ha, infatti, documentato che la sentenza di primo grado (vedasi allegato n. 4) emessa in tale vicenda giudiziaria dal Tribunale di Palmi in data 03/03/1995 aveva già registrato l’assoluzione di COGNOME NOME e nei successivi gradi di giudizio nessun componente della famiglia COGNOME era stato condannato
per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. per come dimostrato dai relati casellari giudiziali in atti.
2.1.4. L’apparato argomentativo della sentenza impugnata risulta, infine, connotato da un richiamo del tutto generico alla sentenza “Tirreno”, secondo il quale «la permanente operatività della cosca Pisano, come autonoma alle altre famiglie Rosarnesi è stata confermata per il periodo successivo dal processo “Tirreno” sulla base delle dichiarazioni di vari collaboratori di giustizia».
La difesa aveva sottolineato che in quest’ultima vicenda non era stato coinvolto nessun componente della famiglia COGNOME, e che la stessa non aveva ad oggetto l’accertamento della omonima cosca mafiosa (vedasi allegato n. 6), ma la sentenza impugnata non ha fornito alcuna risposta e non si è confrontata con il fatto che nel passaggio della sentenza Tirreno che era richiamato dal G.i.p. non veniva fatto il minimo cenno alla cosca “COGNOME” quale entità criminale collettiva di tipo mafioso, né ad alcun componente della famiglia COGNOME per come, peraltro, denunciato nell’atto di appello.
2.1.5.Per rafforzare la sua critica la difesa aveva anche segnalato come nel noto processo “Crimine” (tra i precedenti giudiziari esaminati, il più prossimo alla presente vicenda), avente ad oggetto tutte le diramazioni della ‘ndrangheta operanti nella provincia di Reggio Calabria (con condotta fino all’anno 2011), attraverso i cc.dd. locali, nel segmento dedicato al territorio di Rosarno non vi fosse alcun cenno ad una cosca “Pisano” o ai soggetti qui coinvolti.
2.1.6.0rbene, sull’erroneo presupposto di pregresse sentenze nelle quali sarebbe stata accertata l’esistenza di una cosca mafiosa denominata “Pisano” operante a Rosarno (e senza neppure affrontare il tema della mancanza di attualità di detti precedenti giudiziari per fatti risalenti ai primi anni ’90, mentre ne vicenda in esame i fatti investigati sono fissati negli anni 2016-2018), entrambi i giudici di merito, hanno, di fatto, ritenuto presunti tutti gli elementi essenziali del fattispecie plurisoggettiva di cui all’art. 416-bis cod. pen.
A cagione del vizio che inficia il punto nevralgico della motivazione sul sindacato dei precedenti giudiziari i giudici di merito hanno, infatti, evitato d effettuare una autonoma verifica sulle componenti essenziali della fattispecie associativa contestata nel caso concreto, erroneamente mutuate da precedenti provvedimenti giudiziari peraltro datati.
2.1.7. La sentenza impugnata deve, in conclusione essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Reggio Calabria, che provvederà a colmare le lacune evidenziate nel presente paragrafo circa l’esistenza di una cosca mafiosa “Pisano”.
2.2. Dall’annullamento derivante dall’accoglimento del primo motivo, consegue anche l’annullamento della sentenza impugnata in relazione alla
sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis 1. contestata in relazione a tutti gli altri reati per i quali è intervenuta condanna.
Giova sottolineare che – come precisato dalle Sezioni unite di questa Corte: sentenza n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278734 – l’aggravante della finalità agevolativa mafiosa esige che l’agente deliberi l’attività illecita nel convinzione di apportare un vantaggio alla compagine associativa. E’ necessario però, affinché il reato non sia privo di offensività, che tale rappresentazione si fondi su elementi concreti, inerenti, in via principale, all’esistenza di un gruppo associativo avente le caratteristiche di cui all’art. 416-bis, cod. pen., ed all effettiva possibilità che l’azione illecita si inscriva nelle possibili utilità, anche essenziali al fine del raggiungimento dello scopo di tale compagine, secondo la valutazione del soggetto agente, non necessariamente coordinata con i componenti dell’associazione.
Occorre, dunque, che la volizione che la caratterizza possa assumere un minimo di concretezza, anche attraverso una mera valutazione autonoma dell’agente, che non impone un raccordo o un coordinamento con i rappresentanti del gruppo e, soprattutto, non prevede che il fine rappresentato sia poi nel concreto raggiunto, pur essendo presenti tutti gli elementi di fatto, astrattamente idonei a tale scopo.
La Corte di appello, in conclusione, dovrà valutare la sussistenza dell’aggravante contestata, alla luce delle necessarie verifiche circa l’esistenza della cosca “COGNOME“; ciò, ovviamente, anche sotto il profilo del metodo mafioso, che, invece, prescinde dall’accertamento dell’esistenza della cosca.
2.3. Il secondo motivo avente ad oggetto la violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 2 e 7 I. n. 895/67 (capo 2, in relazione al quale sono stati condannati, in concorso, COGNOME NOME e COGNOME NOME) è generico.
Lo stesso non si confronta con la puntuale motivazione fornita dalla Corte di appello, la quale ha richiamato le intercettazioni telefoniche e ambientali che dimostrano, con evidenza, che il terreno di proprietà di Pisano era utilizzato per nascondere armi. Il dato risulta emergere con certezza, sia dai nitidi rumori meccanici colti dalle intercettazioni, sia, soprattutto, dagli espliciti riferimenti armi che caratterizzano le conversazioni valorizzate dai Giudici di merito.
Così, allorché, pianificando una possibile rappresaglia nei confronti di COGNOME si prospetta la possibilità di farlo “con una 7” (“ci andiamo con una 7”), non sembra discutibile, come sottolineato nella sentenza, che i prevenuti avessero l’effettiva disponibilità di una pistola. L’utilizzo del luogo in questione come deposito di armi, del resto, trova conferma indiscutibile, secondo i Giudici, nelle ulteriori conversazioni del 1 novembre 2016 e del 31 maggio 2017.
Con motivazione congrua e logica, la sentenza impugnata ha rimarcato che se, infatti, nella prima occasione COGNOME NOME chiedeva allo zio un calibro 38 è perché sapeva che questi poteva avere la disponibilità di un’arma di quel tipo e poteva averla proprio in quel luogo. Circostanza, non a caso, confermata da COGNOME allorché ha affermato che l’attività di “imbrunimento” proposta dal nipote poteva essere effettuata in un secondo momento.
I Giudici di appello hanno poi correttamente evidenziato che il contenuto della conversazione del 31 maggio 2017, anche a volere dubitare che i rumori che si ascoltano siano riconducibili ad armi automatiche, ha un contenuto indiscutibilmente riconducibile al maneggio di armi che stava avvenendo in quel momento. Il riferimento a caricatori, aste, molle che non funzionano bene, sicure e altro non può riguardare altro che armi sulle quali COGNOME Salvatore e COGNOME stavano effettuando attività di manutenzione. Non vi sono, pertanto, dubbi sul concorso del ricorrente e di COGNOME NOME nella detenzione delle armi perché dette armi erano anche nella loro disponibilità e perché ha supportato COGNOME NOME nel maneggio, nel nascondimento e nella manutenzione delle armi di cui al capo 2).
2.3.1. Con particolare riferimento a COGNOME NOME, l’accusa nei suoi confronti si fonda sul passaggio della conversazione nel corso della quale egli ricorda a COGNOME NOME di avere rischiato di essere arrestato insieme al fratello del suo interlocutore per avere spostato “determinate cose”. Correttamente la Corte di appello ha messo in evidenza che tale attività non poteva avere riguardato altro che le armi custodite nel terreno di COGNOME NOME.
Sorretta da logica, secondo un percorso che non segnala deficienze o contraddizioni, è la motivazione spesa dalla Corte nella parte in cui ha richiamato la conversazione del 25 luglio 2016 – nel corso della quale si era ventilata la possibilità che, in seguito alla lite tra COGNOME NOME e COGNOME NOME, venissero effettuate delle perquisizioni – e ha ritenuto del tutto plausibile che nell’immediatezza, le armi che, come detto, erano certamente presenti in quel luogo, fossero state temporaneamente spostate altrove. È, quindi, difficile immaginare – come sostenuto in sentenza – cos’altro COGNOME NOME potesse avere spostato da un posto a un altro rischiando venti anni di carcere.
Infine, la Corte d’appello, dopo avere rimarcato che l’imputato non aveva fornito, al riguardo, alcun chiarimento, ha esaurientemente, logicamente e razionalmente argomentato che l’oggetto delle conversazioni non potevano che essere le armi e che le intercettazioni erano compatibili con tale traffico. L’attività di spostamento di armi per sottrarle al sequestro integra il concorso nella detenzione, avendo Belcastro consentito a COGNOME NOME di proseguire nella
detenzione, certamente non autorizzata, di armi, sottraendo n le al sequestro o, comunque, assicurando loro un nascondiglio più idoneo.
Le armi detenute nel terreno, in ogni caso, alla luce di quanto esposto, erano certamente nella disponibilità anche di COGNOME NOME alla stessa stregua del figlio NOME
Deve aggiungersi che, per quel che attiene alla contestazione di cui al capo 3, l’assunto di COGNOME NOME per cui il riferimento alla cosa che aveva portato con sé (“e tu con una cosa addosso sei venuto?”) non riguarda necessariamente una pistola, ma potrebbe riguardare un coltello, è stata correttamente ritenuta non condivisibile. Sarebbe singolare che, in un contesto in cui si paventava o si programmava i ‘utilizzo di armi da fuoco di una certa capacità offensiva, COGNOME NOME potesse manifestare preoccupazione perché COGNOME andava in giro con un coltello.
2.4. Anche il terzo motivo è inammissibile per genericità.
La Corte di appello ha correttamente rilevato che l’accusa contro COGNOME NOME si fondava su una conversazione tra il medesimo e COGNOME NOME, intercettata in ambientale sul terreno di proprietà di questo il 4 novembre 2016. Nella conversazione l’imputato riferiva al suo interlocutore di avere chiamato COGNOME NOME (cugino di COGNOME NOME, titolare dell’impresa individuale RAGIONE_SOCIALE), con il pretesto di chiedergli un prestito di 1. 000 euro. Poiché il predetto aveva rifiutato, egli preventivava rappresaglie; COGNOME lo dissuadeva, dicendogli che i COGNOME gli avrebbero dovuto comunque consegnare il denaro (“Loro i soldi te li devono dare così .. cittu, cittu, cittu tu e io, senza che subiscano niente”). Nel prosieguo, riferendosi a un fatto precedente, COGNOME diceva di avere picchiato COGNOME per farsi consegnare 1.500 euro. Poiché COGNOME tergiversava, COGNOME si era recato nel negozio del fratello NOME (titolare della impresa individuale Generai Ferr), formulando l’esplicita minaccia di appiccare un incendio. Recatosi al negozio di Nasso Giuseppe, lo aveva picchiato e pesantemente redarguito. Recepito il messaggio, il commerciante gli aveva portato i soldi la sera stessa.
COGNOME gli suggeriva, quindi, di prelevare COGNOME appena uscito di casa, di portarlo in campagna e di minacciarlo di morte oppure di sparare colpi di pistola contro l’autovettura della vittima.
I giudici di merito, richiamando alcuni danneggiamenti dei negozi che i Nasso avevano subito in passato, a fronte dei quali avevano assunto un atteggiamento di apparente reticenza, hanno, con motivazione congrua e logica, attribuito alla conversazione testé citata la valenza di una confessione extraprocessuale, ritenendola pienamente attendibile. Hanno, quindi, ritenuto COGNOME NOME responsabile del tentativo di estorsione di cui al capo 11) con riferimento al “prestito” di 1.000 euro che l’imputato sosteneva di avere chiesto a Nasso e
dell’estorsione consumata di cui al capo 12) per la somma di 1.500 euro che il prevenuto ha sostenuto essergli stata consegnata dopo avere minacciato e percosso la vittima.
La motivazione contenuta nella sentenza impugnata possiede una stringente e completa capacità persuasiva, nella quale non sono riconoscibili vizi di manifesta illogicità, avendo la Corte di appello spiegato la ragione per la quale era insostenibile che le richieste non avessero matrice estorsiva.
In particolare, il Collegio di appello, riguardo alla somma di 1.500 euro, alla fine consegnata da COGNOME NOME, ha sottolineato che è stato lo stesso imputato ad affermare di averla ottenuta dopo avere minacciato l’incendio del negozio e dopo avere, addirittura, percosso la parte offesa, facendola piangere. La richiesta di ulteriori 1.000 euro “in prestito”, rivolta alla stessa persona un certo tempo dopo, non poteva non ricollegarsi, anche a volere prescindere dall’apprezzamento della vittima circa il possibile ruolo di COGNOME nella criminalità organizzata, quanto accaduto precedentemente. COGNOME, infatti, era ben consapevole di cosa fosse successo allorché aveva cercato di prendere tempo nel consegnare all’imputato i 1.500 euro senza neppure rifiutarglieli esplicitamente. Nulla di diverso poteva, quindi, ragionevolmente aspettarsi in occasione della nuova richiesta, quali che fossero le modalità attraverso le quali la stessa era stata formulata. Che “il prestito” non fosse tale, al di là del fatto che COGNOME non sembrava avere alcuna intenzione di restituire la somma, si desumeva chiaramente dalla circostanza per cui l’imputato minacciava pesanti rappresaglie perché la vittima aveva nuovamente osato non assecondare immediatamente le sue pretese. Lo stesso imputato, infine, nella conversazione con COGNOME, ha esplicitamente affermato che il prestito era stato richiesto “per finta” (“l’ho chiamato ho fatto finta di cercagli mille euro che mi servono urgente che ho due scadenze”). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.4.1. La richiesta della corresponsione di un mille euro costituisce chiaramente una pretesa indebita, espressa con modalità tali che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, consentono di sussunnerla nella fattispecie contestata di tentata estorsione.
La minaccia costitutiva del delitto di estorsione, oltre ad essere palese ed esplicita, può essere manifestata anche in maniera implicita ed indiretta, essendo solo necessario che sia idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima ed alle condizioni ambientali in cui questa opera (cfr. Sez. 2, n. 19724 del 20/05/2010, Pistolesi, Rv. 247117; Sez. 2, n. 16397 del 7 marzo 2013, non mass.).
Ed ancora, è stato affermato che integra una estorsione “ambientale” quella particolare forma di estorsione che viene perpetrata da soggetti (come il Belcastro) notoriamente inseriti in pericolosi gruppi criminali che spadroneggiano in un determinato territorio e che è immediatamente percepita come concreta e di certa attuazione, stante la forza criminale dell’associazione di appartenenza del soggetto agente, quand’anche attuata con linguaggio e gesti criptici, a condizione che questi siano idonei ad incutere timore e a coartare la volontà della vittima (v. Sez. 2, n. 53652 del 10/12/2014, COGNOME, Rv. 261632 – 01).
La minaccia idonea ad integrare il delitto di estorsione può estrinsecarsi, dunque, anche in maniera del tutto larvata, come accade in certe manifestazioni ambientali caratteristiche di criminalità mediante i “consigli da amico”, la “presenza silenziosa”, le semplici “avvertenze”, purché il comportamento o l’atteggiamento dell’agente sia idoneo ad esercitare una pressione psicologica e ad incidere nella sfera della libertà del soggetto passivo, onde costringerlo a fare od omettere qualcosa.
2.4.2. Occorre, infine, rilevare che, anche in tema di tentativo, la Suprema Corte ha evidenziato che l’assenza di esplicite minacce comporta che l’idoneità della condotta rispetto all’ingiusto risultato debba essere apprezzata in riferimento alle modalità con cui è stata posta in essere, avendo riguardo alla personalità sopraffattrice del soggetto agente, alle circostanze ambientali, all’ingiustizia del profitto, alle particolari condizioni soggettive della vittima. (v. Sez. 2, n. 2833 d 27/09/2012 -dep. 18/01/2013-, COGNOME, Rv. 254297 – 01).
Ai fini della sussistenza del delitto tentato, in particolare, rilevano l’idonei causale degli atti compiuti al conseguimento dell’obiettivo delittuoso e la univocità della loro destinazione, da apprezzarsi secondo una valutazione ex ante che tenga conto delle intrinseche connotazioni dell’atto stesso, e, quindi, della concreta situazione ambientale in cui l’atto è stato posto in essere, nonché della connotazione storica del fatto, delle sue effettive implicazioni con riferimento alla posizione dell’agente e del destinatario della condotta e del suo significato alla luce delle consuetudini locali (Sez. 5, n. 44903 del 13/09/2017, COGNOME, Rv. 271062 – 01).
In conclusione, la richiesta della corresponsione di mille euro è stata correttamente ritenuta una pretesa indebita, espressa con modalità tali che, secondo la giurisprudenza sopra richiamata, consentono di sussumerla nella fattispecie contestata di tentata estorsione.
2.5. Il quarto motivo – avente ad oggetto il reato di tentata importazione di sostanza stupefacente – è reiterativo di censure già formulate in appello, rispetto alle quali la sentenza impugnata fornisce adeguata motivazione.
Nonostante l’unica prova sia costituita da una conversazione, come puntualmente evidenziato dalla Corte di appello, la stessa, letta nel suo complesso, consente agevolmente di ricostruire il fatto nel senso prospettato dai giudici di merito.
Nel corso della stessa, COGNOME NOME affermava che qualcuno aveva insinuato che egli avesse posto in essere una truffa per una somma pari a 20.000 euro con riferimento al denaro che egli aveva raccolto per pagare le persone, appartenenti alla Guardia di finanza, che avrebbero dovuto recuperare lo stupefacente dal container in arrivo al porto di Gioia Tauro. COGNOME, infatti, sosteneva di essere stato interpellato proprio per occuparsi di tale attività e di avere comunicato la tariffa richiesta. La somma era stata consegnata in anticipo ai finanzieri e il denaro versato, indicato da COGNOME in 60.000 euro consegnati a un intermediario, era poi andato perduto perché la merce non era mai giunta al porto (“ma non è partita per niente”).
La Corte d’appello ha esaurientemente, logicamente e razionalmente argomentato le ragioni per le quali i suddetti passaggi non lasciano spazio per interpretazioni alternative. Il ricorso, del resto, si limita ad afferma apoditticamente che la conversazione è frammentaria e contraddittoria, ma non tenta neppure di spiegare per quale ragione la ricostruzione effettuata dal giudice di primo grado, ribadita in appello, non sia corretta, né di chiarire quale significato avrebbero i passaggi dai quali vengono desunte le circostanze sopra richiamate.
Altrettanto chiaro è stato ritenuto il coinvolgimento nell’operazione di COGNOME RAGIONE_SOCIALE. La sentenza impugnata ha correttamente evidenziato che:
-quest’ultimo aveva partecipato attivamente alla discussione ed era, quindi, evidentemente a conoscenza di ciò che era accaduto, tanto che si era inserito nel discorso senza dovere chiedere lumi al riguardo. In tale contesto egli aveva affermato che gli era stato chiesto di contribuire al pagamento del compenso dei finanzieri con il versamento di 5.000 euro;
-da nessun passaggio della conversazione si coglie che i COGNOME non sapessero del coinvolgimento dell’imputato, emergendo unicamente il fatto che essi non lo avevano inizialmente interpellato;
-l’ipotetica novità per i COGNOME, emergente dal colloquio, era il modo in cui COGNOME era stato coinvolto, non il fatto che anch’egli era interessato. Tanto è vero che i COGNOME avevano continuato tranquillamente a parlare della cosa anche in presenza del prevenuto; la casualità del contributo di COGNOME, pertanto, non aveva nulla di “implausibile”;
– non corrisponde al vero che l’imputato abbia esplicitamente sostenuto, nel corso della conversazione, di non essere interessato all’ operazione. L’imputato, in buona sostanza, affermava solo di non avere preso parte all’organizzazione dell’acquisto
all’estero dello stupefacente (cosa non oggetto di contestazione e non sostenuta neppure dalla sentenza impugnata), ma confermava di avere partecipato all’investimento con una quota di 5.000 euro, costituente una parte dei 60.000 euro che sarebbero stati versati ai finanzieri, i quali avrebbero dovuto estrarre la droga dal container.
La motivazione contenuta nella sentenza impugnata possiede, quindi, una stringente e completa capacità persuasiva, nella quale non sono riconoscibili vizi di manifesta illogicità, avendo la Corte distrettuale analiticamente spiegato le ragioni per le quali poteva dirsi pienamente provato che Belcastro avesse concorso, finanziando una parte dell’attività – che non può certo ritenersi accessoria – e aspettandosi un ritorno economico, in una condotta consistente nell’essersi accordati con dei trafficanti che si trovavano all’estero e nell’avere predisposto quanto necessario per recuperare lo stupefacente, tanto da avere pagato in anticipo coloro che avrebbero dovuto occuparsi di tale attività. L’importazione non era, poi, andata a buon fine perché, come affermava COGNOME NOME, la sostanza “non era partita”.
2.5.1. Così ricostruito il fatto, il tentativo è stato correttamente riconosciuto.
Secondo il più rigoroso orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, «ai fini della consumazione del delitto di importazione di sostanze stupefacenti, che consiste nell’attività di immissione nel territorio nazionale di sostanze provenienti da altri Stati, non è sufficiente la mera conclusione dell’accordo tra acquirente e venditore finalizzato all’importazione, con cui si configurerebbe la condotta di detenzione, ma è necessaria l’assunzione da parte dell’importatore della droga della gestione dell’attività volta all’effettivo trasferimento del stupefacente nel territorio nazionale».
Nel caso di specie è emerso che gli imputati avevano certamente raggiunto un accordo con i venditori stranieri e avevano avviato quanto necessario per recuperare la droga, tanto che, come detto, avevano addirittura già pagato chi avrebbe dovuto occuparsi del recupero dello stupefacente.
Predisponendosi per ricevere lo stupefacente, pertanto, COGNOME NOME e i coimputati avevano assunto la gestione dell’attività necessaria all’importazione e, in applicazione del principio sopra enunciato, sono stati correttamente ritenuti responsabili del tentativo contestato.
2.6. Il motivo sul trattamento sanzionatorio è assorbito dall’accoglimento del motivo circa la sussistenza del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.
Il Giudice del rinvio, accertata la esistenza o meno degli estremi del reato in questione e della aggravante di cui all’art. 416-bis 1 cod. pen., dovrà, quindi, rivalutare il trattamento sanzionatorio.
3. Ricorso di COGNOME Salvatore.
I due motivi di ricorso dell’imputato – relativi alla sussistenza degli estremi del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e alla configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 416 bis 1 cod. pen. sono articolati negli stessi termini del primo e del quinto motivo di COGNOME NOME.
Si rinvia, pertanto, alle osservazioni formulate ai paragrafi 2.1. e 2.2. del “Considerato in Diritto” in relazione alla fondatezza dei motivi e alla necessità di pervenire a una pronuncia di annullamento della sentenza impugnata nei confronti di COGNOME Salvatore limitatamente al capo 1) e all’aggravante di cui all’art. 416bis 1 cod. pen. contestata negli altri capì, con rinvio per nuovo giudizio su tali capi e punto ad altra Sezione della Corte di appello di Reggio Calabria.
4.Ricorso di NOME.
Il ricorso è inammissibile, essendo tutte le doglianze mosse dal ricorrente in merito alla valutazione delle fonti di prova poste a base del giudizio di penale responsabilità ed alla ricostruzione storico-fattuale delle vicende oggetto di contestazione, reiterative di rilievi già dedotti in appello senza un reale confronto con la compiuta e lineare motivazione svolta dai Giudici della cognizione.
4.1. Il primo motivo – avente ad oggetto il riconoscimento della penale in relazione alla coltivazione di due piantagioni di marijuana di cui al capo 47) – è generico, posto che i giudici di merito hanno bene argomentato in relazione a detto capo, con considerazioni aderenti alle emergenze dell’incartamento processuale, lineari e conformi a logica, pertanto incensurabili nella sede di legittimità.
La sentenza impugnata ha richiamato preliminarmente una conversazione intercorsa 1’11 gennaio 2018 tra l’imputato e NOME, nel corso della quale il primo sosteneva che un tale NOME di Rosarno, che aveva “90.000 semi cioè 90.000 euro di semi”, aveva proposto a lui e a COGNOME NOME di realizzare una piantagione di marijuana. Poiché i semi erano troppi, avevano realizzato due piantagioni: una a Metaponto e una a Scanzano Ionico. Qualcuno, tuttavia, aveva “infamato” NOME, le piantagioni erano state individuate e due ragazzi albanesi, ai quali pagavano lo stipendio per gestire la piantagione di Metaponto, erano stati arrestati. NOME tornava sul medesimo discorso il 21 gennaio 2018 allorché confidava a Pace che gestiva entrambe le piantagioni sopra indicate.
I Giudici di merito hanno puntualmente indicato, come riscontro a quanto sostenuto dall’imputato, i sequestri delle due piantagioni (in data 13 agosto 2016, in Montalbano Jonico, a circa 13 km da Scanzano Ionico, e, nel settembre 2016 a Metaponto) e l’arresto in flagranza di due cittadini albanesi nel corso del secondo sequestro.
Corretta e sorretta da logica, secondo un percorso che non segnala deficienze o contraddizioni, è poi la motivazione spesa dalla Corte di appello in ordine al fatto che lo stato detentivo di Marino, all’epoca dell’individuazione delle piantagioni da parte delle forze dell’ordine, non escludeva che Marino potesse avere realizzato le piantagioni e dato le disposizioni per gestirle allorché si trovava in libertà. Ciò proprio in considerazione del fatto che il ricorrente aveva fornito a Pace, in due distinte occasioni, indicazioni oltremodo precise sul modo in cui le piantagioni erano state realizzate, sulle loro dimensioni nonché, con riferimento a quella di Metaponto, sulle circostanze che avevano portato all’individuazione del sito da parte delle forze dell’ordine e all’arresto di due ragazzi albanesi pagati per occuparsene.
4.2. Anche il secondo motivo -avente ad oggetto il riconoscimento della penale responsabilità in relazione al reato di detenzione di marijuana di cui al capo 48) è generico.
La Corte di appello, con motivazione stringente e completa, ha sottolineato l’importanza, sotto il profilo probatorio, della conversazione del 22 dicembre 2017, dalla quale si desume che NOME deteneva marijuana a Battipaglia, che era disponibile a fornirla a Marino e a un tale NOME e che invitava i predetti a occuparsi del ritiro. La sentenza impugnata ha evidenziato, poi, che NOME e il ricorrente si incontravano il giorno successivo a Policoro e che, subito dopo l’incontro NOME, mentre si dirigeva a Rosarno, chiamava una persona alla quale confidava di avere la disponibilità di denaro contante e le modalità secondo le quali voleva dividerlo.
La Corte d’appello ha esaurientemente, logicamente e razionalmente ritenuto che il 23 dicembre Pace avesse ceduto marijuana a Marino in ragione del fatto che COGNOME, rientrato in Calabria subito dopo essersi recato a Policoro, nello stesso luogo dove aveva incontrato il giorno prima Marino, aveva dichiarato di avere disponibilità di denaro contante. Tale denaro era, all’evidenza, il prezzo della marijuana della quale, per quanto emerge dalla conversazione del 22 dicembre 2017, egli aveva la disponibilità e che NOME e “NOME” erano interessati ad acquistare. Non si comprenderebbe diversamente la ragione per la quale, dovendo rientrare in Calabria da Battipaglia, NOME si fosse fermato a Policoro.
Correttamente è stato sottolineato che non emerge dagli atti come Pace abbia recuperato lo stupefacente da consegnare, e che tale circostanza non è, però, in grado di fare dubitare dell’intervenuta consegna. Secondo quanto preventivato nelle citate conversazioni, del resto, egli avrebbe potuto avere consegnato la sostanza agli emissari degli acquirenti come pure averla recuperata tramite soggetti diversi.
4.3. Anche il terzo motivo – avente ad oggetto il tentativo di acquisto di stupefacente da tale “NOME” di cui al capo 61) – è generico.
Il fatto è stato ricostruito dai Giudici di merito sulla base di una serie d conversazioni coinvolgenti il ricorrente, NOME e un albanese chiamato “NOME“.
Contrariamente all’assunto difensivo, nella sentenza impugnata risulta correttamente messo in evidenza che le conversazioni sulle quali si fonda il giudizio di condanna per il capo 61) non hanno il contenuto vago che il ricorrente vorrebbe attribuire loro. “NOME“, nella conversazione richiamata, affermava esplicitamente di avere la possibilità di far giungere a Bari sostanza stupefacente, indicandone il prezzo. La discussione proseguiva sui tempi del pagamento, sul costo del trasporto e sulla suddivisione dei rischi per l’eventuale perdita della merce. Alla fine, i tr raggiungevano un accordo e l’albanese riferiva agli altri due che sarebbe partito l’indomani e che, entro qualche giorno, avrebbe informato Marino dell’esito dell’operazione.
Corretta e sorretta da logica, secondo un percorso che non segnala deficienze o contraddizioni, è poi la motivazione spesa dalla Corte in relazione alla concretezza della prospettiva di acquisto, che si è ritenuto abbia trovato conferma nel fastidio palesato da Pace dopo che la consegna non si era concretizzata per non potere soddisfare le richieste dei suoi clienti e per non essersi rivolto a uno spacciatore di Barletta. Nello stesso senso vengono correttamente letti i ripetuti tentativi di chiamata verso l’utenza di “NOME” e il timore palesato da COGNOME che lo stesso fosse stato ucciso o arrestato.
4.4. Il quarto motivo GLYPH avente ad oggetto la partecipazione di Marino all’associazione ex art. 74 d.P.R. 309/90 – è sostanzialmente orientato a riprodurre un quadro di argomentazioni già ampiamente vagliate e correttamente disattese dai Giudici di merito.
4.4.1. Occorre premettere che la partecipazione all’associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato si differenziano per il carattere dell’accordo criminoso il quale nella seconda fattispecie è circoscritto alla realizzazione di uno o più reati e si esaurisce nella loro consumazione, mentre nell’associazione per delinquere è diretto all’attuazione di un generale e continuativo programma di delinquenza e non viene meno dopo che i reati sono stati commessi, continuando a sussistere per l’ulteriore attuazione del programma stesso. Ne discende che, affinchè si possa affermare la sussistenza dei presupposti dell’appartenenza all’associazione, è necessario provare l’integrazione dell’elemento aggiuntivo e distintivo del delitto di cui all’art. 74 d.P.R. 9 ottobr 1990, n. 309, rispetto alla fattispecie del concorso di persone nel reato continuato di detenzione e spaccio di stupefacenti che si individua nel carattere dell’accordo criminoso, contemplante la commissione di una serie non preventivamente determinata di delitti, con permanenza del vincolo associativo tra i partecipanti, i
quali, anche al di fuori dei singoli reati programmati, assicurino la propria disponibilità duratura ed indefinita nel tempo al perseguimento del programma criminoso del sodalizio (ex plurimis Cass. Sez. 4, n. 51716 del 16/10/2013, COGNOME, Rv. 257906). Ancora, si è ribadito che l’elemento differenziale tra l’ipotesi associativa ex art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n.309, e quella del concorso ai sensi degli artt. 110 cod. pen. e 73 del citato d.P.R. risiede principalmente nell’elemento organizzativo, in quanto la condotta punibile a titolo di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti non può ridursi ad un semplice accordo delle volontà, ma deve consistere in un quid pluris, che si sostanzia nella predisposizione di una struttura organizzata stabile che consenta la realizzazione concreta del programma criminoso (Sez. 6, n. 27433 del 10/01/2017, Avellino e altro, Rv. 270396). Integrazione del delineato quid pluris di cui il Collegio di merito ha dato adeguata dimostrazione evidenziando – come sopra rilevato – gli elementi sintomatici dell’esistenza, non di un mero accordo fra compartecipi, ma di una permanente struttura organizzata, frutto del concerto di intenti e di azione tra gli associati, con riparto di ruoli e comune coordinamento e base logistica, volta all’attuazione di un programma indeterminato di reati concernenti gli stupefacenti.
4.4.2. I giudici di merito, con motivazione congrua e immune da vizi logici, hanno ritenuto che NOME e NOME, con la copertura di COGNOME NOME, avessero gestito con continuità, per un lasso temporale apprezzabile, un’attività organizzata di commercio di stupefacenti, caratterizzata fondamentalmente da reiterate forniture indirizzate verso la Campania (a Iorio e Caponigro) e verso la Basilicata (a Marino). Il tutto con I ‘utilizzo di risorse umane (rete di fornitori e spacciatori, coperture criminali sul territorio) e materi (disponibilità patrimoniali, disponibilità di mezzi e di luoghi di stoccaggio e d appoggio per l’attività, ecc.) asservite a uno stabile programma criminoso.
I Giudici di merito hanno motivato in maniera puntuale la sussistenza della affectio societatis in capo alla ricorrente. Nella sentenza di appello si fa riferimento, in particolare, agli esiti dell’attività di intercettazione, dalla quale emergeva che: – il giorno successivo all’arresto di COGNOME NOME, parlando di persona con NOME mentre si trovava in Basilicata, NOME esternava qualche sospetto per non essere stato anch’egli arrestato, nonostante fosse nota, a suo dire, la comune appartenenza sua e del latitante alla famiglia COGNOME di Rosarno. Pace manifestava, quindi, l’intenzione di spostare il proprio centro di interessi in Basilicata. L conversazioni successive dimostravano con chiarezza che NOME, NOME e NOME si erano accordati per operare insieme nel commercio degli stupefacenti. Già il 22 dicembre 2017, come risulta dalla vicenda oggetto di contestazione al capo 48), i due avevano iniziato a trafficare e NOME aveva fornito a NOME della marjuana;
-Il 7 gennaio 2018 NOME riferiva a COGNOME che un tale NOME gli aveva chiesto “un pezzo” e invitava il suo interlocutore a procurarsi mezzo chilo di droga, presumibilmente cocaina considerato il prezzo indicato. Pace, di rimando, proponeva di girare la sostanza a spacciatori di Brindisi;
-il progetto di un’attività comune veniva delineato nella conversazione con l’albanese di nome NOME richiamata nell’esame della contestazione di cui al capo 61) allorché, in data 10 gennaio 2018, NOME e COGNOME programmavano di rifornirsi con continuità della droga che l’albanese avrebbe dovuto importare dall’Olanda;
-l’interesse a operare in Basilicata era ribadito da COGNOME in una conversazione con tale NOME COGNOME, intercettata il 15 gennaio 2018;
-la già citata conversazione del 18 gennaio 2018 riguardava dieci chilogrammi di marijuana che NOME aveva acquistato (“l’ho presa … dieci chili”) con il supporto di NOMECOGNOME il quale aveva condotto la trattativa e aveva garantito sull’affidabilità del venditore. NOME e NOME promettevano, inoltre, a NOME una fornitura continuativa. Nel prosieguo NOME ribadiva a NOME l’affidabilità del canale di approvvigionamento di stupefacente e sosteneva, poi, che, se fosse andata bene una determinata operazione, avrebbero potuto smerciare stupefacente in Calabria, Basilicata e Puglia. Riferiva agli altri due, infatti, che avrebbe potuto prelevare da un container, con la complicità di un finanziere, 170 chilogrammi di cocaina;
-l’esistenza di cointeressenze nello spaccio tra Marino e Pace si ricavava anche dalla conversazione del 19 gennaio 2018, nel corso della quale il secondo prospettava la propria situazione di difficoltà per non riuscire a soddisfare determinate richieste con conseguenti difficoltà economiche, aggravate dagli esborsi sopportati per sostenere la latitanza di COGNOME. Per tale ragione sollecitava a Marino l’apertura di nuovi canali di approvvigionamento;
-da una conversazione del 21 gennaio 2018 si desumeva la disponibilità di NOME di rifornire l’associazione. A fronte della richiesta di NOME di hashish, egli, infa rispondeva che avrebbe avuto qualche notizia la settimana successiva, ricevendo da NOME, contestualmente presente, l’indicazione sul prezzo da praticare;
la stabilità del rapporto che NOME aveva instaurato con NOME e con il gruppo a questo facente capo trovava conferma nelle vicende successive all’arresto dello stesso NOME, avvenuto il 27 gennaio 2018. NOME, infatti, era uno dei primi soggetti che NOME informava dell’avvenuto arresto, invitandolo a riferire la cosa ai “rappresentanti”;
-il 29 gennaio 2018 il ricorrente informava NOME del debito del padre nei confronti di un fornitore, assicurandola, nel contempo, che avrebbe provveduto lui a farvi fronte in quanto cointeressato;
-dalle conversazioni richiamate nell’esame della contestazione di cui al capo 72) (non ascritto al ricorrente) emerge, poi, che lo stupefacente che NOME
deteneva in Basilicata era nella disponibilità di NOME COGNOME il quale era a conoscenza del nascondiglio, e ne aveva la disponibilità, tanto da averlo potuto consegnare al “rappresentante” inviato da NOME. NOME, peraltro, secondo la ricostruzione effettuata nella sentenza impugnata, aveva cercato di piazzare autonomamente la sostanza lasciata presso di lui da NOMECOGNOME
4.4.3. La Corte di appello ha, infine, puntualmente rilevato che la contestazione di cui al capo 73) – non oggetto di censura da parte del ricorrete e avente ad oggetto la detenzione e la cessione da parte di NOME di un carico di nnarjuana -dimostrava che il rapporto di NOME con i calabresi era proseguito anche in epoca successiva, tanto che era stato lui a fornire a NOME o, comunque, su richiesta di questa, la marijuana poi sequestrata a COGNOME NOME.
Il fatto, poi, che il ricorrente, mentre si relazionava con i Pace, intraprendesse contemporaneamente una autonoma attività di spaccio non è stata ritenuta dalla Corte di appello in contrasto con la partecipazione all’associazione. Ciò in conformità al principio dettato da questa Corte secondo il quale il reato di partecipazione ad associazione finalizzata al narcotraffico non presuppone un rapporto esclusivo con essa (Sez. 4, n. 3398 del 14/12/2023 -dep. 29/01/2024-, COGNOME, Rv. 285702 – 01).
5.Ricorso di COGNOME NOME.
Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito indicate.
5.1. Il primo motivo, avente ad oggetto la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla partecipazione della ricorrente al reato di cui all’art. 74 d.P.R. 309/90 con riferimento al capo 29), è sostanzialmente orientato a riprodurre un quadro di argomentazioni già ampiamente vagliate e correttamente disattese dai Giudici di merito, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, in tal guisa richiedendo, sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, l’esercizio di uno scrutini improponibile in questa Sede, a fronte della linearità e della logica conseguenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell’impugnata decisione.
Si contesta a COGNOME il reato di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti (cocaina e hashish), associazione capeggiata da COGNOME NOME e promossa e diretta da NOME – che si avvaleva della figlia NOME -, avente una diramazione in Campania, con sede logistica a Battipaglia. Il ruolo contestato alla COGNOME è quello di partecipe nella gestione dell’attività di spaccio e, in particolare, nella custodia, nell’occultamento della sostanza stupefacente e nel suo confezionamento. Ciò, unitamente al compagno NOME
Ì//
NOMECOGNOME imputato nel presente procedimento, non ricorrente e condannato con sentenza divenuta definitiva.
Come si è già detto in relazione alla posizione di Marino, i giudici di merito, con motivazione congrua e immune da vizi logici, hanno ritenuto che NOME e NOME, con la copertura di COGNOME NOME, avessero gestito con continuità, per un lasso temporale apprezzabile, un’attività organizzata di commercio di stupefacenti, caratterizzata fondamentalmente da reiterate forniture indirizzate verso la Campania (a brio e Caponigro) e verso la Basilicata (a Marino). Il tutto con I ‘utilizzo di risorse umane (rete di fornitori e spacciatori, copertu criminali sul territorio) e materiali (disponibilità patrimoniali, disponibilità di me e di luoghi di stoccaggio e di appoggio per l’attività, ecc.) asservite a uno stabile programma criminoso.
La Corte di appello ha attribuito, correttamente, particolare rilievo agli esit dell’attività di intercettazione, dalla quale emergeva che, in Campania, COGNOME NOME si avvaleva della collaborazione di NOME NOME per il commercio della sostanza stupefacente sul territorio. Emergeva, inoltre, che i sodali utilizzavano convenzionalmente il termine “mattonelle” o “piastrelle” per indicare la sostanza stupefacente, considerato che si trattava di un vocabolo che poteva essere giustificato dalla pregressa attività lavorativa svolta da NOMECOGNOME non destando sospetti.
COGNOME era arresto, in data 14 aprile 2018, unitamente a COGNOME NOME per la detenzione di Kg. 1,787 di marijuana e di gr. 5,9 di hashish, occultati all’interno di un garage che, dalle successive intercettazioni, risultava riconducibile a COGNOME NOME.
I Giudici di merito hanno motivato in maniera puntuale la sussistenza della affectio societatis in capo alla ricorrente. Nella sentenza di appello si fa riferimento:
-alla intercettazione del 19 dicembre 2017, che prova la responsabilità della COGNOME in ordine alla detenzione ai fini di spaccio di 500 grammi di cocaina;
alla fibrillazione di NOMECOGNOME, COGNOME NOME e COGNOME al momento dell’arresto di NOME NOME – latitante, da loro aiutato a sottrarsi all’esecuzione della misura cautelare – in occasione del quale COGNOME e COGNOME mostravano la loro disponibilità a recarsi nei pressi del B&B, dove il predetto stato arrestato – per recuperare una busta, contenente denaro e stupefacente, che NOME, per paura, aveva gettato dalla propria autovettura;
-alla conversazione tra COGNOME e COGNOME, nel corso della quale COGNOME, appena scoperto l’arresto di COGNOME, chiamava la COGNOME e le diceva di “farsi la doccia e pulire bene” (volendo, in tale modo, farle capire di nascondere la droga);
-alla conversazione nel corso della quale la COGNOME riferiva di avere occultato la rimanente sostanza stupefacente all’interno di un vaso contenente una pianta finta, posizionata, su consiglio di NOME, vicino alla finestra, in modo da poterne poi disconoscere il contenuto, nell’ipotesi in cui fosse stata rinvenuta da parte delle forze dell’ordine;
-alla presenza dell’imputata all’incontro del 10 febbraio 2018 a Rosarno con COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e NOMECOGNOME allorché si discuteva dell’esigenza di recuperare lo stupefacente di proprietà di NOME e di risolvere le questioni pendenti in Puglia e in Basilicata;
al fatto che NOME, in occasione dei soggiorni a Battipaglia, frequentava abitualmente l’abitazione della coppia;
al contributo offerto alla latitanza di COGNOME NOME, anch’egli coinvolto nell’attività dell’associazione in contestazione.
5.2. Il secondo motivo – avente ad oggetto la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine agli artt. 1, 497-bis cod. pen. e all’art. 25 Cost. è generico perché non si confronta con la puntuale motivazione fornita sul punto dalla Corte di appello.
La sentenza impugnata ha evidenziato che la conversazione del 22 dicembre 2017 dimostra con certezza che la carta di identità rinvenuta nella disponibilità di NOME NOME al momento dell’arresto, pacificamente falsa, era stata procurata da COGNOME.
La Corte di appello ha sottolineato, altresì, che:
dalla conversazione si desumeva che COGNOME era a conoscenza della circostanza che la ricorrente conosceva il falsario, tanto che si era dimostrato stupito allorché la stessa, dopo il sequestro del documento, aveva negato detta conoscenza;
–NOME condividendo le medesime perplessità, aveva confermato a Pace quanto questi già sapeva, affermando esplicitamente di avere assistito alla consegna della carta di identità falsa a Caponigro;
poiché dagli atti non emergeva alcuna ragione di dubitare di quanto COGNOME e COGNOME avevano esplicitamente affermato in un contesto colloquiale nel quale parlavano di vicende note a entrambi, la prova del fatto attribuito a COGNOME doveva ritenersi certa. La condotta contestata, del resto, era in linea con l’aiuto che, su un piano più generale, COGNOME e COGNOME avevano offerto al latitante secondo quanto contestato al capo 35).
La Corte di appello, nel ritenere configurato il reato di cui all’art. 497-bis cod. pen. si è correttamente conformata ai principi di diritto dettati da questa Corte.
Integra tale delitto il mero possesso di un documento falso valido per l’espatrio o la materiale falsificazione dello stesso, indipendentemente dall’uso che il soggetto agente intenda farne, in quanto la delimitazione dell’oggetto materiale
del reato ai suddetti documenti trova la sua giustificazione nella ritenuta maggiore pericolosità delle condotte che li riguardano e non nella intenzione di punire soltanto le condotte di effettiva agevolazione all’espatrio o all’ingresso (Sez. 5, n. 40272 del /07/2016, COGNOME e altri, Rv. 267791).
Nella specie è stata contestata al capo 35) la meno grave fattispecie di cui al primo comma e non vi può essere dubbio alcuno, alla luce della condotta sopra descritta, sulla partecipazione della COGNOME nella fase preparatoria e attuativa del reato mediante il procacciamento del documento, condotta in rapporto di causalità efficiente con il possesso e l’uso da parte del Pepè del documento falso.
5.3. Il terzo motivo – avente ad oggetto il favoreggiamento di COGNOME NOME è generico.
Risulta agli atti che NOME NOME si sottraeva alla cattura a seguito dell’esecutività dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale di Reggio Calabria nel procedimento “Narcos”.
La Corte di appello ha, con motivazione congrua e logica, ritenuto che lo stesso abbia ricevuto ausilio in detta circostanza dall’imputato in procedimento connesso NOME GiuseppeCOGNOME il quale lo ospitava presso un B&B.
Il motivo con il quale la ricorrente censura la sentenza d’appello nella parte in cui riconosce la sua responsabilità è reiterativo di doglianze alla quale la Corte ha puntualmente risposto. La sentenza ha richiamato, a questo proposito, la conversazione tra NOME, NOME Domenico e tale NOME del 10 gennaio 2019 – nel corso della quale NOME faceva riferimento al latitante, indicando in 8.000 euro il costo del suo mantenimento fino all’arresto; NOME parlava di “questi di Battipaglia”(la COGNOME e il marito NOME sono di Battipaglia) come persone che «hanno aiutato un amico nostro … questo amico nostro andava a mangiare tutti i giorni a casa di questi qua di Battipaglia»e, in ogni caso, che i prevenuti si occupassero di preparare i pasti per il predetto si desume, secondo i Giudici, da quanto gli imputati avevano affermato nella conversazione con COGNOME, intercettata nella loro abitazione il 19 dicembre 2017, mentre confezionavano sostanza stupefacente, (“Ci mandi due panini per mezzo giorno, Poi stasera se ne parla … E andiamo … E stasera gli faccio un po’ di pasta …
La sentenza impugnata ha, poi, correttamente evidenziato che COGNOME, marito della ricorrente, aveva nel telefono una delle schede intestate a extracomunitari appositamente procurate per i contatti con il latitante. Egli, inoltre, aveva frequentato fino al giorno dell’arresto il luogo dove COGNOME si trovava. E’, infine, emerso anche che il documento falso del quale era in possesso COGNOME al momento dell’arresto era stato procurato dalla COGNOME.
Non può, quindi sostenersi, come puntualmente sottolineato dai Giudici di merito – che la COGNOME, al massimo, in una sola occasione aveva cucinato per il latitante.
Emblematica è stata correttamente considerata dai giudici di primo grado la considerazione di NOMECOGNOME il quale in una conversazione del 18 dicembre 2017 avvisava la moglie NOME COGNOME NOME che durante le festività natalizie avrebbero dovuto invitare NOME NOME e sua moglie (la COGNOME), per ricambiare quello che stava facendo per lui, a dimostrazione dello stretto rapporto fiduciario esistente tra di loro.
Le condotte in questione integrano a pieno titolo il favoreggiamento della latitanza perché hanno consentito a COGNOME di rimanere nascosto senza essere costretto a recarsi in negozi per acquistare generi alimentari e quant’altro necessario per sostenersi. La disponibilità di persone presenti sul posto a breve distanza dal luogo della latitanza, poi, gli garantiva la certezza di potere chiedere assistenza tutte le volte che ne avesse avuto bisogno. L’attività ascrivibile ai due imputati, pertanto, era oggettivamente idonea a consentire a NOME di sottrarsi alle ricerche, consentendogli di uscire dal nascondiglio il minimo indispensabile e garantendogli i beni di necessità senza il rischio di effettuare acquisti in maniera tracciabile. I canale riservato che egli poteva utilizzare per comunicare con NOME è un elemento ulteriore che supporta l’ipotesi d’accusa.
La Corte di appello, in conclusione si è conformata ai principi dettati da questa Corte in tema di favoreggiamento, in base ai quali il fatto di offrire un contributo causalmente rilevante per evitare al ricercato di uscire, sia pure temporaneamente, dal suo stato di clandestinità, con l’eliminazione dei connessi ed intuibili “rischi”, significa attuare una condotta di favoreggiamento personale, poiché con tale atteggiamento, sostanzialmente, si contribuisce a garantire la persistenza della scelta di clandestinità e ad intralciare le ricerche del latitante da parte delle autorità inquirenti (Sez. 6, n. 2936 del 01/12/1999, dep. 09/03/2000, COGNOME, Rv. 217108; Sez. 6, n. 53593 del 02/12/2014, COGNOME, Rv. 261845). In tal senso si è osservato che la condotta del reato di favoreggiamento personale, che è un reato di pericolo, deve consistere in un’attività che – come avvenuto nel caso in esame – abbia frapposto un ostacolo, anche se limitato o temporaneo, allo svolgimento delle indagini, che abbia, cioè, provocato una negativa alterazione quale che sia – del contesto fattuale all’interno del quale le investigazioni e le ricerche erano in corso o si sarebbero comunque potute svolgere (Sez. 6, n. 709 del 24/10/2003 -dep. 15/01/2004-, COGNOME, Rv. 228257 – 01).
6. La sentenza impugnata, in conclusione, deve essere annullata nei confronti di COGNOME NOME e COGNOME NOME limitatamente al capo 1) e
all’aggravante di cui all’art. 416-bis 1 cod. pen. contestata negli altri capi, co rinvio per nuovo giudizio su tali capi e punto ad altra Sezione della Corte di appello
di Reggio Calabria. Vanno dichiarati inammissibili, nel resto, i ricorsi dei due
Belcastro.
Analoga declaratoria di inammissibilità va pronunciata in relazione ai ricorsi di
COGNOME NOME e NOMECOGNOME che devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della
Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME e COGNOME
Salvatore limitatamente al capo 1) e all’aggravante di cui all’art. 416-bis 1 cod.
pen. contestata negli altri capi, con rinvio per nuovo giudizio su tali capi En:UritU
ad altra Sezione della Corte di appello di Reggio Calabria.
Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi dei due COGNOME.
Dichiara inammissibili i ricorsi di COGNOME NOME e NOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 3 aprile 2025
Il Consiglie GLYPH etnsore
Il