Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 1655 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 1655 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 15/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Bari il 24/04/1979
avverso la ordinanza del 25/03/2024 del Tribunale di Bari;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Attraverso il proprio difensore, NOME COGNOME impugna l’ordinanza del Tribunale del riesame di Bari in epigrafe indicata, che ne ha confermato la custodia cautelare in carcere in relazione al delitto di partecipazione all’associazione di tipo mafioso denominata “clan COGNOME –COGNOME“, operante nel territorio del quartiere “Japigia” di quella città.
Il ricorso denuncia violazione di legge e vizi della motivazione in punto di gravità indiziaria.
2.1. Richiamata la “sentenza RAGIONE_SOCIALE” delle Sezioni unite di questa Corte (n. 36958 del 27 maggio 2021, Rv. 281889) quanto all’insufficienza della qualifica formale di “uomo d’onore” per l’integrazione del delitto in discussione, si rileva anzitutto come le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia valorizzate dall’ordinanza convergano esclusivamente sull’indicazione dell’indagato come partecipe al clan, non coincidendo, invece, quanto al grado da lui ricoperto ed al suo padrino. Il Tribunale ha giustificato tali divergenze perché quelle dichiarazioni risalgono a periodi diversi, apoditticamente ed illogicamente assumendo come fisiologica, dunque, la non sovrapponibilità delle accuse rese in momenti differenti.
L’affermazione per cui le accuse dei collaboranti convergerebbero nel loro “nucleo essenziale” risulta, dunque, una formula vuota, non essendo definite né l’esatta estensione, né la dimensione temporale di esso.
2.2. In secondo luogo, si rileva l’incongruenza logica di una condotta di partecipazione in assenza di alcun “reato-fine”, nonostante una militanza nel sodalizio che, secondo l’incolpazione provvisoria, si protrarrebbe da otto anni.
Inoltre, l’ordinanza assume che l’indagato avrebbe operato nella consorteria quale soggetto attivo nel settore degli stupefacenti e, di tanto, trae conferma dalle risultanze investigative di un separato procedimento per il delitto di associazione finalizzata al traffico di tali sostanze, pendente nei confronti di alcuni dei coindagat del Capriati quali aderenti all’associazione mafiosa: in tale procedimento, infatti, sono state intercettate due conversazioni tra terze persone, nelle quali costui viene indicato come il soggetto a cui riferirsi in caso di problemi.
Obietta, in proposito, il ricorso: per un verso, che l’inserimento del COGNOME in quel settore criminale è stato radicalmente smentito da uno dei tre collaboratori di giustizia tenuti in considerazione dal Tribunale, tale COGNOME ma soprattutto, per l’altro, che la deduzione del Tribunale risulta logicamente inconciliabile con l’estraneità dell’indagato a quel diverso procedimento per reati in materia di stupefacenti, benché riguardante essenzialmente lo stesso gruppo di persone.
2.3. Da ultimo, l’ordinanza ha dedotto la condotta partecipativa del ricorrente alla cosca anche dalla circostanza per cui egli avrebbe messo la propria abitazione a disposizione di suo cognato, per l’appostamento funzionale all’agguato omicidiario portato a termine da altri nei confronti di un avversario criminale.
Ribatte, però, il ricorso che, secondo quanto riferito da un altro dei tre anzidetti collaboratori di giustizia, tale COGNOME l’indagato non era a conoscenza della ragione per la quale il cognato gli aveva chiesto la disponibilità della casa, traendosene conferma logica, d’altronde, dall’assenza di qualsiasi addebito a lui formulato in relazione a quella vicenda delittuosa.
Ha depositato requisitoria scritta la Procura generale, concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
L’impugnazione non è fondata e dev’essere, perciò, respinta.
Benché il ricorso faccia riferimento anche ad una violazione di legge, questa viene in realtà dedotta solamente quale conseguenza di una motivazione che si assume illogica, verso la quale, nella sostanza, si appuntano le censure difensive.
L’illogicità della motivazione censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., tuttavia, è soltanto quella manifesta, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu ocu/i, senza possibilità, per la Corte di cassazione, di verificare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, COGNOME, Rv. 226074).
Da tanto consegue che non sono censurabili nel giudizio di legittimità, se non entro i limiti appena esposti, la valutazione del giudice di merito circa eventuali contrasti testimoniali o la sua scelta tra divergenti versioni e interpretazioni de fatti. Minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono, dunque, dar luogo all’annullamento della sentenza, non costituendo vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto: è solo l’esame del complesso probatorio, infatti, entro il quale ogni elemento sia contestualizzato, che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione (si vedano, a puro titolo d’esempio tra molte altre in termini, Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, COGNOME, Rv. 271623; Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M., Rv. 271227; Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013, Reggio, Rv. 254988).
Tanto premesso, deve osservarsi come il Tribunale del riesame non si sia limitato a valorizzare le dichiarazioni dei collaboranti e l’indicazione del COGNOME da parte di costoro, come soggetto formalmente inserito nei ranghi dell’associazione criminale, ma abbia dato rilievo ad emergenze investigative obiettivamente idonee a sorreggere un giudizio di gravità indiziaria e non controverse.
Tali si presentano, in particolare, alcuni dialoghi, riportati per esteso nel provvedimento impugnato, intercettati tra COGNOME e tal COGNOME (indicato
nell’ordinanza come elemento di rango del clan), in cui il primo non soltanto mostra di possedere compiuta conoscenza delle dinamiche operative interne del gruppo e dei conflitti con formazioni criminali avverse (le vicende si collocano, infatti, in un periodo di c.d. “guerra tra clan”), ma anche – e soprattutto, per quanto d’interesse ai fini del presente giudizio – di aver dato il proprio apporto ad attività decisive per la vita del gruppo, come il pedinamento dell’amante di un esponente di un clan avversario, da lui compiuto nell’ambito dell’attività preparatoria dell’omicidio di costui (pagg. 18-21, 26 s., ord.).
Al rigetto del ricorso segue obbligatoriamente la condanna del proponente a farsi carico delle relative spese (art. 616, cod. proc. pen.).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen..
Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2024.