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Associazione mafiosa: la Cassazione sui nuovi clan

La Suprema Corte ha respinto il ricorso contro una misura di custodia cautelare in carcere per un soggetto accusato di far parte di un’associazione di stampo mafioso. La sentenza chiarisce che una ‘nuova’ cellula criminale, nata da un clan storico, può essere considerata a tutti gli effetti un’associazione mafiosa, ereditandone la forza intimidatrice. Vengono inoltre confermate la validità dell’aggravante del metodo mafioso per i reati di estorsione e la presunzione di pericolosità per giustificare la misura cautelare.

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Pubblicato il 6 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Associazione di Stampo Mafioso: la Cassazione sui Criteri per i Nuovi Clan

Una recente sentenza della Corte di Cassazione affronta un tema cruciale nella lotta alla criminalità organizzata: i criteri per riconoscere una nuova associazione di stampo mafioso, specialmente quando questa sorge dalle ceneri di un clan storico. La pronuncia esamina la sussistenza dei requisiti del reato di cui all’art. 416-bis c.p. per una ‘nuova cellula’ e le relative implicazioni in termini di misure cautelari e aggravanti per i reati fine, come l’estorsione. Si tratta di una decisione che consolida l’orientamento giurisprudenziale sulla capacità delle mafie di evolversi e rigenerarsi, e sulla necessità che gli strumenti giuridici si adattino di conseguenza.

I Fatti del Caso

Il caso trae origine da un’ordinanza del Tribunale che confermava la misura della custodia cautelare in carcere per un individuo, accusato di essere partecipe di una nuova articolazione territoriale di una nota organizzazione criminale. Le accuse a suo carico includevano non solo la partecipazione all’associazione, con compiti nell’attività estorsiva e di mantenimento dei rapporti con clan limitrofi, ma anche la commissione di specifici reati di estorsione aggravati dal metodo mafioso.

La difesa ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su tre motivi principali:
1. Insussistenza dell’associazione: Secondo i legali, non vi erano prove sufficienti a dimostrare l’esistenza di una ‘nuova’ cellula mafiosa, mancando elementi essenziali come un’organizzazione efficiente, una forza di intimidazione autonoma, una cassa comune e il riconoscimento da parte di altre cosche.
2. Insussistenza dell’aggravante mafiosa: Per le estorsioni contestate, la difesa negava la presenza del ‘metodo mafioso’, sostenendo che le conversazioni intercettate non presentassero i requisiti di una minaccia di stampo mafioso.
3. Carenza delle esigenze cautelari: Infine, si contestava la necessità della custodia in carcere, evidenziando il tempo trascorso dai fatti e il fatto che l’indagato fosse già agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico.

L’analisi della Cassazione sulla nuova associazione di stampo mafioso

La Suprema Corte ha rigettato il primo motivo, ritenendolo infondato. I giudici hanno sottolineato come il Tribunale avesse correttamente ricostruito la genesi e l’ascesa della nuova cosca. Questa era sorta come una ‘costola’ di un clan storico, approfittando del vuoto di potere creatosi a seguito dell’indebolimento del gruppo egemone.

La Corte ha richiamato i principi consolidati in materia di ‘nuove mafie’ o ‘mafie atipiche’. In particolare, ha affermato che per configurare il reato di cui all’art. 416-bis non è necessario che la nuova articolazione criminale manifesti da subito una forza intimidatrice eclatante. È sufficiente che essa, attraverso il collegamento organico-funzionale con la ‘casa-madre’, erediti e spenda una ‘fama criminale’ già consolidata sul territorio. Questo collegamento permette alla nuova cellula di avvalersi di una forza di intimidazione intrinseca, pur senza atti di violenza palesi.

Nel caso specifico, il nuovo clan, pur essendo una ‘neoformazione’, presentava i tratti distintivi del sodalizio mafioso, come ricostruito attraverso le dichiarazioni convergenti di collaboratori di giustizia e le intercettazioni, che ne delineavano l’unità strutturale e lo schema direttivo.

Estorsione, metodo mafioso e misure cautelari

Anche il secondo e il terzo motivo sono stati respinti. Riguardo alle estorsioni, la Cassazione ha confermato la corretta applicazione dell’aggravante del metodo mafioso (art. 416-bis.1 c.p.). I giudici hanno chiarito che, ai fini della sua sussistenza, è sufficiente che la condotta sia tenuta con modalità che evocano la forza intimidatrice tipica dell’associazione, a prescindere dal fatto che l’autore sia formalmente un associato. Nel caso di specie, le minacce, sebbene talvolta ‘silenziose’, erano state ritenute idonee a coartare le vittime, facendo leva sulla percepita appartenenza degli autori al contesto criminale locale.

Sul fronte delle misure cautelari, la Corte ha ribadito la validità della presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari per i delitti di mafia, prevista dall’art. 275, comma 3, c.p.p. Tale presunzione può essere superata solo da prove concrete di un recesso effettivo e irreversibile dell’indagato dall’associazione. Il semplice ‘tempo silente’, ovvero il decorso di un apprezzabile lasso di tempo dai fatti contestati, non è di per sé sufficiente. Allo stesso modo, elementi come lo stato di detenzione domiciliare per altri reati o generiche offerte di risarcimento sono stati giudicati inidonei a dimostrare un affievolimento della pericolosità sociale, che in questi contesti è presunta come particolarmente elevata e persistente.

Le motivazioni

La decisione della Corte si fonda sulla coerenza logica e sulla corretta applicazione dei principi di diritto da parte del Tribunale del riesame. I giudici di legittimità hanno ritenuto che l’analisi dei giudici di merito fosse completa ed esauriente, avendo esaminato tutti gli elementi a carico e le argomentazioni difensive. La ricostruzione della nascita del nuovo clan come ‘gemmazione’ da una cosca storica è stata considerata pienamente conforme agli orientamenti giurisprudenziali. Il ricorso della difesa è stato quindi interpretato come un tentativo di sollecitare una rivalutazione dei fatti, inammissibile in sede di Cassazione. La Corte ha ribadito che il suo ruolo non è quello di riesaminare le prove, ma di verificare la correttezza giuridica e la logicità della motivazione del provvedimento impugnato, che in questo caso è stata giudicata ineccepibile.

Le conclusioni

La sentenza rappresenta un’importante conferma della linea dura della giurisprudenza nel contrasto alle mafie e alla loro capacità di evolversi. Sancisce che la forza intimidatrice di un’associazione criminale può essere ‘ereditata’ e che anche gruppi di nuova formazione, se legati a contesti mafiosi storici, possiedono una pericolosità intrinseca che giustifica l’applicazione del massimo rigore, sia in termini di qualificazione giuridica del reato, sia nell’applicazione delle misure cautelari. Per la difesa, ciò significa che per superare la presunzione di pericolosità non bastano argomentazioni generiche, ma è necessaria la prova concreta e inequivocabile di un distacco definitivo dal sodalizio criminale.

Quando un nuovo gruppo criminale può essere considerato un’associazione di stampo mafioso?
Un nuovo gruppo può essere considerato un’associazione di stampo mafioso quando emerge un collegamento organico-funzionale con una ‘casa-madre’ storica. Anche in assenza di eclatanti atti di violenza, il nuovo clan può ereditare e spendere la fama criminale e la forza intimidatrice dell’organizzazione di provenienza, integrando così i requisiti del reato di cui all’art. 416-bis c.p.

Il semplice passare del tempo può far venir meno le esigenze cautelari per un reato di mafia?
No. Per i reati di mafia vige una presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari. Il cosiddetto ‘tempo silente’ (il decorso di un apprezzabile lasso di tempo) non è sufficiente da solo a superare questa presunzione. È necessario fornire la prova di un recesso irreversibile dell’indagato dall’associazione o l’esaurimento dell’attività associativa stessa.

Qual è la differenza tra l’aggravante del metodo mafioso e quella di essere parte di un’associazione mafiosa in un’estorsione?
L’aggravante di aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. (c.d. ‘metodo mafioso’) presuppone che la condotta sia tenuta con modalità intimidatorie tipiche della mafia, ma non richiede che l’autore sia un membro dell’associazione. L’aggravante di aver commesso il fatto da persona appartenente all’associazione mafiosa, invece, postula la provenienza della violenza o minaccia da un soggetto che è parte del sodalizio, a prescindere dalle specifiche modalità di esercizio della minaccia.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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