Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 25519 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 25519 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 17/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOMECOGNOME nato il 21/09/1959 a Giugliano in Campania;
NOME NOMECOGNOME nato il 11/10/1951 a Giugliano in Campania;
COGNOME nato il 07/11/1979 a Aversa;
NOMECOGNOME nato il 29/08/1971 a Mugnano di Napoli;
COGNOME NOMECOGNOME nato il 01/12/1959 a Giugliano in Campania;
NOME NOME, nato il 23/02/1962 a Giugliano in Campania;
NOME COGNOME nata il 08/12/1956 a Giugliano in Campania;
COGNOME NOMECOGNOME nato il 02/04/1976 a Napoli;
NOME nata il 09/08/1968 in Ucraina;
COGNOME NOMECOGNOME nato il 14/05/1978 a Napoli;
COGNOME NOMECOGNOME nato il 15/05/1943 a Monteforte Irpino;
COGNOME NOMECOGNOME nato il 09/01/1968 a Giugliano in Campania
avverso la sentenza del 13/06/2024 dalla Corte d’appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procu NOME COGNOME che chiede l’inammissibilità, dei ricorsi di NOME Oli NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME nonché il rigetto de ricorsi di NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME ad eccezione, per quest’ultima, del motivo sulla confisca, per il quale chiede l’annullamento sentenza con rinvio;
uditi l’Avvocato NOME COGNOME per NOME COGNOME l’Avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME e di NOME COGNOME l’Avvoca NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME l’Avvocato NOME COGNOME difesa di NOME COGNOME; l’Avvocato NOME COGNOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME l’Avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e, quale sostituto processuale dell’ Avvocato NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME, l’Avvocato NOME COGNOME in difesa d NOME COGNOME, l’Avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME i quali tutti insistono per l’accoglimento dei ricorsi nonché l’Avvocato COGNOME in difesa di NOME COGNOME che oltre ad insiste per l’accogli del ricorso, chiede l’estensione al proprio assistito dei motivi sull’art. 238 proc. pen. presentati per COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
All’esito di giudizio abbreviato, il Giudice dell’udienza prelimina Tribunale di Napoli aveva condannato:
NOME COGNOME per i reati di cui ai capi A) (associazione di sta mafioso: art. 416-bis cod. pen.), F) (estorsione aggravata: art. 629 pen.; 416-bis.1 cod. pen.), G) (estorsione aggravata: art. 629 cod. p 416-bis.1 cod. pen.), I) (false dichiarazioni o attestazioni in atti d alla autorità giudiziaria aggravate: art. 374-bis cod. pen.; 416-bis.1 cod. pen.), N) (autoriciclaggio aggravato: art. 648-ter.1 cod. pen.; 416-b cod. pen.), P) (autoriciclaggio aggravato: art. 648-ter.1 cod. pen.; bis.1 cod. pen.); S (evasione aggravata: art. 385 cod. pen.; 416-bis cod. pen.);
NOME COGNOME per i reati di cui ai capi A) (associazione di sta mafioso: art. 416-bis cod. pen.), D) (estorsione aggravata; artt. 416-bis.1 cod. pen.), E) (estorsione aggravata: artt. 629; 416-bis) (estorsione aggravata: artt. 629; 416-bis.1 cod. pen.);
NOME COGNOME per il reato di cui al capo A) (associazione di stamp mafioso: art. 416-bis);
NOME COGNOME per il reato di cui al capo A) .(associazione di stam mafioso: art. 416-bis cod. pen.);
NOME COGNOME per il reato di cui al capo A) (associazione di stam mafioso: art. 416-bis cod. pen.);
NOME COGNOME per il reato di cui al capo G) (estorsione aggrava artt. 629; 416-bis.1 cod. pen.);
NOME COGNOME per il reato di cui al capo A) (dopo aver riqualificat partecipazione in concorso in associazione di stampo mafioso: artt. 11 416-bis cod. pen.);
NOME COGNOME per i reati di cui ai capi A) (dopo aver riqualificato partecipazione in concorso in associazione di stampo mafioso: artt. 11 416-bis cod. pen.); R) (truffa ai danni dello Stato: art. 640-bis cod. P) (autoriciclaggio: art. 648-ter cod. pen.);
NOME COGNOME per il reato di cui al capo A) (associazione di sta mafioso: art. 416-bis cod. pen.);
NOME COGNOME per i reati di cui ai capi A) (associazione di stam mafioso: art. 416-bis cod. pen), E) (estorsione aggravata: artt. 629; bis.1 cod. pen.), T) (estorsione aggravata: artt. 629; 416-bis.1 cod. p e U) (estorsione aggravata: artt. 629; 416-bis.1 cod. pen.);
NOME COGNOME per il reato di cui al capo A) (associazione di stam mafioso: art. 416-bis cod. pen.);
NOME COGNOME per il reato di cui al capo A) (associazione di sta mafioso: art. 416-bis cod. pen.).
Con la sentenza in epigrafe, la Corte d’appello di Napoli:
assolveva NOME COGNOME dai reati di cui ai capi N) (artt. 648-ter.1; bis cod. pen.) e P) (artt. 648-ter.1; 416-bis cod. pen.) perché il fa costituisce reato, riternninando per i restanti reati la pena in quattordi quattro mesi di reclusione;
assolveva NOME dal reato di cui al capo P) (artt. 648-ter. 416-bis cod. pen.) e rideterminava la pena, riqualificata l’ipotesi delittuos al capo A) (art. 416-bis, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6) in quella di cui all’art commi 1 e 4, prima parte, cod. pen., con le già concesse attenuanti gener (art. 62-bis cod. pen.) in misura equivalente all’aggravante, in sei anni e d mesi di reclusione;
confermava la sentenza, emessa all’esito di giudizio abbreviato, nei confronti dei restanti imputati, riqualificando per NOME COGNOME l’ipotesi delittuosa de capo A). in quella di cui all’art. 416-bis, commi 1 e. 4, prima parte, cod..pen.
Ha presentato ricorso NOME COGNOME per il tramite dell’Avv. NOME COGNOME articolando cinque motivi.
3.1. Vizio di motivazione quanto al delitto di estorsione aggravata di cui al capo F).
La conversazione valorizzata dal Giudice di primo grado come prova del reato – inerente ad un cambio di assegni – era una richiesta avanzata a titolo di cortesia personale dall’imputato per il tramite di COGNOME. La Corte d’appello ha tuttavia ritenuto assenti elementi a riprova dei pregressi rapporti di amicizia tra i due sebbene dalla conversazione emergessero dimestichezza e comportamento dialettico: non invece timore, da parte di COGNOME, nei confronti dell’imputato.
3.2. Vizio di motivazione quanto all’estorsione aggravata di cui al capo G).
Un discorso analogo vale per la captazione del 20 ottobre 2017, nel corso della quale COGNOME avrebbe invitato COGNOME a garantire il versamento della somma prima del 23, in quanto in tale data sarebbe ripartito, essendosi accertato altresì che COGNOME effettivamente, il giorno 23, si recò presso l’abitazione de ricorrente. Ma COGNOME contattò COGNOME soltanto alle 13:25 e, dopo, andò all’abitazione di COGNOME che, nel frattempo, se ne era allontanato per tornare a Busano, dove era sottoposto a detenzione domiciliare.
Quindi, se fosse stato vero che COGNOME doveva consegnare una quota della tangente al ricorrente, non si comprende perché avrebbe contattato COGNOME in un’ora così avanzata e perché si sarebbe recato a casa del ricorrente quando questi era già partito.
3.3. Violazione di legge quanto al riconoscimento dell’aggravante mafiosa.
Costituisce petizione di principio l’affermazione secondo cui il ricorrente agì in modo da accreditarsi come esponente della criminalità organizzata, non potendo tale circostanza essere desunta dal mero contesto criminale di appartenenza degli autori, in mancanza di condotte criminose, anche solo allusive, da cui emerga luso effettivo di modalità coercitiva o la finalità di agevolare l’associazion l’affermazione per cui le somme erano destinate ad alimentare le casse del clan essendo meramente ipotetica.
3.4. Vizio di motivazione quanto alla contestazione dell’associazione mafiosa.
La Corte d’appello ha capziosamente usato elementi neutri per corroborare la tesi che il ricorrente rivestisse un ruolo apicale all’interno del clan COGNOME. Ha cioè fatto riferimento: ad una conversazione, tra COGNOME e COGNOME, nel corso della quale si parlava di uno “zio”, sebbene il termine non sia univocamente
allusivo ad NOME, posto che, in ambito partenopeo, indica persone di età avanzata; all’annotazione di polizia giudiziaria, che riferisce una notizia anonima, secondo cui il ricorrente avrebbe incontrato vari soggetti ritenuti appartenenti alla criminalità organizzata; alla convocazione di Caracallo, avvenuta ben quindici giorni prima dell’avvio della collaborazione, non potendosi opinare che l’imputato fosse già consapevole che Caracallo aveva scelto di collaborare.
Anche i collaboratori riferiscono fatti remoti e sono poco attendibili (ciò val anche per COGNOME, che nutriva rancore verso il ricorrente, ritenuto responsabile di voler attentare alla sua vita).
Né avrebbe dovuto trascurarsi che NOME era stato detenuto sin dal 1997 e che il suo intervento, nel 2017, conseguì alla scissione nel gruppo, con conseguente fibrillazione dello stesso, e che dipese, quindi, dalla necessità di dirimere questioni insorte contro il suo volere, come dimostrato dalle conversazioni, da cui si desume l’intento di rimanere estraneo al clan e alle sue logiche.
3.5. Violazione di legge e vizio di motivazione sul trattamento sanzionatorio.
I Giudici dell’appello non hanno spiegato le ragioni per cui hanno negato le circostanze attenuanti generiche, non potendosi ritenere valida una valutazione espressa nei confronti di tutti gli imputati con l’eccezione di alcune posizioni.
Nemmeno hanno motivato la commisurazione della pena, mancando qualsiasi riferimento alla gravità del fatto che, già in base alla sua descrizione, non presentava particolare offensività.
La necessità di una motivazione derivava dal discostamento della pena dal minimo edittale e dall’aumento eccessivo per la continuazione.
Sempre per il tramite dell’Avv. NOME COGNOME ha presentato ricorso NOME COGNOME deducendo i seguenti sei motivi.
4.1. Vizio di motivazione quanto alla contestazione del reato di estorsione aggravata con riferimento al capo D).
Dalle conversazioni del 18 dicembre 2017 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME è emerso un fatto diverso da quello ritenuto dalla Corte di appello, e cioè che i due conversanti, nel fare riferimento a pregressi atteggiamenti vessatori a danno di COGNOME, precisavano come questi allo stato non andasse infastidito, nessun altro significato potendo conferirsi al timore dei due conversanti per le rappresaglie truculente che sarebbero seguite ove si fossero recati al bar per chiedere il “regalo”.
4.2. Vizio di motivazione quanto alla contestazione del reato di estorsione aggravata con riferimento al capo U).
Analoga carenza e illogicità della motivazione emerge quanto alla condotta estorsiva che si assume consumata in danno di tal NOME COGNOME ad onta del carattere amichevole con scherzoso scambio di battute – della conversazione intercettata che, secondo la Corte d’appello, in base all’id quod plerumque accidit, non escluderebbe la configurabilità del reato.
4.3. Violazione di legge quanto al riconoscimento dell’aggravante mafiosa.
Costituisce petizione di principio l’affermazione che il ricorrente avrebbe agito in modo da accreditarsi come esponente della criminalità organizzata, non potendo tale circostanza essere desunta dal contesto criminale di appartenenza degli autori, in mancanza di condotte criminose, anche solo allusive, che denotino l’effettivo utilizzo di modalità coercitiva o la finalità di agevolare l’associazi restando meramente ipotetica l’affermazione per cui le somme sarebbero state destinate ad alimentare le casse del clan.
4.4. Violazione di legge penale quanto al riconoscimento della qualifica di organizzatore e dirigente dell’associazione.
Non rappresenta idonea motivazione il richiamo alle captazioni in cui l’interlocutore si rivolge a COGNOME dandogli del “voi” – è proprio della cultur partenopea riferirsi in tal modo a persone anziane, qual è l’imputato – né all’intercettazione in cui il medesimo COGNOME avrebbe rimproverato COGNOME per essersi appropriato di parte delle somme, in difetto di qualunque interazione tra l’imputato e COGNOME in rapporto all’episodio contestato al capo E).
D’altronde, NOME, nelle conversazioni, faceva riferimento ai suoi luogotenenti indicandoli come «due ragazzi che sarebbero stati cresciuti», usando cioè una locuzione che non può attagliarsi, per ragioni anagrafiche, a Quaranta.
Nessun contributo è venuto in proposito dai collaboratori di giustizia, di cui era già stata rilevata l’inattendibilità.
Infine, dalle conversazioni captate emerge che le decisioni del ricorrente non erano ritenute meritevoli di alcuna osservanza.
4.5. Violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio.
Quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, la Corte ricorre ad una formula di stile valorizzando unicamente la gravità del fatto – peraltro solo asserita – che dimostrerebbe un agire mafioso e la disponibilità di armi, elemento non ostativo all’applicazione delle circostanze stesse, essendo pacifico che queste non presuppongono necessariamente la tenuità del fatto di reato, potendosi fondare su presupposti differenti e dovendo comunque la discrezionalità del giudice essere adeguatamente motivata.
Né può revocarsi in dubbio che tra i criteri valorizzabili rientri comportamento processuale dell’imputato, che comprende le condotte collaborative volte a favorire il complessivo accertamento dei fatti o l’ite processuale così come, più in generale, la lealtà processuale dell’imputato.
4.6. Violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento della continuazione con precedente sentenza passata in giudicato.
Con l’atto d’appello era stato richiesto di riconoscere la continuazione con fatti giudicati con sentenza della Corte di Appello Napoli del 24 settembre 2020, passata in giudicato il 7 giugno 2022.
Nella sentenza impugnata, la Corte non ha accolto la richiesta, pur riconoscendo che si trattava di delitti di estorsione commessi nel medesimo lasso temporale, osservando che la condotta per cui era intervenuta condanna definitiva era stata depurata dalla contestata circostanza aggravante mafiosa, sicché i fatti dovevano ritenersi estemporanei e scollegati dalla consorteria criminale.
Ma tale dato derivava, piuttosto, dal mancato raggiungimento della prova di tali elementi.
Né si è considerato come nel compendio probatorio fosse stato acquisito anche il contributo dichiarativo del collaboratore di giustizia COGNOME il quale, i relazione alle estorsioni commesse in danno di strutture alberghiere, aveva attribuito a COGNOME la determinazione di imporre il pagamento di una tangente, così dimostrando che le condotte giudicate con sentenza del 2020 si inserivano perfettamente nella vicenda odierna.
4.7. NOME COGNOME ha altresì presentato, per il tramite dell’Avv. NOME COGNOME, motivi nuovi, in cui insiste per il riconoscimento della continuazione con le estorsioni per cui era intervenuta precedente condanna definitiva, trattandosi dei medesimi reati, commessi nel medesimo lasso temporale e nello stesso contesto territoriale di quelli per cui oggi si procede, ed avendo la Corte d’appello omesso una valutazione globale che, alla luce delle emergenze emerse nell’attuale giudizio – in cui è risultato che l’imputato era il responsabile delle estorsioni per fascia costiera all’interno della associazione – avrebbe riempito retrospettivamente di significato mafioso anche i fatti per cui era già intervenuta sentenza definitiva di condanna.
Ha presentato ricorso NOME COGNOME per il tramite dell’Avv. NOME COGNOME deducendo tre motivi.
5.1. Errata applicazione dell’art. 416-bis cod. pen.
La Corte d’appello non ha motivato l’elemento psicologico della partecipazione dell’imputato al consorzio criminoso, partecipazione desunta dalle dichiarazioni
assai risalenti nel tempo e generiche dei collaboratori di giustizia (NOME COGNOME NOME COGNOME e la compagna di questi, NOME COGNOME).
Premesso .che COGNOME non è. stato condannato per alcun reato-fine,, la partecipazione all’organizzazione criminale va intesa non quale acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionale, il che significa che deve essere desunta, oltre che dalla consumazione di reati-fine, significativa della messa a disposizione del partecipe, da facta concludentia da cui possa inferirsi lo stabile inserimento nel consorzio criminoso.
Conseguentemente, isolati coinvolgimenti in attività criminali, pur lasciando intendere una cointeressenza in affari illeciti ed una conoscenza pregressa, non sono sufficienti, in mancanza di elementi ulteriori, a concretizzare in capo al soggetto la prova, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza per il reato associativo (tale prospettazione era tutt’al più condivisibile nella richiesta d Pubblico ministero, che aveva contestato un reato estorsivo, ma non si giustifica dopo che il Giudice per le indagini preliminari ne ha ritenuto insussistenti i grav indizi già in fase cautelare).
Si deduce, inoltre, vizio di motivazione sulla questione della circolarità delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME.
La Corte di appello ritiene credibili le dichiarazioni di NOME COGNOME in quanto persona estranea al contesto associativo, che avrebbe offerto un riscontro inequivocabile alle dichiarazioni del compagno, collaboratore di giustizia, NOME COGNOME.
Posto che COGNOME avrebbe avvicinato COGNOME dicendole che al compagno «non sarebbe mancato niente se fosse entrato in carcere abbandonando l’idea di collaborare con la giustizia», in appello si era osservato come la circostanza che la donna aveva riferito che alcuni soggetti si erano recati presso la propria la sua abitazione fosse del tutto priva di valore probatorio, con la conseguenza che l’unica dichiarazione suscettibile di riscontrare il narrato di NOME COGNOME è quella NOME COGNOME che però, al di là del contenuto, era stata resa prima del periodo in contestazione.
Al fine di minare l’attendibilità delle dichiarazioni di NOME COGNOME s allegava inoltre alla memoria di primo grado l’ordine di esecuzione per la carcerazione nei confronti di NOME COGNOME, da cui emergeva che i fratelli NOME NOME ed NOME, dopo aver venduto parte della droga detenuta per conto di soggetti legati al clan COGNOME–COGNOME, avevano programmato di concerto con la loro madre, appunto NOME COGNOME, di simulare minacce di morte ai propri danni: ciò al fine di recarsi dai Carabinieri ed aderire al programma di protezione quali familiari NOME COGNOME. E si evidenziava come emblematico, in questa vicenda, fosse il ruolo strategico della donna, con la conseguenza non avrebbe
potuto escludersi che pure le dichiarazioni afferenti all’imputato fossero state rese al precipuo scopo di guadagnarsi l’agognata protezione.
. COGNOME A tali deduzioni la sentenza di secondo grado non ha risposto, discostandosi anche dall’insegnamento di legittimità per cui, in tema di chiamate in correità, il propalato di ciascun dichiarante deve possedere i requisiti della specificità, coerenza, costanza e spontaneità e le dichiarazioni dei collaboratori devono riscontrarsi reciprocamente e in maniera individualizzante.
5.2. Violazione dell’art. 416-bis, comma 4, prima parte, cod. pen.
I Giudici di primo e di secondo grado, con motivazione apodittica e lacunosa, hanno riutenuto che la partecipazione dell’imputato all’associazione camorristica fosse aggravata dalla consapevolezza del possesso delle armi da parte degli associati, fondando la sussistenza di tale aggravante su elementi di natura oggettiva. Non spiegano però da che cosa si desuma la consapevolezza o la conoscibilità, da parte di COGNOME, di tale dato.
5.3. Violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
La Corte d’appello ha negato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche – chieste anche solo in bilanciamento con l’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen. – con una motivazione unica per tutti gli imputati, limitandosi ad affermare che non è ravvisabile alcun elemento di segno positivo a sostegno di una mitigazione del trattamento sanzionatorio: dimenticando, quindi, che la scelta di non praticare un atteggiamento collaborativo, e finanche di mentire, rientra nel diritto di difesa dell’imputato.
È inoltre evidente la disparità di trattamento rispetto al coimputato NOME COGNOME del pari chiamato a rispondere del capo A) con il ruolo di soggetto alle dirette dipendenze, in qualità di autista del reggente del clan, NOME COGNOME e che partecipava all’organizzazione degli incontri tra il suddetto COGNOME e i diversi affiliati all’associazione.
Il ricorso presentato da NOME COGNOME per il tramite dell’avv. NOME COGNOME consta di due motivi.
6.1. Errata applicazione dell’art 416-bis, comma 2, cod. pen. e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato.
La Corte d’appello ha affermato di condividere integralmente le motivazioni del giudice di primo grado, ritenendo che la prova dell’esistenza dell’associazione e della partecipazione dell’imputato sia stata fornita dai collaboratori di giustizi dalle intercettazioni telefoniche e ambientali e dalle sentenze passate in giudicato.
Tuttavia, già in appello, erano state rilevate:
–
la mancanza di qualunque dichiarazione sulla persona di COGNOME da parte dei pur numerosi collaboratori di giustizia (tra cui COGNOME che, nell’illustrare GLYPH l’organigramma della consorteria GLYPH malavitosa, fece riferimento a NOME COGNOME di cui si assume in sentenza che COGNOME fosse il “segretario”, ma non anche al COGNOME);
-l’incensuratezza dell’imputato;
-la mancanza di riscontri in ordine a frequentazioni con soggetti affiliati a clan, diversi da NOME COGNOME
Si osservava, inoltre, come dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali emergesse sicuramente un legame di fiducia tra COGNOME e NOME COGNOME, dal momento che il primo lavorava molte ore al giorno nel bar il cui amministratore era il figlio di COGNOME (quindi, riconducibile alla sua famiglia); che, ciò nondimeno non sono state intercettate conversazioni da cui desumere uno stabile rapporto tra l’imputato e l’organizzazione.
La Corte di Appello ha contraddetto dunque se stessa là dove ha richiamato i principi di diritto espressi dalla Corte di legittimità, ricordando che non sufficiente, per la configurazione del reato, una contiguità compiacente o la mera vicinanza ad esponenti di spicco del sodalizio mafioso. L’unica circostanza provata è che COGNOME NOME era dipendente del bar di cui era titolare il figlio di NOME COGNOME: ma tale elemento è neutro, il rapporto formale di dipendenza escludendo peraltro qualsiasi attività di occultamento.
La Corte di secondo grado non ha poi precisato quali siano le intercettazioni che richiama. Anche poi a ritenere che intendesse riferirsi alla pronuncia di primo grado ed all’intercettazione di cui al progr. n. 235, non si è confrontata con le deduzioni in appello, volte a rilevare come non assurgesse neppure ad indizio la circostanza che COGNOME conoscesse e avesse discusso un episodio criminoso occorso nel proprio paese, riportato dalle cronache giudiziarie, e che era frutto di errore la circostanza secondo cui NOME COGNOME era in contatto con l’imputato, tale dato non essendo presente nell’incartamento processuale.
Ha citato, inoltre, una conversazione senza avvedersi che risaliva ad un mese dopo le altre con le quali era posta in relazione: ciò a dimostrazione del fatto che la conclusione dei Giudici si è basata su intercettazioni non univoche, sprovviste del necessario supporto probatorio.
Tali intercettazioni non hanno trovato comunque riscontro nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (visto che, come già evidenziato, NOME COGNOME, profondo conoscitore delle dinamiche del clan, nel descrivere l’organigramma dell’associazione non indicò l’imputato), né nell’ordinanza n. 6670/2010 RGNR, richiamata solo genericamente, tanto più che COGNOME non fu imputato in quel procedimento, a seguito dell’annullamento dell’ordinanza da parte del Tribunale
del riesame, e che sarebbe stato controproducente scegliere quale prestanome un soggetto intraneo alla compagine associativa, la figura del prestanome non conciliandosi co.n quella dell’associato.
6.2. Errata applicazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
La motivazione con cui il Giudice di primo grado aveva negato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche per tutti gli imputati, ad eccezione di quattro, era che nessuno aveva fornito un contributo alle indagini, ammesso i fatti o risarcito le vittime, ciò anche a prescindere dai precedenti penali.
L’imputato aveva dedotto di essere incensurato e di non aver contestazione di reati con vittime individuate da poter, quindi, risarcire.
La Corte di appello ha confermato la decisione del Tribunale, in mancanza di elementi positivamente valutabili; dunque, rendendo una motivazione soltanto apparente.
NOME COGNOME ha presentato due ricorsi.
7.1. Nell’impugnazione a firma dell’avvocato NOME COGNOME sono dedotti i seguenti cinque motivi.
7.1.1. Violazione degli artt. 521, 187 e 178, lett. c), cod. proc. pen., pe difformità tra fatto ritenuto e fatto contestato nel capo A).
In appello era stato dedotto il difetto di correlazione tra sentenza e accusa richiesta dall’art. 521 cod. proc. pen., dal momento che nella contestazione il ruolo partecipativo del ricorrente era fatto consistere in quello di collettore delle tangen da consegnare al cognato NOME COGNOME; nella sentenza di primo grado tale ruolo è stato invece ravvisato in quello di imprenditore edile che lavorava con il sostegno del clan.
I Giudici di merito si sono quindi discostati dall’insegnamento di Sez. U., n. 36958 del 27/05/2021, COGNOME, Rv. 281889, che, allo scopo di compensare la scarsa determinatezza della fattispecie partecipativa, avvertono come il fatto contestato debba essere ben precisato nei suoi elementi costitutivi e poi adeguatamente provato, dimostrando, sul piano soggettivo, l’affectio societatis e, su quello oggettivo, il fattivo inserimento nell’organizzazione criminale.
La Corte d’appello, in particolare, ha risposto alle deduzioni difensive invocando arresti giurisprudenziali che mal si conciliano con la vicenda in esame e con una lettura dell’art. 521 cod. proc. pen. che deve essere orientata ai principi affermati dalla Corte di giustizia U.E., sez. IV, 9 novembre 2023, causa C-175/22, BK, secondo cui l’imputato va messo in grado di partecipare in maniera effettiva alla discussione sulla fondatezza dell’accusa sia che il fatto sia lo stesso ma diversamente qualificato, sia che esso muti nei suoi elementi costitutivi, ed in cui
si afferma che, anche in caso di diversa qualificazione giuridica, occorre dare all’imputato una corretta informazione per consentirgli una adeguata difesa.
Inoltre, ove hanno, negato la violazione del diritto di difesa, i Giudici di second grado hanno offerto una motivazione inappagante, dal momento che la difesa aveva dimostrato che, anche a ritenere che il ruolo partecipativo di COGNOME fosse legato a quello di imprenditore edile, la sua attività non era stata svolta in regime di monopolio camorristico.
Infine, nella misura in cui assume che, pur avendo l’attività di indagine dimostrato che l’affiliazione del COGNOME era per lo più fondata sull’attività imprenditore edile, ne è emerso anche il compito di raccoglitore dei proventi illeciti, la motivazione ha operato uno stravolgimento della condotta contestata.
7.1.2. Violazione di legge penale vizio di motivazione con riferimento alla mancata dimostrazione dell’appartenenza dell’imputato all’associazione mafiosa.
L’affermazione di responsabilità del ricorrente è stata basata sulle chiamate in correità di NOME COGNOME e di NOME COGNOME.
Tuttavia, come già dedotto in appello, non è stata dimostrata né la condotta di collettore delle tangenti in sé, né la sua rilevanza ai fini della partecipazione.
Sotto il primo profilo, i due collaboratori avevano parlato dell’imputato rispettivamente in un solo verbale di interrogatorio, in una sola occasione e in maniera sommaria; nessuno dei due aveva collocato COGNOME nei ruoli del clan; COGNOME non lo aveva indicato tra gli associati da lui riconosciuti (lo aveva inserit in un sommario elenco di imprenditori edili sostenuti dal associazione) e COGNOME addirittura lo aveva escluso in maniera decisa e formale.
Senza replica sono del pari rimaste le deduzioni sull’inaffidabilità, per genericità, dell’apporto dichiarativo sulla posizione del ricorrente – la prova dichiarativa non è precisa, dettagliata e sufficientemente estesa, come invece richiesto dall’art. 194, comma 3, cod. proc. pen. -, i due pentiti essendosi limitat a descrivere il “fenomeno” delle costruzioni abusive ad opera di alcune imprese senza indicare, però, fatti determinati in relazione alla prestazione di COGNOME al servizio del clan.
Peraltro, la appartenenza all’associazione di COGNOME è stata argomentata solo sulla base di questi dati, il che inficia ulteriormente il percorso argomentativo della Corte di appello.
A riscontro di tali dichiarazioni sono stati riportati i contenuti intercettativ conversazioni che, sia per la loro collocazione temporale – agosto 2017 e poi marzo-maggio 2018 – sia perché limitate a provare le consegne di denaro che il ricorrente, con la moglie nonché sorella di NOME, avrebbe fatto fare al cognato, non si prestano a riscontrare l’ipotesi che l’impresa di NOME lavorasse per il clan e nemmeno che quel denaro provenisse da tangenti.
Infatti, i collaboratori di giustizia, parlando dell’imputato, avevano entrambi collocato i fatti anni prima delle captazioni da cui le sentenze hanno inferito che NOME, in occasione di due visite ad Olimpio, gli avrebbe consegnato somme di denaro ritenute – senza argomentare – di illecita provenienza.
I Giudici dell’appello nemmeno hanno risposto alle deduzioni in appello con cui si rilevava il travisamento della prova captativa, insuscettibile di fondare l responsabilità dell’imputato perché inidonea a dimostrare la natura stabile del contributo all’associazione.
7.1.3. Errata qualificazione della condotta come partecipazione ad associazione piuttosto che come concorso esterno all’associazione o come favoreggiamento. Vizio di motivazione quanto alle prove dichiarative e captative.
La Corte d’appello ha reputato non pertinente la diversa qualificazione della condotta così come invocata dall’imputato.
Tuttavia, la motivazione ha fatto riferimento alla prestazione di un’attività di impresa che è condotta materiale diversa da quella enunciata nel capo di imputazione.
Inoltre, a tale attività, genericamente indicata e lontana nel tempo dalle captazioni, fanno riferimento due sole chiamate in correità, con la conseguenza che non può dirsi raggiunto l’elevato standard probatorio richiesto dalla citata Sez. U Modaffari per la prova dell’affectio societatis.
Al che va aggiunto che non era il ricorrente a far visita al cognato per portargli danaro. Al contrario, in occasione delle visite, NOME lo sollecitava perché gli portasse le somme per il suo sostentamento. Sicché la condotta materiale del consegnare denaro che, se proveniente da tangenti, era già acquisito alle casse del clan, prima e senza il contributo del ricorrente, si poneva al di fuori dell’oggetto sociale dell’associazione contestata.
La condotta di destinazione al cognato, per il suo sostentamento in località lontana dal nucleo familiare, quand’anche penalmente rilevante, non riguarderebbe, quindi, una contribuzione permanente al mantenimento in vita dell’associazione, ma, al massimo, un contributo contingente e al singolo associato, configurando l’ipotesi di concorso esterno all’associazione mafiosa oppure, trattandosi di condotta post delictum, quella di favoreggiamento, ai sensi dell’art. 378 cod. pen. o dell’art. 379 cod. pen.
7.1.4. Errata applicazione della legge penale e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen.
La Corte d’appello, ai fini della sussistenza dell’aggravante del carattere armato dell’associazione, ha assunto fosse sufficiente la consapevolezza della disponibilità di armi in capo al gruppo o anche la colpevole ignoranza di tale disponibilità.
Ha quindi reputato provato il carattere armato dell’associazione, desumendolo dalla caratura criminale degli associati, per poi inferirne il suddetto coefficiente d prevedibilità e, .con riferimento alla specifica posizione del ricorrente, valorizzar il grado di parentela con NOME, di fatto qualificando la disponibilità di armi come una caratteristica implicita e connaturata all’associazione e dimenticando che lo standard di prova necessario per il riconoscimento di un’aggravante, tanto più se ad effetto speciale come quella in oggetto, non può essere inferiore a quello richiesto per il delitto cui essa si riferisce, e che la giurisprudenza di legitti esclude ogni automatismo tra l’esistenza di un gruppo mafioso, anche storico, e la disponibilità di armi.
7.1.5. Vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Le attenuanti generiche sono state invocate perché la ritenuta affiliazione del ricorrente è fatta discendere in pratica solo dallo stretto grado di parentela con il cognato NOME COGNOME marito della sorella.
Sia nel contestato ruolo di latore di somme di denaro da destinare al cognato, sia in quello di imprenditore edile, il punto di riferimento di NOME è, quind sempre e solo il cognato, il che denota un grado di adesione agli scopi associativi debole dal punto di vista del dolo e della materialità della condotta.
A ciò si aggiunga che le attenuanti generiche sono state riconosciute a tutti i coimputati che, legati da stretto vincolo di parentela con NOME, avessero avuto rapporti solo con lui o quasi soltanto con lui. Di conseguenza, è irragionevole non riconoscerle al ricorrente, incensurato, sessantacinquenne e dedito ad attività lavorativa.
7.2. Il ricorso a firma dell’Avv. NOME COGNOME si articola n seguenti cinque motivi.
7.2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta responsabilità dell’imputato per il delitto di partecipazione all’associazione camorristica.
Nel confermare la sentenza di primo grado, la Corte di appello si è limitata a richiamare genericamente le dichiarazioni di collaboratori di giustizia, ritenendole intrinsecamente ed estrinsecamente attendibili, senza operarne una valutazione critica e approfondita.
Ha poi fatto riferimento all’esistenza di intercettazioni telefoniche ed ambientali acquisite al fascicolo del Giudice per le indagini preliminari, intese come riscontro alle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori, senza però citarle in modo specifico e dettagliato in motivazione.
Non ha quindi affrontato la questione centrale sollevata in appello, concernente la necessaria e puntuale valutazione degli elementi di criticità rispetto alJa presunta partecipazione del ricorrente all’associazione camorristica, incorrendo in un vizio di motivazione.
Ha infatti risposto in modo parziale alle doglianze difensive, concentrandosi soltanto sulla qualificazione giuridica del fatto, senza replicare: alla censura relativa al contenuto delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia COGNOME, nonché alla valutazione della loro attendibilità personale; alla doglianza relativa al dato intercettativo; alla dedotta mancanza di elementi a supporto dell’adesione del ricorrente al proposito associativo.
Non soltanto, in presenza di deduzioni puntuali, la Corte d’appello non avrebbe potuto limitarsi ad una motivazione per relationem, ma ha ritenuto attendibili le accuse mosse dai collaboratori, senza specificarne i dettagli e senza considerare la peculiarità del caso concreto: senza, cioè, tener conto delle contraddizioni e delle lacune puntualmente evidenziate dalla difesa in appello (di conseguenza, ha richiamato una giurisprudenza di legittimità non pertinente nel caso di specie).
Ha svolto, inoltre, una valutazione riferita a tutti e venti i collaboratori, sen alcuna distinzione e senza analizzarne personalità o contributo narrativo.
Non ha, cioè, compiuto una valutazione autonoma e approfondita degli elementi probatori, limitandosi ad una conferma acritica della sentenza di primo grado ed è contravvenuta all’insegnamento di legittimità per cui le valutazioni di attendibilità di ciascun collaboratore di giustizia non possono essere basate sulle sole corrispondenti valutazioni espresse in precedenti sentenze, poi divenute irrevocabili, poiché tali valutazioni non comportano l’attribuzione di una sorta di patente di attendibilità, gravando invece sul giudice di merito l’obbligo argonnentativo in ordine alla credibilità soggettiva del dichiarante alla credibilit oggettiva delle dichiarazioni (Sez. 1, n. 15955 del 19/10/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 286245).
La Corte d’appello si è limitata a validare acriticamente il giudizio di attendibilità espresso in altro procedimento, senza il necessario approfondimento in termini di individualizzazione e contestualizzazione: mancanza tanto più grave, poiché non era stato individuato alcun riscontro che collegasse il fatto storico a NOME COGNOME (tradendo così l’insegnamento di Sez. U. n. 20804 del 29/11/2012, Acquilina, Rv. 255145).
A ciò si deve aggiungere che la Corte non ha adeguatamente valutato come il collaboratore COGNOME avesse reso dichiarazioni contrastanti con quelle di COGNOME, affermando che l’imputato non è affiliato al clan e non è stipendiato. E che neanche gli altri collaboratori attribuivano a NOME COGNOME un ruolo operativo,
descrivendone la posizione come quella di un imprenditore che, pur avendo beneficiato di rapporti familiari, non aveva collegamento diretto con il clan.
Anche le .intercettazioni, considerate dai Giudici. come riscontro alle propalazioni dei collaboratori, costituivano oggetto di contestazione da parte della difesa cui, ciò nondimeno, la Corte d’appello non ha fornito risposta.
In conclusione, dalla sentenza non emerge la prova concreta della formale affiliazione del ricorrente, se non attraverso un richiamo generico ad intercettazioni e dichiarazioni di collaboratori di giustizia che però restituiscono, a più, il quadro di un concorso esterno, negando l’esistenza di un rapporto di organica e stabile compenetrazione dell’imputato con il tessuto organizzativo, tale da tradursi in una permanente e incondizionata offerta di contributo in suo favore.
7.2.2. Violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
La sentenza ha operato una sostanziale modifica dell’accusa che ha compromesso il diritto di difesa del ricorrente, essendo stato NOME COGNOME accusato di partecipazione all’associazione camorristica con il compito di raccogliere le somme di denaro provento di attività illecite del clan, destinate al suo cognato NOME COGNOME e condannato, invece, come imprenditore che agiva nell’esclusivo interesse del clan, versando parte degli utili delle sue imprese edili al consorzio criminale.
Di tratta di “fatto diverso”, che non era stato contestato formalmente né preannunciato nel corso del processo, in contrasto con Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051.
La Corte d’appello ha sostenuto, senza adeguatamente motivare, che l’imputato era nelle condizioni di difendersi adeguatamente perché la contestazione era conoscibile attraverso gli atti processuali, ma in tal modo ha dimenticato che la modifica riguarda un elemento essenziale dell’accusa nonché che la costante giurisprudenza richiede che il fatto ritenuto in sentenza sia omogeneo rispetto a quello contestato e che la modifica non incida sugli elementi essenziali della condotta.
7.2.3. Violazione degli artt. 378, 110 e 416-bis cod. pen.; vizio di motivazione.
La Corte di appello ha rigettato la richiesta, avanzata in subordine a quella assolutoria, di derubricare le condotte dell’imputato in favoreggiamento personale o, al massimo, in concorso esterno, ritenendo il ruolo di imprenditore edile legato al clan e l’attività di raccoglitore dei proventi illeciti destinati al cognato elemen sufficienti a dimostrare la partecipazione dell’imputato all’associazione mafiosa.
Tuttavia, tale conclusione è illogica perché, quand’anche si dimostrasse l’operato di NOME COGNOME, esso non evidenzierebbe alcuna stabile ed organica compenetrazione nel sodalizio mafioso, e quindi alcuna affectio societatis.
La Corte non argomenta adeguatamente nemmeno su questo profilo.
7.2.4. Errata applicazione dell’aggravante dell’associazione armata e relativo vizio di motivazione.
. Pur avendo l’aggravante natura oggettiva, in concreto non è stata accertata, da un lato, l’effettiva disponibilità di armi da parte della consorteria; dall’altro consapevolezza dell’imputato riguardo a tale elemento, essendosi la Corte d’appello limitata a richiamare gli strettissimi rapporti tra NOME COGNOME e i vertici del sodalizio, senza esaminare le circostanze concrete.
I Giudici non hanno correttamente motivato: da quali elementi si desuma che il presunto possesso di armi da parte di alcuni imputati fosse riferibile all’inter consorteria e che le armi fossero, non solo nella disponibilità degli associati, ma anche possedute per realizzare i piani criminosi dell’associazione.
Neppure ha verificato se il clan COGNOME fosse effettivamente armato durante il periodo in cui NOME COGNOME sarebbe stato sodale, la disponibilità di armi dovendo essere dimostrata con riferimento al periodo temporale in cui si afferma la partecipazione dell’imputato.
Infine, la Corte d’appello, richiamando il principio per cui per le mafie storiche, come il clan COGNOME, non è necessaria l’individuazione esatta delle armi, ha trascurato che, ai fini della configurabilità dell’aggravante, è indispensabile che l’imputato sia concretamente consapevole della disponibilità di armi, la giurisprudenza di legittimità escludendo che tale consapevolezza possa essere presunta in via automatica e richiedendo che sia invece desunta da specifici elementi.
7.2.5. Errata violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Nel rigettare la richiesta di applicazione delle attenuanti generiche, la Corte si è limitata a valorizzare la mancanza di condotte resipiscenti e di elementi positivi che giustificassero una mitigazione della pena, sebbene, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, il giudice sia tenuto ad esaminare in modo approfondito gli elementi indicati dalla difesa, tra i quali rientrava l’incensuratezz del ricorrente.
Né la Corte d’appello ha preso in considerazione, come avrebbe dovuto, i parametri di cui all’art 133 cod. pen, che richiedono la valutazione della gravità del fatto, della personalità dell’imputato e della sua pericolosità sociale.
Ne discende un vizio di motivazione.
Ha presentato ricorso NOME COGNOME per il tramite dell’Avv. NOME COGNOME deducendo i seguenti tre motivi.
8.1. Vizio di motivazione quanto alla contestazione dell’estorsione con aggravante mafiosa di cui al capo D) (recte: G).
La Corte d’appello non ha risposto alle doglianze difensive.
Sebbene i collaboratori abbiano parlato del ricorrente come di un soggetto gestore di imprese edili riconducibili al clan, cui le persone si rivolgevano per lucrare una riduzione della somma da versare a titolo di tangente, stante il rapporto di parentela con un elemento apicale del gruppo, tali dichiarazioni non spiegano perché COGNOME (l’estorto), evidentemente consapevole di tali circostanze, avendo un rapporto consuetudinario con il ricorrente, si sia invece rivolto a COGNOME chiedendone l’intercessione con gli appartenenti al clan.
Inoltre, le propalazioni dei collaboratori non hanno trovato riscontro nelle captazioni correttamente lette.
Nel primo dialogo intercorso tra il ricorrente e COGNOME, COGNOME esprimeva il timore che, non appena avesse montato le impalcature per eseguire il lavoro, si sarebbe presentata la “gente” e cioè i soggetti deputati alle estorsioni, sicché non si vede come potesse COGNOME concorrere nella condotta estorsiva e al tempo stesso preoccuparsi di essere estorto.
A dopo poco più di un mese risale l’altra conversazione tra COGNOME e COGNOME in cui è evidente che il primo chiedeva al secondo di intervenire, suggerendo anche le parole da riportare a COGNOME e invitandolo ad organizzarsi per provvedere al versamento: tali frasi indiziano un rapporto, sia pur dialettico, tra estorsore e vittima, piuttosto che un concorso nel reato.
Nello stesso senso deponevano, infine, le conversazioni tra COGNOME e NOME COGNOME moglie del presunto capoclan.
È poi stata pretermessa la valutazione del contributo reso nel corso dell’interrogatorio dove, in consonanza con gli esiti delle captazioni, l’imputato chiariva di essere vittima delle estorsioni, essendo stata respinta la pretesa di inserire nel preventivo dei lavori l’importo della tangente.
8.2. Violazione di legge e vizio di motivazione quanto all’aggravante mafiosa.
Rappresenta mera petizione di principio l’affermazione per cui il ricorrente avrebbe agito in modo da accreditarsi come esponente della criminalità organizzata, non risultando da alcuna emergenza che siano state concretamente usate modalità che evocassero la provenienza della richiesta da contesti criminali.
Neppure sono risultati elementi da cui desumere che l’imputato abbia agito al fine di agevolare l’associazione camorristica, costituendo assunto affatto ipotetico che le somme eventualmente riscossero fossero destinate ad alimentare la cassa del clan.
8.3. Errata applicazione di legge penale vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Nel negare le circostanze attenuanti generiche, la Corte di appello è ricorsa ad una formula di stile, facendo riferimento esclusivamente alla gravità del fatto,
peraltro meramente asserita, laddove l’applicazione delle attenuanti generiche ben può attribuire rilievo a tutti i parametri di valutazione di cui all’art. 133 cod. pe allo scopo di individualizzare il trattamento sanzionatorio. .
In particolare, ai fini di tale ultima norma, rileva il comportamento susseguente al reato in cui rientra il comportamento processuale dell’imputato, rappresentato non solo dalla confessione in senso stretto, ma anche dalle condotte collaborative volte a favorire il complessivo accertamento dei fatti.
NOME COGNOME ha presentato due ricorsi.
9.1. In quello a firma dell’Avv. NOME COGNOME ha dedotto, con un unico motivo, violazione dell’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., per riqualificazione in peius dell’ipotesi di reato.
Premesso che la Corte di appello ha riqualificato il fatto da concorso esterno in partecipazione all’associazione, la ricorrente ha dedotto il proprio interesse ad impugnare, osservando che, pur in assenza di modifica in peius della pena, il mutamento della qualificazione incide sul trattamento sanzionatorio complessivo in termini di ostatività in fase di esecuzione, presunzione di adeguatezza della misura cautelare custodiale e per ciò che concerne l’applicazione di misure di sicurezza o di prevenzione.
Precisa, inoltre, che la prevedibilità della modifica è stata basata su un dato processuale alterato.
La sentenza afferma, infatti, che tale riqualificazione era stata chiesta dal Procuratore Generale: affermazione che trova smentita nel verbale di udienza del 21 marzo 2021, da cui si evince che il Procuratore Generale domandava, invece, la conferma tout court della sentenza per tutti gli imputati.
Essendo mancato il contraddittorio, non si reputava ragionevole né prevedibile l’operato e riqualificazione in peius.
9.2. Il ricorso presentato attraverso gli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME NOME COGNOME consta di quattro motivi.
9.2.1. Violazione degli artt. 597, comma 1 e 3, cod. proc. pen., anche in riferimento agli artt. 13, 24, 111 Cost e art. 6 CEDU e vizio di motivazione quanto alla qualificazione del fatto storico da concorso esterno in partecipazione ad associazione mafiosa, in mancanza di impugnazione del pubblico ministero.
Pur dovendosi riconoscere che la fluidità dell’imputazione è conseguenza della struttura del giudizio e del passaggio dal thema probandum al thema decidendum (il primo attinente ad un giudizio ipotetico, il secondo ad un giudizio complessivo e conclusivo che si estrinseca nel risultato finale delle prove), la fisiologic perfettibilità dell’imputazione non può e non deve ridondare in danno del diritto al
contraddittorio, tale risultato essendo precluso dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. che, nel conferire al giudice la facoltà di dare al fatto una qualificazione più grave, la confina nei limiti indicati dal comma 1: norma che a sua volta dispone che l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti (Sez U, n. 1 del 19/01/2000, COGNOME, Rv. 216239 e Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 268823).
Ebbene, se il punto della decisione è costituito da ogni singolo tema affrontato all’interno di un capo di decisione – relativamente all’accertamento del fatto storico, alla sua attribuzione all’imputato, alla qualificazione giuridic all’eventuale inesistenza di cause di giustificazione, all’elemento soggettivo -, ciò vuol dire che, all’interno del capo della sentenza relativo alla responsabilità della ricorrente per concorso esterno in associazione mafiosa, era stato devoluto alla cognizione del giudice di secondo grado il solo punto della decisione concernente la sussistenza o meno degli elementi costitutivi di detto reato e non anche quello sulla qualificazione giuridica del medesimo, pertanto non appellato né dalla difesa (né dal Pubblico Ministero, come si evince dal verbale dell’udienza del 21 marzo 2024).
D’altronde, il rapporto tra partecipazione e concorso esterno in associazione mafiosa si atteggia in termini di alterità strutturale, essendo i due fenomeni tra loro alternativi, e per tale ragione, la difesa aveva rilevato come il fatto non fosse inquadrabile nel “concorso esterno”, nel dettaglio osservando che la condotta dell’imputata si rivolgeva esclusivamente verso il fratello, e non era diretta alla conservazione/rafforzamento dell’associazione, e che i Giudici dell’udienza preliminare avevano tralasciato l’accertamento ex post sul rilievo causale della condotta concorsuale nonché di motivare sul dolo.
Non è vero, dunque, che lo specifico punto della qualificazione giuridica fosse stato devoluto al giudicante dalla difesa o dal Pubblico Ministero.
Neppure è vero che il fatto storico era rimasto immutato nella sua dimensione fenomenica, dal momento che, sin dalle prime battute, la sentenza impugnata ha precisato che non erano emersi né l’inserimento organico dell’imputata nel sodalizio camorristico, né la sua messa a disposizione in favore del clan.
Di conseguenza, su questi aspetti, e quindi sull’affectio societatis, la difesa non aveva avuto modo di concentrarsi.
La decisione si è posta quindi in contrasto con Corte EDU COGNOME. Sez. 6, n. 36323 del 25/05/2009, COGNOME, Rv. 244974, ha oltretutto affermato, sia pur con riferimento alla modifica del nomen iuris operata in sede di legittimità, che tale modifica deve essere comunque preceduta dal contraddittorio, a meno che
nel ricorso presentato dal prevenuto tale eventualità sia stata espressamente presa in considerazione, ancorché per sostenere la diversità del fatto.
9.2.2. Violazione degli art. 192 cod. proc. pen. e 416-bis cod. pen.. nonché vizio di motivazione in relazione alla qualificazione del fatto in termini partecipazione ad associazione mafiosa.
Secondo la Corte di appello, NOME COGNOME avrebbe avuto uno stabile rapporto di organica compenetrazione con il nucleo organizzato del clan, ed ha addotto a sostegno di tale conclusione le seguenti prove.
La Corte ha richiamato una conversazione tra NOME e COGNOME, in cui la prima riferiva di aver personalmente visto NOME COGNOME consegnare al fratello NOME 5.000 euro, conversazione dalla quale si desume la prova della piena conoscenza delle dinamiche interne al sodalizio, anche per quanto concerne l’importante profilo della gestione di cassa. Affermazione poi contraddittoriamente negata in motivazione quando i Giudici hanno obiettato alla deduzione difensiva per cui altri – e non NOME COGNOME, con cui NOME COGNOME aveva visto relazionarsi il fratello NOME – erano risultati i gestori della cassa del dan. D’altronde già il Giudice dell’udienza preliminare aveva ritenuto di non poter sussumere la condotta dell’imputata nell’art. 416-bis cod. pen., ritenendo che non vi fossero prove del fatto che la donna gestisse la cassa del clan e, anzi, che tale ipotesi confliggeva con il fatto che nello stesso periodo a tale attività risultavano preposte altre due persone (COGNOME e COGNOME).
La Corte ha evocato la vicenda relativa alla consegna delle “cinque cartelle cliniche”, utilizzata in alcune conversazioni, che riguarderebbe la consegna di 5.000 euro, avvenuta per il tramite di un passaggio da NOME COGNOME a NOME COGNOME a sua volta incaricata di farli pervenire a COGNOME, moglie di NOME COGNOME. Ma ha trascurato come la locuzione “cartelle cliniche” fosse stata usata con riferimento a documentazione medica (avendo nel corso di una conversazione NOME COGNOME riferito a Cecere che il dottore gli aveva mandato delle cartelle cliniche che lui doveva leggere con una certa urgenza, facendo espresso riferimento a valori del colesterolo in termini numerici medicalmente coerenti), nonché il fatto che, nel corso di un’altra conversazione, i colloquianti avevano anche usato la parola “soldi” (il che avrebbe logicamente imposto di escludere che con essa si intendesse dissimulare il riferimento a somme di denaro). Infine, essendo “cinque” diverso da “cinquemila”, la motivazione avrebbe dovuto spiegare perché ogni unità corrispondesse a 1.000 euro.
La Corte ha argomentato solo apparentemente sulla dichiarazione del collaboratore NOME COGNOME essendosi limitata a riprodurre il contenuto della chiamata in correità.
COGNOME si era limitato a parlare dell’COGNOME come percettrice, per conto del fratello NOME, della “mesata” cui questi aveva diritto quale membro del clan COGNOME, senza riferire alcunché sulla, sua intraneità all’associazione. In due son passaggi aveva addebitato a NOME COGNOME il ruolo di cassiera di quest’ultimo – tuttavia in termini meramente possibilisti ed anche contraddittori, essendosi egli occupato talvolta delle “mesate” – nonché il ruolo di latrice di messaggi da parte del fratello: punto che, però, non ha trovato alcun riscontro negli elementi in atto, come dimostrato dal fatto che la sentenza non fa riferimento a tale circostanza.
In sintesi, costituisce dato insuperato dalle motivazioni d’appello che NOME non era in contatto con alcun sodale, se non con il fratello e i soggetti inviati dal fratello a consegnare il denaro, il che contrasta con l’affermazione della sua partecipazione all’associazione.
9.2.3. Violazione degli art. 192 cod. proc. pen. e 416-bis cod. pen. e motivazione meramente apparente con riguardo all’imputazione soggettiva della aggravante dell’associazione armata.
Al netto del dato oggettivo costituito dal carattere indiscutibilmente armato del clan COGNOME, l’imputazione sul piano soggettivo della circostanza aggravante in capo alla ricorrente non avrebbe potuto essere argomentata dal mero strettissimo rapporto di natura familiare con NOME COGNOME, reggente del sodalizio. Non esiste, infatti, una regola di esperienza consolidata per cui dal rapporto parentale discende la consapevolezza del carattere armato del sodalizio.
9.2.4. Vizio di motivazione con riguardo alla ritenuta non meritevolezza delle circostanze attenuanti generiche.
La Corte non ha applicato l’art. 62-bis cod. pen., limitandosi a richiamare la gravità del fatto, senza, quindi, realmente giustificare le ragioni di tale scelta, quindi senza motivare sul punto.
Ricorre in Cassazione, per il tramite dell’avvocato NOME COGNOME NOME COGNOME deducendo i seguenti tre motivi di ricorso.
10.1. Vizio di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza della partecipazione all’associazione camorristica in luogo del concorso esterno e relativo vizio di motivazione.
La Corte d’appello ha valorizzato le conversazioni telefoniche riferibili a NOME COGNOME nella parte in cui questi, conversando con un familiare, avrebbe affermato che COGNOME, pur non essendo adatto alla malavita e a commettere reati, «sta in mezzo alla strada», desumendone l’affectio societatis.
Tuttavia, non soltanto NOME non ha mai pronunciato tale frase, ma, al contrario, nel corso delle conversazioni, ben cinque volte aveva affermato che COGNOME «non» sta in mezzo alla strada.
Pertanto, i Giudici di secondo grado non solo hanno utilizzato una informazione inesistente, ma hanno anche preternnesso un’informazione esistente di segno diametralmente opposto. Sono, cioè, incorsi in un travisamento che, essendo stato introdotto per la prima volta in appello, è deducibile in Cassazione.
La Corte ha poi desunto l’affectio societatis dal fatto che NOME avesse manifestato, nel corso delle intercettazioni, la volontà di reperire un lavoro onesto a Pirozzi per allontanarlo dall’organizzazione quando avesse generato un figlio, nonostante la frase rappresenti, al limite, indice della partecipazione concorsuale esterna di COGNOME al sodalizio.
10.2. Errata applicazione dell’art 416-bis cod. pen., quanto alla ritenuta sussistenza della partecipazione, piuttosto che del concorso esterno.
Per quanto rilevato, è acclarato che il contributo offerto dall’imputato era marginale e di modesta incidenza, oltre che occasionale, essendo finalizzato a soddisfare le esigenze contingenti di NOME COGNOME e non del sodalizio.
Il Giudice per le indagini preliminari ne aveva parlato come dell’«autista perfetto, che non ha occhi né orecchie, e che svolge con precisione e puntualità le mansioni che gli vengono affidate». La Corte d’appello ha aggiunto che l’imputato organizzava incontri tra i reggenti e gli altri affiliati e fungeva da lator importanti messaggi, dimostrando, in più occasioni, di conoscere le dinamiche criminali del sodalizio.
Ai fini della configurabilità della partecipazione all’associazione mafiosa, non sussiste, quindi, l’affectio societatis, non essendo stato COGNOME riconosciuto da NOME quale affiliato.
10.3. Vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e ingiustificata disparità di trattamento.
La Corte d’appello non ha fornito adeguata giustificazione della mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, limitandosi a richiamare la gravità del reato commesso e l’assenza di condotte resipiscenti.
Il vizio di motivazione e viepiù evidente nel confronto con la diversa decisione in favore delle computate NOME COGNOME e NOME COGNOME le cui posizioni sono state pure ritenute dalla Corte maggiormente significative in seno all’organizzazione.
Di conseguenza, la sentenza contrasta con Sez. 6, n. 12692 del 30/01/2024, Ardizzone, Rv. 286191, per cui è contraddittoria l’esclusione delle attenuanti generiche disposta nei confronti di un imputato qualora i medesimi parametri utilizzati abbiano condotto a diverse e più favorevoli decisioni nei confronti di coimputati concorrenti nel medesimo reato maggiormente gravati.
D’altronde la marginalità del ruolo di COGNOME è riconosciuta dalla medesima sentenza impugnata che, in ragione di essa, applica il minimo edittale, con ciò contraddicendosi.
Ha presentato ricorso, per il tramite dell’Avv. NOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME.
L’imputata è la moglie di NOME COGNOME ritenuto soggetto di spicco del clan COGNOME e reggente pro tempore dell’organizzazione.
Sebbene la ricorrente, di cinquantasei anni e incensurata, sia stata assoggettata a numerosissime intercettazioni (telefoniche, ambientali, auto) ed appostamenti, per la durata di quasi due anni, non sono mai risultati contatti tra la stessa e consociati diversi dal marito e dalla cognata NOME COGNOME
Anche i collaboratori di giustizia la conoscevano solo quale moglie di NOME COGNOME. Nessuno le ha attribuito un ruolo all’interno del clan posto che, come riconosciuto dalla sentenza di primo grado, la donna svolgeva attività di estetista ed era autosufficiente sul piano economico.
Il Giudice di primo grado, pur ammettendo la peculiarità della sua situazione, aveva ciò nondimeno ritenuto penalmente rilevante la condotta di COGNOME, ma solo a titolo di concorso esterno. La Corte d’appello ha invece ribaltato la sentenza di primo grado, ravvisandovi una partecipazione.
Ciò premesso, sono dedotti i seguenti quattro motivi.
11.1. Violazione dell’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., secondo l’interpretazione di cui all’art 6 CEDU, e riqualificazione in peius in assenza di prevedibilità della contestazione, con conseguente lesione del diritto di difesa.
La prevedibilità della modifica, presupposto del rispetto del pieno diritto di difesa, è stata fondata dalla Corte di appello su un dato processuale alterato, essendosi affermato nella sentenza impugnata che il Procuratore generale aveva chiesto la riqualificazione delle condotte contestate a NOME COGNOME e a COGNOME in condotta associativa, laddove dal verbale dell’udienza del 21 marzo 2024 risulta che il Procuratore generale aveva domandato la conferma della sentenza sic et simpliciter per tutti gli imputati.
Non essendo prevedibile, la modifica in peius della contestazione non avrebbe potuto essere realizzata.
11.2. Vizio di motivazione quanto all’accertamento della responsabilità per partecipazione all’associazione camorristica.
La sintetica motivazione per relationem alla sentenza di primo grado è tesa a censurare la qualificazione del fatto come concorso esterno, e non ha affrontato le censure difensive.
Era stato, infatti, rilevato come, secondo i Giudici di primo grado, l’imputata avrebbe informato il marito del pentimento del collaboratore COGNOME, ma la circostanza è palesemente travisata, come emerge . dalla lettura delle intercettazioni da cui si desume che COGNOME ne era già a conoscenza.
Inoltre, quanto al colloquio in carcere con NOME, si è ritenuto che l’imputata si fosse adoperata per fare avere permessi al marito detenuto. Non soltanto, però, le frasi intercettate hanno tutt’altro senso; nemmeno è dato comprendere quale sia la condotta illecita nel fatto di voler ottenere un permesso che, peraltro, non si sa se sia stato concesso o meno.
Lo stesso deve dirsi dei conteggi di denaro, che riguardavano per la maggior parte aspetti di economia domestica, e non la contabilità del clan, oppure della circostanza che COGNOME avesse accettato in due occasioni somme per conto del marito, circostanza che lo stesso Giudice dell’udienza preliminare aveva ritenuto ininfluente, se isolatamente considerata, e comunque inidonea a supportare l’ipotesi dell’appartenenza della ricorrente al clan.
11.3. Vizio di motivazione quanto alla modifica della qualificazione giuridica.
A fronte della pronuncia del Tribunale, che spiegava per quale ragione la donna non potesse essere ritenuta affiliata all’associazione, il Giudice di secondo grado ha operato una riqualificazione del fatto in peius senza giustificarla adeguatamente.
11.4. Omessa motivazione sulla confisca dell’autovettura di proprietà della ricorrente.
Il Giudice di primo grado si era limitato a disporre la confisca dell’autovettura senza motivare, pur riconoscendo che l’imputata percepiva un reddito lecito, sebbene non dichiarato.
Nell’atto di appello si osservava che la circostanza che l’autovettura fosse stata utilizzata in due sole occasioni dal marito NOME COGNOME era del tutto recessiva rispetto alla redditualità lecita, al lavoro comprovato a partire dal 2004, nonché al fatto che l’acquisto della macchina fosse avvenuto tramite finanziamento (a rate).
La Corte d’appello ha confermato la confisca, negando fosse emersa dalle indicazioni difensive la prova certa della liceità della provenienza del bene: continuando, quindi, a non motivare sul punto.
Ha presentato ricorso NOME COGNOME per il tramite dell’Avv. NOME COGNOME deducendo sei motivi di ricorso.
12.1. Applicazione dell’art 416-bis cod. pen. e vizio di motivazione.
Nell’atto d’appello erano state dedotte varie criticità, evidenziando come la responsabilità dell’imputato risultasse basata su intercettazioni dal contenuto
generico e sulle dichiarazioni non riscontrate di un unico collaboratore di giustizia, NOME COGNOME. Si aggiungeva che il Giudice di primo grado aveva valorizzato soltanto la vicinanza di COGNOME ad ambienti definiti criminali, limitandosi a parlare di una sua presunta disponibilità sulla base di un rapporto di amicizia con altri coimputati, senza concretamente verificare se il materiale indiziario potesse delineare una realtà diversa.
La Corte d’appello ha respinto il motivo di gravame in due sole pagine, operando un richiamo per relationem alla sentenza di primo grado e venendo quindi meno all’obbligo di motivazione.
Neppure ha valutato in modo autonomo e puntuale gli elementi indiziari posti a carico del ricorrente, e cioè le intercettazioni telefoniche e ambientali e le dichiarazioni del collaboratore NOME COGNOME elaborando invece una motivazione generalizzata ed indistintamente estesa a tutti i collaboratori coinvolti nel presente procedimento, senza verificare la validità del propalato in rapporto alla specifica posizione del ricorrente.
Eppure, in appello era stato dedotto che COGNOME aveva dichiarato di non conoscere bene il ricorrente, sottolineando la sua recente affiliazione al clan e il fatto che tale affiliazione non fosse pienamente condivisa, ed aveva dichiarato di non avere particolare stima nei confronti dell’odierno ricorrente: circostanze che avrebbero dovuto suggerire una più cauta e attenta valutazione della reale consistenza del coinvolgimento del ricorrente nelle dinamiche associative.
Inoltre, la Corte d’appello ha trascurato di considerare il possibile interesse personale di COGNOME nella scelta di collaborare con la giustizia, avendo egli intrapreso tale percorso in un momento in cui temeva per la propria vita, poiché si era appropriato di somme di denaro destinate al clan.
Neppure le intercettazioni usate a carico del ricorrente soddisfacevano i requisiti di chiarezza, precisione e concordanza richiesti dalla giurisprudenza, attestando, al massimo, rapporti di conoscenza tra il ricorrente ed alcuni presunti sodali.
Le intercettazioni, citate soltanto dalla sentenza di primo grado, si limitavano a descrivere il coinvolgimento del ricorrente nell’individuazione di cantieri edili e attività commerciali che saranno poi sottoposte ad estorsione, ma non dimostravano in modo chiaro ed inequivoco che COGNOME fosse consapevole delle finalità criminali del clan e tantonneno che vi prendesse parte in modo attivo e deliberato, da esse evincendosi solo che svolgeva il ruolo di autista: non il suo apporto causale alla consorteria.
12.2. Violazione della legge penale e vizio di motivazione quanto alla mancata derubricazione della condotta di COGNOME in concorso esterno.
La Corte d’appello ha omesso sul punto qualunque risposta.
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10.3. Errata applicazione dell’ad 416-bis, comma 4, cod. pen. e vizio di motivazione.
La Corte d’appello ha confermato l’aggravante della natura armata del sodalizio senza adeguatamente replicare alle deduzioni difensive.
Nell’argomentare per tutti gli imputati, non ha valutato le circostanze che avrebbero potuto dimostrare o escludere la consapevolezza in capo a COGNOME della disponibilità di armi da parte del sodalizio ed ha disatteso l’insegnamento di legittimità per cui: non è sufficiente che uno degli associati disponga di un’arma; le armi devono essere a disposizione dei compartecipi del gruppo; occorre che la disponibilità delle armi sia costante e non sia dimostrata per un singolo episodio; sono inconferenti precedenti penali per reati concernenti le armi a carico di singoli partecipanti; va considerato l’arco temporale per cui l’aggravante è stata ascritta all’imputato.
La consapevolezza di COGNOME è stata desunta sulla sola base di rapporti generici con alcuni presunti sodali del clan, trascurando oltretutto che, come riportato dal collaboratore COGNOME, la presunta intraneità del ricorrente era un dato recente sicché non si sarebbe potuto presumere che egli sapesse della presenza di armi nel clan.
12.4. Errata applicazione della legge penale vizio di motivazione in relazione ai capi E), T) e U).
Quanto al capo E), la Corte di appello ha ritenuto che la forza intimidatrice della consorteria mafiosa fosse così radicata da rendere superfluo un esplicito avvertimento mafioso, sebbene dalle captazioni non emergesse alcun comportamento del ricorrente che possa essere considerato intimidatorio né un esplicito riferimento al sodalizio mafioso. I Giudici di secondo grado non hanno poi risposto alla questione sollevata dalla difesa sulla mancanza di riscontri oggettivi, dall’analisi delle conversazioni non risultando affatto che fosse il ricorrente a rivolgersi alla presunta persona offesa o a chiedere l’elargizione delle somme di denaro, visto che egli era presente nel mero ruolo di autista incaricato di accompagnare altri coimputati nei pressi della ditta coinvolta nella vicenda.
Analoghe considerazioni valgono per il capo T), che vede l’imputato accusato di aver concorso nel costringere un imprenditore a versare 4.000 euro per i lavori di ristrutturazione di un’abitazione situata a Giugliano, in relazione al quale la Corte d’appello ritiene che una conversazione dell’imputato sia auto-indiziante, mentre da essa non risulta in modo inequivoco la partecipazione dell’imputato all’estorsione né il suo diretto collegamento alla richiesta estorsiva. Le dichiarazioni del collaboratore COGNOME sono vaghe, imprecise e prive di concreti riscontri: avendo egli operato un riconoscimento tardivo, e quindi dubbio, di COGNOME avendo affermato di non conoscerlo di persona né di sapere il suo nome.
Inoltre, il collaboratore ha riferito della presunta estorsione presso il INDIRIZZO collocandola tra settembre e ottobre del 2017, mentre le intercettazioni usate a sostegno dell’accusa risalgono a gennaio 2018: tale discrepanza temporale mina ulteriormente la coerenza della ricostruzione probatoria.
Quanto al capo U), la Corte d’appello ha apoditticamente avallato la sentenza di primo grado facendo riferimento alla presunta estorsione in danno di NOME COGNOME senza rispondere alle deduzioni con cui in appello si era segnalato che dalla motivazione della sentenza di primo grado non emergeva alcun ruolo del ricorrente nel delitto e che l’oggetto della conversazione non dimostrava la partecipazione del ricorrente alla stessa.
I Giudici di secondo grado hanno poi attribuito particolare rilievo all’affermazione del coimputato COGNOME («Qua ho fatto parecchi soldi»), interpretandola come ammissione di aver riscosso una somma estorsiva ed ha operato un’automatica attribuzione di responsabilità anche COGNOME sebbene questi fosse del tutto estraneo alla vicenda: il ricorrente, infatti, nel periodo osservazione, non aveva mai tentato di contattare la presunta persona offesa e non aveva condiviso il proposito di ingiusto arricchimento a danno altrui.
12.5. Errata applicazione dell’aggravante mafiosa e vizio di motivazione in relazione ai capi E), T) e U).
Nonostante la giurisprudenza di legittimità richieda un’analisi concreta delle modalità di realizzazione del reato, per evitare che l’aggravante mafiosa trasmodi in una presunzione ambientale o territoriale, la Corte di appello si è adagiata sulla sentenza di primo grado, omettendo tale analisi, ed ha basato l’applicazione della circostanza aggravante sull’affermazione che la forza di intimidazione del clan COGNOME fosse così radicata nel territorio da non richiedere espliciti atti di minaccia o violenza per incutere timore.
Tuttavia, dalle intercettazioni non emerge alcun riferimento diretto al clan COGNOME; non vi è traccia di minacce o atti violenti; neppure la percezione soggettiva della vittima è stata adeguatamente dimostrata dalla Corte d’appello, che si è limitata a presumere uno stato di soggezione basato su una frase equivoca («Non vi preoccupate che nello sbaglio non mi metto»), pronunciata da COGNOME.
In particolare:
quanto al capo E), ribadito che COGNOME si limitava alla guida dell’autoveicolo a lui intestato, la sua condotta si è esaurita nella dimensione relazionale con alcuni imputati, senza che il suo elemento soggettivo possa essere configurato in termini di dolo specifico;
quanto al capo T), concernente la presunta estorsione compiuta presso il Lido Gallo, la Corte d’appello non chiarisce l’esistenza di un comportamento intimidatorio; in particolare, non indica quali fossero le
condotte, ulteriori rispetto agli elementi costitutivi dell’art. 629 cod. pen utili a configurare l’aggravante, essendosi limitata a considerare la preoccupazione dei coimputati, emersa dalle intercettazioni, di informare altri affiliati degli accadimenti, senza analizzare se essa fosse realmente riconducibile a una condotta intimidatoria del COGNOME idonea ad incutere timore nella vittima;
quanto al capo U), concernente la presunta estorsione in danno di NOME COGNOME, la Corte non ha considerato come la frase valorizzata ai fini della sussistenza del reato sia stata pronunciata soltanto da COGNOME e formulata al singolare, né ha dimostrato l’esistenza di un legame tra la condotta di COGNOME e la finalità agevolatrice dell’associazione camorristica.
12.6. Violazione di legge penale in rapporto alla commisurazione giudiziale della pena, alla mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche nonché al computo della continuazione e relativo vizio di motivazione.
La Corte d’appello, nel confermare la pena base di quindici anni di reclusione, l’ha giustificata con la particolare operatività del ricorrente ed il suo ruolo sodalizio criminale.
Non ha operato, però, gli adeguati riferimenti ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen. e non ha analizzato tale ruolo in concreto (marginale, in base alle intercettazioni e alle altre prove, in quanto circoscritto alla segnalazione di cantier e attività economiche, senza alcun coinvolgimento diretto), né ha considerato come il ricorrente fosse un neo-affiliato.
La Corte d’appello ha poi respinto la richiesta di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, facendo riferimento all’assenza di condotte resilienti e di elementi suscettibili di positiva valutazione, senza valutare che l’imputato è incensurato e che ha tenuto una condotta complessivamente corretta.
Ha inoltre disposto un aumento di pena pari a un anno e sei mesi per ciascuna estorsione consumata, ma non ha fornito adeguata motivazione di tale aumento, come invece richiesto da Sez. U., n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269.
Ha impugnato la sentenza NOME COGNOME per il tramite dell’Avv. NOME COGNOME deducendo i seguenti tre motivi di ricorso.
13.1. Errata applicazione della fattispecie di associazione di stampo mafioso; mancata correlazione tra accusa e difesa; violazione dell’art. 238-bis cod. proc. pen.; vizio di motivazione sulla mancata assoluzione per difetto di prova; vizio di motivazione e travisamento per omissione.
La condotta contestata a COGNOME – partecipe dell’organizzazione con il compito di individuare le attività imprenditoriali da sottoporre ad estorsione – non è stata verificata.
La sentenza non ha precisato quali e quante attività imprenditoriali siano state sottoposte ad estorsione grazie all’assolvimento di tale compito da parte dell’imputato e non ha replicato alle deduzioni in appello relative ai deficit delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia COGNOME e COGNOME che nulla hanno detto in proposito.
Se le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia vanno valutate unitamente ad altri elementi di prova, innanzitutto rappresentati da sentenze divenute irrevocabili, i Giudici hanno trascurato come NOME COGNOME non compaia mai, neppure quale indagato, nei provvedimenti giudiziari, che pure coprono un arco temporale che va dal 1999 alla attualità.
Non hanno considerato che numerosi collaboratori (NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME) non hanno indicato il suo nome tra quello degli associati.
Hanno invece valorizzato dichiarazioni generiche e aspecifiche, che quindi avrebbero dovuto essere dichiarate inutilizzabili, quali quelle dei collaboratori di giustizia COGNOME che attribuiva a COGNOME condotte ormai prescritte («faceva parte del clan negli anni Novanta; non so se anche attualmente abbia un ruolo nel clan») e COGNOME, che aveva segnalato negli ultimi tempi un mero incontro casuale senza finalità illecita né connessa alla associazione.
Dichiarazioni che comunque nulla dicono della condotta dell’imputato che, per assurgere a contributo associativo, deve oltretutto essere continuativa e duratura, come chiarito dalla citata Sez. U Modaffari.
La sentenza nemmeno ha trattato dell’elemento soggettivo del reato.
Ha GLYPH richiamato, GLYPH infine, dati captativi affetti da deficit di certa individualizzazione.
13.2. Errata applicazione della aggravante dell’associazione armata e relativo vizio di motivazione.
La Corte di appello ha desunto la consapevolezza che COGNOME aveva della disponibilità di armi da parte del sodalizio dal fatto che si trattasse di affiliato vecchia data, ma la motivazione risulta contraddittoria, avendo le stesse sentenze descritto la storia e l’evoluzione dei vari clan, cui l’imputato è risultato estraneo.
Ha trascurato, inoltre, che l’applicazione della circostanza in oggetto non può prescindere dall’attenta disamina dei profili psicologici dell’intraneus: accertamento che avrebbe dovuto essere ancora più rigoroso, considerato che COGNOME non è stato condannato per reati-fine. Né può ritenersi sufficiente il riferimento alla caratura criminale degli uomini facenti parte del sodalizio.
13.3. Violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
La Corte d’appello ha. escluso che possano. essere riconosciute te circostanze attenuanti generiche in assenza di condotte resipiscenti e di elementi suscettibili di positiva valutazione. Tuttavia, l’incensuratezza del ricorrente; il suo ruolo marginale; il minimo apporto arrecato all’associazione; l’assenza di condanna per reati fine; l’età avanzata di COGNOME (81 anni): sono elementi che avrebbero dovuto condurre a mitigare il trattamento sanzionatorio.
Per il tramite dell’Avv. NOME COGNOME ha presentato ricorso NOME COGNOME deducendo tre motivi.
14.1. Violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla mancata assoluzione dell’imputato dal reato di associazione camorristica.
Nel confermare la sentenza di primo grado, la Corte d’appello fondava l’affermazione di responsabilità sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME i quali avevano pacificamente attribuito a Vallefuoco l’appellativo “COGNOME” che ricorreva nelle intercettazioni captate tra i sodali relative a attività illecite che lo hanno coinvolto, sottolineando tra l’altro che l’imputato era stato spesso controllato e che risultava già sottoposto agli arresti donniciliari nel 2018 per estorsione aggravata.
In tal modo, la Corte d’appello ha condiviso acriticamente la valutazione del Giudice dell’udienza preliminare, il quale aveva basato il suo giudizio su un compendio probatorio costituito da dichiarazioni di collaboratori di giustizia risalenti nel tempo e intercettazioni tra terzi, addirittura derivate da alt procedimenti penali. Senza considerare che nessuna prova era stata fornita sull’elemento psicologico del reato.
Prima ancora, il materiale probatorio denotava il mero status di affiliato dell’imputato, ma non forniva indicazioni su specifici comportamenti denotativi della concreta messa a disposizione del sodalizio, anche solo per facta concludentia, né sulla protrazione del rapporto.
È d’altronde contraddittorio attribuire all’imputato un ruolo specifico nella commissione di attività estorsive ai danni delle attività imprenditoriali e commerciali lungo il territorio della fascia costiera del Comune di Giugliano e però non contestargli alcun reato-fine di natura estorsiva.
Si aggiunga che nelle intercettazioni l’alias “COGNOME” era stato usato anche per altri affiliati del clan. E, ancora, che il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa era stato contestato sino al mese di febbraio 2019, sicché appare singolare che, per un affiliato al clan, storico e di spicco quale si ritiene sia l’imputato, fossero stati registrati soltanto due controlli di polizia.
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Inoltre, si era dedotto come le dichiarazioni del collaboratore di giustizia COGNOME (quelle di COGNOME sono addirittura datate 2012-2014) non fossero attendibili e coerenti, posto che. nessuno dei titolari, degli esercizi commerciali indicati dal medesimo collaboratore come bersaglio delle richieste estorsive, si era riferito, nel corso delle sommarie informazioni rese nell’ambito di diverso procedimento penale, a NOME COGNOME.
È poi peculiare che COGNOME avesse indicato precisamente l’elenco di tutte le attività commerciali site lungo la zona della cosiddetta fascia costiera, ma non ricordasse presso quali di esse Vallefuoco si sarebbe recato per perpetrare, unitamente al coimputato COGNOME, le richieste estorsive.
Per questa ragione, la pronuncia impugnata ha disatteso gli insegnamenti delle Sezioni unite in tema di chiamata in correità.
14.2. Errata applicazione dell’aggravante dell’associazione armata e correlato vizio di motivazione.
La consapevolezza dell’imputato è stata desunta dal suo ruolo di affiliato di vecchia data e dai suoi costanti rapporti con i vertici del clan, soprattutto in occasione della partecipazione alle riunioni del sodalizio in cui sono definiti obiettivi e strategie.
Tali affermazioni si pongono in contrasto con l’insegnamento di legittimità che richiede un vaglio sulla consapevolezza del singolo imputato o, comunque, sulla sua colpevole ignoranza.
14.3. Mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
La difesa chiedeva al Giudice dell’appello di applicare le circostanze attenuanti generiche come quantomeno equivalenti rispetto all’aggravante dell’associazione armata.
La Corte d’appello ha negato le circostanze attenuanti con motivazione ipertrofica, identica per ciascun imputato, non ravvisando condotte resipiscenti ed elementi suscettibili di positiva valutazione.
Tuttavia, premesso che non si può negare all’imputato la libertà di non praticare un atteggiamento collaborativo e finanche di mentire, le circostanze in oggetto sono state riconosciute al coimputato NOME COGNOME del pari chiamato a rispondere del reato associativo di cui al capo A), peraltro in presenza della stessa motivazione sulla commisurazione della pena spesa per NOME COGNOME.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile.
1.1. Lo è il primo motivo, reiterativo di deduzioni cui la Corte d’appello ha risposto in modo logico e in misura compiuta, riportando anche il contenuto delle conversazioni cui allude il ricorso e da cui il timore della persona offesa emerge univocamente (dando così ragione della sussistenza della «costrizione», elemento costitutivo della fattispecie estorsiva).
1.2. Anche il secondo motivo di ricorso, del pari svolto in fatto, si limita a riproporre una inammissibile lettura alternativa delle risultanze probatorie, oltretutto basandola su valutazioni congetturali.
I Giudici di secondo grado hanno infatti spiegato che tale COGNOME era costretto a consegnare 2000 euro per i lavori di ristrutturazione della sua abitazione, eseguiti da una ditta edile riconducibile a NOME COGNOME, che gestiva imprese di fatto riconducibili al clan COGNOME, ed hanno aggiunto come dalle intercettazioni fosse emerso che NOME COGNOME sollecitava COGNOME affinché la persona offesa versasse la tangente a COGNOME prima che questi se ne andasse da Giugliano, ove si trovava in permesso presso la casa della sorella.
1.3. Inammissibile è il terzo motivo di ricorso.
Va premesso che, secondo la ricostruzione delle sentenze di merito, NOME era il reggente pro tempore (subentrato ai vertici, in stato di detenzione) dell’organizzazione criminale, con poteri direttivi e decisionali riguardo alle strategie, alla gestione della cassa del clan, all’individuazione degli imprenditori da sottoporre ad estorsione (oltre che all’adozione di sanzioni verso gli affiliati i cui comportamenti reputava devianti), e che era preposto al mantenimento di rapporti con i clan napoletani confederati, insieme a quello COGNOME, nella c.d. alleanza di Secondigliano.
Di conseguenza, e alla luce della natura “storica” del clan COGNOME, il cui risalente operato ha ingenerato intimidazione e correlato assoggettamento “ambientali”, la configurabilità dell’aggravante in oggetto appare fuor di dubbio: sia nella sua declinazione oggettiva, peraltro dimostrata dalle estorsioni/reati-fine di cui NOME è imputato; sia nella sua declinazione soggettiva, essendo stato accertato che le suddette estorsioni erano finalizzate ad alimentare le casse del clan (da cui il ricorrente percepiva uno stipendio di 5.000 euro mensili) e, quindi, ad agevolare l’associazione di stampo mafioso diretta dall’imputato.
1.4. Ancora, inammissibile è il quarto motivo di ricorso, la prova della condotta partecipativa, con ruolo apicale, dell’imputato essendo stata correttamente desunta ed argomentata, a partire dal primo grado di giudizio, da una mole di intercettazioni telefoniche ed ambientali nonché di videosorveglianza, cui si sommano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, tra cui NOME COGNOME (delle cui rivelazioni NOME COGNOME mostra di avere molto timore), valutate dai Giudici di merito attendibili con giudizio in fatto che sfugge al
sindacato di questa Corte e dal confronto con i quali elementi la tesi difensiva della ritrosia dell’imputato ad interessarsi delle questioni del clan esce destituita di ogni fondamento.
Per il resto, si ricorda che l’omesso esame di un motivo di appello da parte del giudice dell’impugnazione non dà luogo ad un vizio di motivazione rilevante a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. allorché, pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente assorbito e disatteso dalle spiegazioni svolte nella motivazione in quanto incompatibile con la struttura e con l’impianto della stessa nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima (tra le tante, Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 277593).
1.5. Quanto alla mancata applicazione dell’art. 62-bis cod. pen., il Giudice dell’appello ha richiamato l’elevata caratura criminale dell’imputato, nei cui confronti è retribuito il “rispetto” degli affiliati e che in alcun modo ha mostrat resipiscenza per i gravissimi delitti commessi, mentre, dal canto suo, il ricorrente non allega alcuna deduzione a sostegno del preteso riconoscimento delle attenuanti generiche o di una più mite commisurazione della pena.
Nel caso di specie, tanto sarebbe invero più che sufficiente ai fini della dichiarazione di inammissibilità del motivo.
Anche in risposta alle analoghe eccezioni di altri ricorrenti, è tuttavia utile riepilogare sin d’ora, su un piano più generale, i pur noti principi di diritto in tema di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Da un lato, sul versante della motivazione, va ricordato che, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente (ex multis, Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549): mentre, nel caso di specie, la sentenza impugnata ha motivato su entrambi gli indicati profili.
Dall’altro lato, e in senso più radicale, si è precisato che le attenuanti generiche previste dall’art. 62-bis cod. pen. sono state introdotte con la funzione di mitigare la rigidità dell’originario sistema di calcolo della pena nell’ipotesi di concorso di circostanze di specie diversa e tale funzione, ridotta a seguito della modifica del giudizio di comparazione delle circostanze concorrenti, ha modo di esplicarsi efficacemente solo per rimuovere il limite posto al giudice con la fissazione del minimo edittale, allorché questi intenda determinare la pena al di sotto di tale limite, con la conseguenza che, ove questa situazione non ricorra, perché il giudice valuta la pena da applicare al di sopra del limite, il diniego della
prevalenza delle generiche diviene solo elemento di calcolo e non costituisce mezzo di determinazione della sanzione e non può, quindi – come nel caso di specie -, dar luogo né a violazione di legge, né al. corrispondente difetto di motivazione (Sez. 3, n. 44883 del 18/07/2014, COGNOME, Rv. 260627).
In altri termini, la ratto dell’art. 62-bis cod. pen. consiste nel “riequilibrare” il trattamento sanzionatorio nei casi in cui, per la contenuta gravità oggettiva e/o soggettiva del fatto, questo risulti sproporzionato per eccesso anche solo al minimo edittale.
La disposizione fu, infatti, introdotta per rispondere all’esigenza di consentire un abbattimento della pena al di sotto del limite edittale là dove la gravità (oggettiva e/o soggettiva) del fatto non rispecchi, secondo la valutazione (tecnicamente) discrezionale del giudice di merito, la risposta sanzionatoria della fattispecie, quand’anche modulata nel minimo.
Ciò, nel caso di specie, non è – motivatamente – avvenuto.
Va dunque escluso che la decisione sia sul punto viziata, non rappresentando il riconoscimento delle attenuanti generiche un diritto dell’imputato, né il relativo diniego imponendo, come sembra invece assumere il ricorrente, una specifica giustificazione argomentativa nel caso in cui trovi concreta applicazione una pena che dal minimo si discosti.
1.6. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna di NOME COGNOME al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
2. Anche il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile.
2.1. Il primo motivo lo è perché versato in fatto e perché non si confronta con la motivazione – tutt’altro che illogica e incompleta – della sentenza impugnata, la quale ha desunto la configurabilità del reato dapprima richiamando una conversazione tra NOME COGNOME e NOME COGNOME, da cui risulta che “il vecchio”, identificato in Quaranta, si era già recato da COGNOME a prendere il “regalo” (chiara metafora del profitto dell’estorsione); per poi aggiungere che i due conversanti avevano commentato che, da quando l’estorto aveva conosciuto l’imputato, aveva cambiato atteggiamento verso “la famiglia” e cominciato a pagare volentieri, avendo capito che le somme confluivano realmente nelle casse dell’associazione.
2.2. Analogamente deve dirsi del secondo motivo di ricorso, del pari inammissibile, posto che ad analoga deduzione difensiva in appello la Corte ha ineccepibilmente obiettato come l’atteggiamento dialettico della vittima rispetto all’ingiusta richiesta, vuoi anche motivato dall’intento di celare il timore e lo stat
di assoggettamento e di omertà nei confronti degli affiliati, non elida la rilevanza penale dei comportamenti e la portata intimidatoria delle richieste, evidentemente desumibile in termini oggettivi dal contesto probatorio.
2.3. Premesso che i due gradi di giudizio di merito hanno accertato che COGNOME era esponente di vertice dell’associazione, uomo di fiducia Di NOME COGNOME ed aveva il compito di occuparsi delle estorsioni nella zona della fascia costiera, impartendo ordini agli altri affiliati, inammissibile è il terzo motivo ricorso, che cerca di revocare in dubbio la configurabilità dell’aggravante mafiosa.
Peraltro, i Giudici di secondo grado hanno precisato che dalle conversazioni intercettate risulta che le somme estorte confluivano nelle casse del clan, come si desume dal fatto che COGNOME spiegava a COGNOME che, sebbene ci voglia un po’ di tempo per «governarli», una volta che si sono «avviati», «sono cose sicure»: da ciò correttamente inferendo la sistematicità con cui commercianti e imprenditori della zona erano sottoposti ad estorsioni da parte del sodalizio e, dunque, la configurazione, in forma sia oggettiva sia soggettiva, dell’aggravante in oggetto.
La motivazione appare, dunque, sul punto, completa e tutt’altro che illogica.
2.4. Il quarto motivo è svolto, come i precedenti, in fatto ed è, dunque, inammissibile. Peraltro, nemmeno “dialoga” con la motivazione della Corte d’appello, che desume dalle emergenze probatorie che l’imputato rivestiva, all’interno della compagine, il ruolo di organizzatore, potendo anche godere dell’aiuto di uomini di sua fiducia (è menzionato, in particolare NOME COGNOME) da lui – e si tratta di elemento di non poco significato – direttamente stipendiati.
2.5. Le deduzioni difensive del quinto motivo evocano «condotte collaborative» dell’imputato, senza però chiarire in che cosa sarebbero consistite e risulta, per tale ragione, aspecifico, oltre che manifestamente infondato, avendo la sentenza impugnata correttamente argomentato, oltre che dalla gravità del fatto commesso, dal ruolo di organizzatore dell’imputato il quale, come poc’anzi ricordato, disponeva anche di uomini al suo servizio.
Il motivo è, dunque, inammissibile.
2.6. Inammissibili sono, infine, le censure espresse nel sesto motivo di ricorso e sviluppate nei motivi nuovi, non apparendo manifestamente illogica la motivazione della sentenza impugnata là dove esclude la contestualità logica delle condotte (tutte estorsioni, commesse nel medesimo lasso temporale e relative alla stessa zona geografica), in forza di un accertamento irrevocabile sulla mancanza di collegamento con la consorteria criminosa del clan COGNOME dei fatti con i quali si chiede la continuazione c.d. esterna – e che risultano, pertanto, “qualitativamente” diversi – e poiché, oltretutto, prospettate in appello in termini
generici, con conseguente ricaduta sul principio devolutivo (art. 606, ult. comma, cod. proc. pen.), che risulta violato.
2.7. Alla dichiarazione di inammissibilità, del ricorso di NOME COGNOME consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
Anche il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile.
3.1. La motivazione della sentenza di appello sulla partecipazione di COGNOME all’associazione di stampo mafioso si basa sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia COGNOME e COGNOME che avevano specificato come l’imputato fosse preposto alle estorsioni a danno di imprenditori.
Tali dichiarazioni si “incastrano” – definendo come tessere l’immagine di un convincente puzzle probatorio – con quelle dell’allora compagna di COGNOME, NOME COGNOME la quale riconobbe in foto il COGNOME come la persona recatasi a casa sua per chiedere informazioni sull’intenzione di COGNOME di pentirsi, assicurandole che, ove non lo avesse fatto, in carcere «non gli sarebbe mancato nulla» (il che denota senz’altro la partecipazione).
Sul punto, si prescinda dalla considerazione che la Corte d’appello – con valutazione in fatto, non sindacabile in Cassazione – ha affermato che «non sono emersi, né sono stati indicati dalla difesa eventuali motivi di astio o rancore, che avrebbero giustificato possibili intenti calunniatori nei confronti dell’imputato»: non suscettibili di scalfire la valutazione di attendibilità di COGNOME sono, infatti, le deduzioni difensive sulla vicenda – affatto distinta – evocata nel motivo, l’omessa risposta alle quali non vizia, pertanto, la motivazione.
E’ utile, piuttosto, rilevare come la sentenza di primo grado – la cui motivazione, trattandosi di c.d. doppia conforme, costituisce con quella della pronuncia impugnata un unico corpo motivazionale (per tutte, (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218) – riporti la trascrizione di intercettazioni significative, in cui “NOME” (identificato, anche qui con giudizi di fatto non sindacabile da questa Corte, nel Cimmino), emerge come il soggetto deputato ad indicare ad altri affiliati gli imprenditori da estorcere, così riscontrando le suddette dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dando ragione della completezza e logicità della motivazione.
Il motivo è, quindi, inammissibile.
3.2. Inammissibile è altresì il secondo motivo di ricorso, sul carattere armato dell’associazione, in quanto non dedotto in appello e comunque, come si dirà a proposito delle analoghe doglianze di altri ricorrenti, manifestamente infondato.
3.3. Quanto al mancato riconoscimento delle circostanze generiche, si richiamano le considerazioni svolte a proposito dell’analogo motivo di NOME COGNOME sulla ratio della disposizione nonché sul senso e sui confini .della motivazione giudiziaria.
Mentre, sul versante della dedotta disparità di trattamento rispetto ad altri co-imputati dello stesso procedimento, si aggiunge che tale disparità implica un vizio di motivazione della sentenza nel solo caso in cui il giudizio di merito sul diverso trattamento di situazione prospettata come identica sia sostenuto da asserzioni irragionevoli o paradossali (Sez. 3, n. 9450 del 24/02/2022, COGNOME, Rv. 282839). Il che – come meglio risulterà quando sarà trattata la posizione di NOME COGNOME, cui le sentenze di merito hanno motivatamente attribuito un ruolo più marginale all’interno dell’associazione – non può certo dirsi nel caso di specie.
Pertanto, anche questo motivo va dichiarato inammissibile.
3.4. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna di NOME COGNOME al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
Inammissibile è poi il ricorso di NOME COGNOME.
4.1. Infatti, il primo motivo propone una lettura alternativa delle risultanze probatorie, inammissibile in Cassazione, a fronte della motivazione, completa e non manifestamente illogica, delle due sentenze di merito.
Premesso che il ricorrente è stato ritenuto partecipe all’associazione in qualità di factotum di NOME COGNOME (uomo di fiducia di NOME COGNOME), vero è che gli argomenti della Corte d’appello ruotano attorno al rapporto stretto dell’imputato con NOME COGNOME, esponente di spicco del clan COGNOME, presso il cui bar (formalmente intestato al figlio NOME COGNOME) COGNOME lavorava e del quale era factotum (veniva chiamato “o segretario” dagli affiliati). Ma è anche evidente che la strettissima vicinanza a NOME COGNOME non concerneva tanto, o soltanto, rapporti lavorativi leciti.
L’imputato – che, oltretutto, era a conoscenza dei fatti concernenti l’associazione (come la possibile ritorsione ai danni di Cecere, a seguito di un fallito attentato) – svolgeva infatti il ruolo di “cerniera” di raccordo tra Cecere e i membri del clan i quali, come emerge dal contenuto di intercettazioni riportate nella sentenza di primo grado, all’imputato si rivolgevano quando volevano contattarlo.
D’altronde, a conferma della concreta e fattiva messa disposizione del clan, depone quanto osservato nella sentenza di secondo grado, e cioè che NOME COGNOME – il reggente – ben conosceva il prevenuto e gli riconosceva un ruolo nella consorteria, visto che non soltanto si rivolgeva direttamente a lui per rintracciare
NOME COGNOME ma si mostrava altresì disposto a parlargli personalmente per far giungere notizie importanti al suo uomo di fiducia.
4.2. Il secondo motivo di ricorso, sul diniego delle circostanze attenuanti generiche, è del pari inammissibile, nemmeno precisando sulla base di quali elementi le stesse avrebbero dovuto essere riconosciute e risultando, per tale ragione, aspecifico.
4.3. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso di NOME COGNOME consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
Inammissibile è il ricorso presentato – con due distinti atti di impugnazione – da NOME COGNOME, imprenditore edile, cognato di NOME COGNOME ritenuto dalle due sentenze di merito partecipe dell’associazione.
Le impugnazioni sono suscettibili di essere trattate congiuntamente, coincidendo per larga parte nei contenuti.
5.1. Inammissibili sono il primo motivo del ricorso a firma dell’Avvocato COGNOME e il secondo motivo dell’Avvocato COGNOME, che ripropongono entrambi il problema della divergenza tra accusa e sentenza, cui però la Corte d’appello ha già correttamente replicato citando ampia giurisprudenza di questa Corte, tra cui Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051 – richiamata, per altro verso, nel ricorso dell’Avvocato COGNOME – secondo cui, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, e che da tale premessa desume come l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, sicché la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione.
Sul punto è utile precisare come tale insegnamento trovi mera specificazione nelle pacifiche affermazioni giurisprudenziali volte ad ammonire che la contestazione non va riferita soltanto al capo di imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongano l’imputato in condizioni di conoscere in modo ampio l’addebito (Sez. 2, n. 36438 del 21/07/2015, COGNOME, Rv. 264772), e quindi di difendersi.
Per concludere che ad esso si è perfettamente attenuta la Corte d’appello già nella parte in cui ha confermato la condanna COGNOME per lo stabile asservimento della sua attività di imprenditore edile alla consorteria camorristica.
Peraltro, la Corte d’appello ha precisato – e successivamente ribadito – che, «pur essendo emerso dall’attività di indagine espletata che l’affiliazione del COGNOME era per lo più fondata sull’attività di imprenditore edile esercitata», nel corso del procedimento è altresì emerso, in capo all’imputato, il «compito di “raccoglitore” dei proventi illeciti», «esposto specificatamente, anche, in imputazione».
Con altre parole, nella trama argomentativa delle pronunce di merito, il ruolo di collettore di proventi estorti si somma – non si sostituisce – a quello, la cu prova è emersa nel procedimento, di imprenditore di riferimento del territorio su cui il clan esercitava il controllo e che questo caldamente consigliava a quanti intendessero svolgere lavori abusivi, eludendo «il fastidio dei controlli»: con l’effetto – del pari fotografato in sentenza e che merita di essere sin d’ora evidenziato – che l’associazione ci guadagnava due volte: una prima grazie alla tangente estorsiva imposta; una seconda perché le imprese edili versavano parte dei loro introiti nelle casse del clan.
Le deduzioni sulla necessaria prevedibilità dell’immutazione, sviluppate dalla difesa a partire dalla più recente giurisprudenza europea, che questa Corte condivide, perdono quindi ab imis rilevanza, apparendo inconferenti nel caso di specie.
5.2. Anche il secondo motivo del ricorso a firma dell’Avvocato COGNOME e il primo motivo del ricorso a firma dell’Avvocato COGNOME sono inammissibili.
Vero è che, secondo questa Corte, in tema di giudizio di appello, è legittima la sentenza motivata per relationem alla sentenza di primo grado nel solo caso in cui il complessivo quadro argomentativo fornisca una giustificazione propria del provvedimento e si confronti con le deduzioni e con le allegazioni difensive provviste del necessario grado di specificità (Sez. 2, n. 18404 del 05/04/2024, COGNOME, Rv. 286406) ed è anche vero che il giudice d’appello non può limitarsi al mero e tralatizio rinvio alla motivazione della sentenza di primo grado, posto che, pur se il gravame ripropone questioni di fatto già dedotte e decise in prime cure, è tenuto a motivare, in modo puntuale e analitico, su ogni punto devoluto, onde non incorrere nel vizio di motivazione apparente (Sez. 3, n. 38126 del 06/06/2024, Amore, Rv. 287104).
Tale insegnamento è però espressamente riferito all’ipotesi in cui si sia «in presenza di un atto di impugnazione non ritenuto inammissibile per carenza di specificità», dove aspecifica deve ritenersi – anche in appello, come in cassazione
– l’impugnazione la quale ometta di confrontarsi con la motivazione del provvedimento gravato.
In altri termini, 1.a replica che si pretende dal giudice di seconda istanza deve consistere in una risposta ragionata (dunque, convincente) e dialogica ad obiezioni criticamente sollevate con riguardo ad effettive lacune nell’accertamento o a vizi oggettivamente rilevabili del percorso argomentativo in primo grado: privilegiando, dunque, dell’argomentazione giudiziaria, quella dimensione “sostanziale” che è strettamente connessa con l’irrinunciabile funzione giustificativa della motivazione (“dare ragioni” della decisione).
Le omissioni del Giudice dell’appello appaiono invece, nel caso di specie, meramente formali: come tali insuscettibili di tradursi in un sostanziale vizio di motivazione, lesivo delle garanzie difensive, e ciò in considerazione della completa ricostruzione operata nella sentenza del Giudice dell’udienza preliminare, la cui motivazione, trattandosi di c.d. “doppia conforme”, ben può saldarsi con quella della pronuncia impugnata, a costituire un unico corpo motivazionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., cit.).
La sentenza di primo grado, infatti, oltre a richiamare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, giudicate comunque attendibili, con valutazione di merito in questa sede non sindacabile – e relative all’organigramma della consorteria criminale nonché alle linee del funzionamento del sistema criminoso -, riporta intercettazioni il cui contenuto, ampio e massimamente auto-esplicativo, aveva già delineato in modo nitido il ruolo attivo dell’imputato nella collazione delle tangenti che venivano poi consegnate al cognato NOMECOGNOME oltre alla sua figura di “imprenditore edile di riferimento” all’interno del sistema criminoso associativo.
Né tali conclusioni sono invalidate – come vorrebbe il ricorrente – dalla mancata indicazione, da parte dei dichiaranti, dell’imputato tra le fila degli affiliat considerata la peculiarità del ruolo rivestito da COGNOME nella compagine criminosa, un ruolo “diversamente operativo”, non per questo meno rilevante o meno fattivo.
Le deduzioni difensive appaiono, dunque, anche sotto tale aspetto, manifestamente infondate.
5.3. Il terzo motivo dei due ricorsi, coincidenti nei contenuti, è inammissibile, fondandosi su una ricostruzione – quella della sporadicità/occasionalità del contributo fornito al solo consociato NOME – che non trova riscontro nella ricostruzione delle sentenze di merito, da cui emerge, esattamente al contrario, che COGNOME aveva messo in modo organico e stabile la sua attività imprenditoriale a disposizione del clan, concorrendo – chiosa la sentenza impugnata – a conservare ed accrescere la forza intimidatrice del comune vincolo associativo, al cui rafforzamento era, peraltro, per le ragioni esposte, fortemente interessato.
La qualificazione della condotta in chiave di partecipazione associativa, nel rispetto, da ultime, della citata sentenza a Sezioni Unite `RAGIONE_SOCIALE‘ – piuttosto che di concorso esterno o, addirittura, di favoreggiamento – risulta, dunqu.e, corretta.
5.4. Quanto al quarto motivo e alla dedotta mancata dimostrazione della conoscenza/conoscibilità del carattere armato dell’associazione, la sentenza impugnata ha affrontato il tema in via generale, affermando come, ai fini della configurabilità dell’aggravante nel caso di mafie storiche, quali sicuramente è il clan COGNOME, non sia richiesta l’esatta individuazione delle armi, ma che è sufficiente l’accertamento della disponibilità di un armamento, desumibile anche dalle risultanze emerse nella pluriennale esperienza storica giudiziaria, essendo questi elementi da considerare come utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori (ha citato, sul punto, Sez. 2, n., 22899 del 14 dicembre 2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284761).
Sempre nella sua “parte generale”, ha aggiunto che, nel caso del clan COGNOME, la natura armata del gruppo è ampiamente dimostrata dai provvedimenti giudiziari dei numerosi fatti di sangue collegati alle faide interne al gruppo, tutt specificati in dettaglio dai giudici di prima istanza, nonché dalle dichiarazioni dei collaboranti e dai ripetuti sequestri di armi trovate nella disponibilità degli associati e, in punto di imputazione soggettiva, ha parlato della caratura criminale degli uomini che facevano parte del sodalizio, valutata unitamente agli specifici indicatori prima indicati tra cui ripetuti i fatti di sangue susseguitisi nel tempo l’uso di armi per presidiare il territorio.
Con specifico riferimento al ricorrente, per di più, ha compiuto un espresso riferimento alla parentela con NOME, apice dell’associazione, che rende del tutto inverosimile l’ipotesi che NOME potesse ignorare la disponibilità di armi da parte del consorzio criminoso.
A fronte di una motivazione esente da vizi rilevabili in Cassazione, il motivo è, pertanto, inammissibile.
5.5. Con valutazione non illogica la Corte d’appello aveva reputato generica l’analoga deduzione in appello, fondata soltanto sull’incensuratezza (il cui rilievo è peraltro escluso per espresso dettato legislativo dell’art. 62-bis cod. pen.) e sull’età avanzata dell’imputato (oltre che sull’asserita derivazione della sua responsabilità dalla sola parentela con NOME).
Il ricorrente deduce, oggi, vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, riproponendo le stesse osservazioni, senza quindi confrontarsi con la risposta già correttamente fornita dai Giudici di merito, i quali avevano rilevato l’assenza di condotte resipiscenti e di elementi suscettibili di positiva valutazione.
Ragion per cui il quinto motivo dei ricorsi va dichiarato anch’esso inammissibile.
5.6. Quanto infine alla richiesta avanzata, in sede di discussione orale dall’Avvocato COGNOME in ordine all’estensione al suo assistito delle deduzioni svolte dal difensore di COGNOME sul valore (della mancanza) di sentenze passate in giudicato ai fini dell’accertamento di responsabilità, si rinvia a quanto sarà osservato a proposito di quel ricorso, anticipando, tuttavia, che le deduzioni sono manifestamente infondate.
5.7. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna di NOME COGNOME al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
Inammissibile è il ricorso di NOME COGNOME condannato per un episodio di estorsione ai danni di tale COGNOME il quale – secondo la ricostruzione operata nei due gradi di giudizio di merito – dovette consegnargli 2.000 euro per i lavori di ristrutturazione della sua abitazione, eseguiti da una ditta riconducibil all’imputato.
6.1. Inammissibile, perché in fatto e teso a proporre una ricostruzione alternativa, è il primo motivo di ricorso, con cui si contesta la responsabilità dell’imputato per l’estorsione aggravata.
La Corte d’appello ha chiaramente precisato che le conversazioni intercettate – il cui carattere colloquiale non esclude la portata intimidatoria delle richieste (l deduzioni difensive sul punto essendo astratte e congetturali) – danno conto che COGNOME fosse ben consapevole di dover “fare un regalino”, essendo costretto a versare 2.000 euro per i lavori di ristrutturazione della sua abitazione, eseguiti dalla ditta di Napolitano.
Incidentalmente, dalla sentenza emerge pure come tale denaro fosse destinato a NOME COGNOME e, quindi, al clan da questi diretto.
6.2. Lo stesso vizio, e per le medesime ragioni, inficia il secondo motivo di ricorso, sulla c. d. aggravante mafiosa.
La sentenza di secondo grado ha motivato la finalità agevolativa che giustifica l’aggravante mafiosa, «essendo emerso che il denaro fosse destinato ad NOME, che per riscuoterlo si portava, fruendo di un permesso premio, da Busano a Giugliano, destinato non solo a spese personali del reggente del clan, ma anche ad agevolare effettivamente» quest’ultimo.
La sentenza di primo grado, d’altronde, già aveva ampiamente documentato la vicinanza del ricorrente con NOME COGNOME precisando come COGNOME sia il fratello del boss di Giugliano e che la sua impresa – o, meglio, le imprese a lui
riconducibili – sono “cosa del clan”, sicché era dato notorio che, affidandosi ad essa, gli imprenditori avrebbero avuto meno problemi con il clan ed ottenuto pure uno sconto sulla tangente estorsiva, mentre il clan dal canto suo – ci guadagnava due volte: una prima perché i lavori erano affidati allo stesso; una seconda, perché su di essi si pagava la quota estorsiva. Tale dato, in uno con il fatto che a Napolitano è stata ascritta un’ipotesi estorsiva (per la cui integrazione è alternativamente richiesto l’uso di violenza o di minaccia a fini, appunto, intinnidativi), renderebbero pertanto in astratto ragione della configurabilità della circostanza aggravante già nella sua manifestazione oggettiva (prim’ancora che soggettiva).
Anche tale motivo è, pertanto, inammissibile.
6.3. Inammissibile in quanto aspecifico è, infine, il terzo motivo di ricorso, il ricorrente nemmeno avendo precisato quali siano state le suddette condotte collaborative che avrebbero consentito di rilevare un vizio motivazionale nel mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti.
6.4. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna di NOME COGNOME al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
Due gli atti di impugnazione presentati da NOME COGNOME sorella di NOME COGNOME che, secondo la ricostruzione operata nei due gradi di merito, partecipa all’associazione con funzione di collettrice di parte delle somme di denaro provenienti da attività illecite destinate alla bacinella dell’organizzazione.
7.1. In quello presentato per il tramite dell’Avvocato NOME COGNOME nonché nel primo motivo di quello a firma degli Avvocati COGNOME e NOME COGNOME COGNOME si censura la riqualificazione in peius (da concorso esterno in partecipazione all’associazione di stampo mafioso) del fatto, in mancanza di impugnazione.
La deduzione è infondata.
Premesso che, ai sensi dell’art. 597 cod. proc. pen., «quando appellante è il solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata, né revocare benefici, salva la facoltà entro i limiti del comma 1, di dare al fatto una definizione giuridica più grave, purché non venga superata la competenza del giudice di primo grado», come noto, in sede convenzionale europea, è stato ciò nondimeno sancito il diritto dell’imputato «ad essere informato in maniera dettagliata della natura e dei motivi dell’accusa formulata nei suoi confronti», nonché il «diritto a disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie alla
preparazione della sua difesa», (Corte EDU, sent. del 11/12/2007, n. 25575/04, COGNOME c. Italia; di recente, Corte di giustizia UE, sent. 9 novembre 2022, BK, C175/22).
Tali statuizioni sono ampiamente penetrate nel diritto vivente, che le ha sintetizzate nella formula per cui il mutamento della qualificazione giuridica deve essere “prevedibile”.
Ciò precisato, nel caso di specie, per un verso, a nulla vale lo sforzo difensivo di distinguere il profilo della sussistenza della responsabilità da quello della qualificazione giuridica dei fatti (in base al riferito dettato legislativo, ciò innesca il potere giudiziario di riqualificazione è l’impugnazione della sentenza ad opera di una parte: nel caso di specie, l’imputata); per altro verso, dalla riqualificazione non è derivato un trattamento deteriore per la ricorrente, la pena essendo rimasta invariata; per altro verso ancora, il mutamento in oggetto era comunque ampiamente prevedibile, visto che il fatto è rimasto lo stesso nella sua dimensione storico-materiale e che, comunque, l’ipotesi partecipativa era stata originariamente contestata a NOME COGNOME il che elide ogni eventuale ombra residua quanto ad una – inesistente, in concreto – violazione del diritto di difesa in ordine allo specifico aspetto dell’affectio societatis.
In conclusione, il Giudice di secondo grado risulta essersi conformato alla pacifica giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il giudice di appello, pur in presenza dell’impugnazione del solo imputato, può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto nel rispetto del principio del giusto processo previsto dall’art. CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, anche senza disporre la rinnovazione totale o parziale dell’istruttoria dibattimentale, sempre che sia sufficientemente prevedibile la ridefinizione dell’accusa inizialmente formulata, che il condannato sia in condizione di far valere le proprie ragioni in merito alla nuova definizione giuridica del fatto e che questa non comporti una modifica in peius del trattamento sanzionatorio (così, tra le altre, Sez. 3, n. 9457 del 19/01/2024, E., Rv. 286026).
I motivi di ricorso vanno, dunque, rigettati.
7.2 Il secondo motivo del ricorso a firma degli Avvocati COGNOME e NOME COGNOME COGNOME è infondato.
La Corte d’appello ha fondato la responsabilità dell’imputata per partecipazione in associazione di stampo mafioso sulla valutazione di plurimi elementi probatori quali: le intercettazioni con la cognata COGNOME da cui i Giudici hanno desunto la piena conoscenza delle dinamiche interne del sodalizio anche per quanto concerne il profilo relativo alla gestione di cassa; la vicenda relativa alle “cinque cartelle cliniche”, intese – con giudizio non illogicamente motivato – come allusive a 5000 euro, che l’associato NOME COGNOME avrebbe
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lasciato alla ricorrente e destinate al fratello NOME; una conversazione con quest’ultimo, che rappresentava la necessità di recarsi a NOME per riscuotere maggiori somme di denaro, da cui emergeva il ruolo di tesoriere della donna, deputata a conservare le somme nell’interesse del fratello e, indirettamente, dell’intero clan; l’intercettazione della conversazione con COGNOME in cui le due imputate si confrontavano sulla necessità di avvisare dei controlli predisposti nei confronti di NOME COGNOME il dentista NOME COGNOME che offriva la copertura per i suoi permessi; le dichiarazioni, riscontranti, del collaboratore NOME COGNOME il quale confermava il ruolo di raccordo con NOME e che attribuiva a NOME COGNOME anche quello di consegnataria delle somme e di gestione delle stesse.
Nessuna violazione dei canoni probatori in materia penale è, dunque, ravvisabile nel caso di specie: essendo, al contrario, il ricorso a proporre una lettura alternativa, peraltro atomistica, di prove dalle quali i Giudici di secondo grado desumono – con motivazione completa e non manifestamente illogica, come tale, non sindacabile da questa Corte – la responsabilità dell’imputata come partecipe all’associazione.
7.3. Inammissibile è il terzo motivo di ricorso, volto a contestare la configurabilità, a carico dell’imputata, dell’aggravante armata”.
Al contrario di quanto dedotto in sede difensiva, infatti, è tutt’altro che irragionevole la supposizione – posta a fondamento della loro decisione dai Giudici di merito – per cui lo strettissimo congiunto di un esponente apicale di un’associazione storica, in relazione alla quale è stata in passato accertata la commissione di reati con le armi, sappia o possa sapere che l’associazione medesima ha la disponibilità di armi: vieppiù se – ed è il caso di specie – con tale strettissimo congiunto sia dimostrata una frequentazione e “vicinanza di vita” affatto peculiare.
7.4. Inammissibile è pure il quarto motivo di ricorso, sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Sul punto, va innanzitutto precisato che – contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente – la sentenza di primo grado non aveva negato le circostanze attenuanti nei confronti dell’imputata, bensì le aveva riconosciute, seppur ritenendole – a seguito del giudizio di bilanciamento – equivalenti all’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen. Sicché il motivo, già sotto questo profilo, potrebbe essere considerato generico.
Si ritiene comunque opportuno ribadire che, come il riconoscimento delle circostanze generiche non rappresenta un diritto dell’imputato, così, del tutto fisiologicamente, il giudizio di bilanciamento può risolversi tanto nella soccombenza, quanto nella prevalenza oppure anche nell’equivalenza tra
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circostanze aggravanti ed attenuanti, là dove il Giudice motivatamente ritenga che il disvalore delle une elida il valore delle altre.
. COGNOME Ciò è, appunto, accaduto nel caso di specie, in cui, peraltro, .1a Corte d’appello ha anche rilevato la «assenza di condotte resipiscenti e di elementi suscettibili di positiva valutazione, nemmeno indicati dalla difesa», lumeggiando, anche sotto questo aspetto, l’aspecificità del motivo.
7.5. Al rigetto del ricorso di NOME COGNOME consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ex art. 616 cod. proc. pen.
Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile.
8.1. Inammissibile è il primo motivo di ricorso.
Vero è che, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M. Rv. 283777).
A monte, tuttavia, va ricordato che, per parimenti pacifico insegnamento di questa Corte, il ricorso non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero – come sarebbe accaduto nel caso di specie – non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività, ma deve, invece: a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (per tutte, Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F., Rv. 281085).
Ebbene, nel caso di specie difetta la “decisività” della prova in oggetto.
La Corte d’appello ha, infatti, desunto la responsabilità dell’imputato da una pluralità di elementi, esaustivamente motivando come egli svolgesse diverse attività nell’interesse del clan camorristico in esame.
Ha, in particolare, precisato che, approfittando del suo stato di incensuratezza e dell’assenza di controlli da parte delle forze dell’ordine, oltre a fare da autista NOMECOGNOME, organizzava. incontri tra questi e gli altri affiliati e che fungeva da latore di importanti i messaggi, dimostrando, in più occasioni, di essere pienamente a conoscenza delle dinamiche criminali del sodalizio.
D’altro canto, il Giudice di primo grado, proprio con riferimento alle intercettazioni in oggetto, aveva chiosato come NOME alludesse al fatto che COGNOME non aveva una spiccata indole criminale e che, per tale motivo, andava preservato dal compiere attività «più invasive» di quelle cui – si desume sul piano logico – era già addetto all’interno del clan (incidentalmente, di tale “marginalità di ruolo” i Giudici hanno tenuto conto, riservando all’imputato un trattamento sanzionatorio più benevolo che agli altri consociati).
A ciò si aggiunga che la Corte d’appello ha pure specificato che l’imputato aveva un rapporto non meno stretto con NOME COGNOME, altro personaggio di rilievo della consorteria, con il quale era controllato più volte, percependo un vero e proprio stipendio dal clan, come riferito dai collaboratori di giustizia, e che NOME COGNOME gli affidava anche parte delle somme di denaro delle casse del clan medesimo.
8.2. Tali ultimi elementi travalicano il legame esclusivo e personale con NOME COGNOME senza che altro sia necessario aggiungere.
In modo corretto, dunque, la Corte d’appello li reputa sintomatici dell’affectio societatis, denotando essi, sul piano oggettivo, ancora precedente, la concreta messa a disposizione del sodalizio criminoso dell’imputato (secondo l’insegnamento di Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, COGNOME, Rv. 281889).
Anche il secondo motivo di ricorso risulta, pertanto, manifestamente infondato, oltre che generico, poiché non “dialoga” con la motivazione della sentenza impugnata la quale, in modo esauriente – sul piano della completezza così come della logica – ha argomentato la qualificazione giuridica del fatto in chiave di partecipazione, piuttosto che di c.d. concorso esterno.
8.3. Inammissibile è, infine, il terzo motivo di ricorso.
Deve precisarsi che, diversamente da quanto dedotto, le circostanze attenuanti erano state concesse in primo grado all’imputato, sebbene in misura equivalente all’aggravante dell’associazione armata, né alcuna disparità di trattamento era stata operata – vuoi anche sul piano formale – con le imputate NOME COGNOME e NOME COGNOMEper cui era stato parimenti espresso, in primo grado, il suddetto giudizio di equivalenza, sempre in ragione della ritenuta marginalità del ruolo associativo).
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Valgono, dunque, per il ricorrente, le medesime considerazioni svolte a proposito del corrispondente motivo di ricorso di NOME COGNOME, alle quali si rinvia.
8.4. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso di NOME COGNOME consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
Il ricorso di NOME COGNOME è fondato, per le ragioni e nei limiti di seguito indicati.
9.2. Fondato è, in particolare, il secondo motivo di ricorso.
COGNOME aveva eccepito in secondo grado l’omessa considerazione, da parte del Giudice per le indagini preliminari, di aspetti che, ad avviso della difesa, avrebbero dovuto condurre ad escludere tout court la responsabilità dell’imputata, ritenuta, all’esito del giudizio, concorrente esterna (a fronte dell’originari imputazione a titolo di partecipazione) nell’associazione.
La difesa aveva a tal fine osservato, tra l’altro, come dalle conversazioni con NOME COGNOME, marito dell’imputata, emergeva la viva preoccupazione della donna, estremamente concentrata sulla gestione patrimoniale domestica, per le elargizioni del coniuge, cui rimproverava eccessi di prodigalità verso i consociati con i cui interessi economici era, dunque, non di rado in contrapposizione.
In effetti, la sentenza di secondo grado, lungi dal fornire puntuale risposta a tali deduzioni (come avrebbe dovuto fare, essendo per tale ragione assegnata ai giudici dell’appello una piena cognizione nell’ambito del devoluto), si è sostanzialmente limitata a riqualificare il fatto come partecipazione. Ha quindi realizzato un’operazione che, da un punto di vista squisitamente giuridico, è come rilevato a proposito del ricorso di NOME COGNOME – formalmente legittima, ma che, in concreto, elude le riferite deduzioni in appello.
La pronuncia ha inoltre valorizzato, quanto alle ambasciate “in codice” di NOME, il ruolo di “cerniera” di NOME tra il marito, ristretto in detenzion domiciliare nel Comune di Busano e gli affiliati di Giugliano. Ciò ha fatto, però, in termini assertivi e, dunque, sostanzialmente immotivati.
In essa non si trova, infatti, specificato – come pure era stato richiesto dalla difesa dell’imputata (che rilevava l’inconcludenza delle captazioni in tal senso) se le richieste di NOME avessero o meno trovato seguito presso la moglie.
E, in caso positivo, non si è precisato se la condotta di COGNOME il cui legame coniugale con NOME avrebbe imposto una verifica particolarmente stringente (al contrario di quanto pare sbrigativamente assumere la sentenza impugnata), avesse spiegato la sua valenza a vantaggio dell’intera consorteria camorristica –
secondo la più volte evocata formula della fattiva e concreta “messa a disposizione” in favore dell’intero gruppo criminale, che riempie di contenuto partecipativa. – oppure se si fosse risolta ad esclusivo vantaggio del marito.
In tale ultimo caso – deve conclusivamente precisarsi -, essendo NOME COGNOME al vertice della consorteria, non potrebbe escludersi la correttezza della qualificazione assegnata al fatto dal Giudice di primo grado in termini di concorso esterno: a condizione, però, che siano adeguatamente argomentati i riflessi, in senso eziologico, della condotta dell’imputata sul mantenimento/rafforzamento dell’associazione criminosa (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231671), non essendo, all’evidenza, sufficiente – né ai fini della partecipazione, né a quelli del concorso esterno – che COGNOME conoscesse le dinamiche del clan.
Ciò che il Giudice dell’appello ha trascurato di fare.
9.3. Di conseguenza, la sentenza va sul punto annullata, con rinvio al giudice dell’appello perché svolga un nuovo giudizio sul fatto, secondo i criteri poc’anzi indicati, fornendo risposta alle eccezioni difensive.
9.4. Risulta, conseguentemente, assorbito l’esame dei restanti motivi.
Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile.
10.1. Inammissibile è il primo motivo di ricorso.
In proposito si richiama quanto già rilevato (in relazione al ricorso di COGNOME) a proposito delle deduzioni sull’obbligo di motivazione in appello, per ribadire come, in presenza di una c.d. doppia conforme (e sempre che la sentenza di primo grado abbia esaustivamente argomentato), le motivazioni delle due pronunce di merito possano utilmente integrarsi.
Ciò è quanto accaduto con riguardo alla posizione di NOME COGNOME.
Ritenuti i collaboratori di giustizia attendibili, alla luce delle relat dichiarazioni, nonché dei riscontri contenuti nelle intercettazioni – le une e gli alt ampiamente riportati nella sentenza di primo grado e la cui lettura implica una valutazione di fatto che sfugge al sindacato di questa Corte -, la Corte d’appello del tutto legittimamente ha recepito le conclusioni della prima sentenza, specificando come questa avesse valutato «scrupolosamente» la posizione dell’imputato, per desumerne un ruolo di neo-affiliato del clan, autista di NOME COGNOME e di NOME COGNOME, principalmente incaricato di individuare le attività commerciali e i cantieri nella zona della fascia costiera da sottoporre ad estorsioni, oltre che nemmeno troppo occasionale partecipe ad alcune di esse, come risulta dalla contestazione dei delitti-fine di cui ai capi E), T), U).
Né la circostanza che l’imputato fosse stato indicato come affiliato da poco tempo smentisce l’ipotesi di reato desunta dai citati elementi, confermandone, al limite, l’attendibilità.
10.2. Alla luce di quanto rilevato sulle “competenze” e sulle condotte dell’imputato, anche il secondo motivo appare manifestamente infondato, oltre a non risultare devoluto in appello ed è, quindi, anche sotto questo profilo, inammissibile (art. 606, ult. comma, cod. proc. pen.).
10.3. Inammissibile, poiché manifestamente infondato, è il terzo motivo di ricorso.
L’argomentazione, pur svolta dalla Corte d’appello una tantum per tutti gli imputati, appare, con riferimento al ricorrente, ineccepibile, essendo la conoscibilità (se non la conoscenza) del carattere armato dell’associazione agevolmente inferibile dalla fama dello storico clan COGNOME, da valutare in uno con il limitato contesto spaziale in cui furono realizzate le condotte partecipative e con i rapporti qualificati di COGNOME con personaggi di spicco della consorteria mafiosa (NOME COGNOME e NOME COGNOME).
10.4. Il quarto motivo di ricorso è del pari inammissibile, in quanto volto a proporre una lettura alternativa di dati probatori valutati da due Corti di merito con giudizio esente da vizi logici o di completezza.
In particolare, quanto al capo E) e alla dedotta assenza di atti di intimidazione, la persona offesa pronunciò la frase «non vi preoccupate che nello sbaglio non mi metto», non illogicamente ritenuta dalla Corte d’appello indicativa del suo stato di soggezione verso il clan.
Quanto al capo T), premessa l’insindacabilità, in questa sede, dell’apprezzamento sull’attendibilità del collaboratore NOME COGNOME, la Corte d’appello, nel confermare il giudizio di responsabilità dell’imputato quanto all’estorsione commessa presso il “INDIRIZZO“, cita l’intercettazione in cui, dopo aver discusso con NOME COGNOME reo di non essersi presentato in orario all’appuntamento fissato alle 8:30 presso il lido stesso, lo rassicura dicendogli «comunque abbiamo chiuso e li abbiamo fatti andare», e attribuisce a tale frase anche in questo caso, in modo tutt’altro che illogico – il valore di una confessione stragiudiziale, desumendone l’irrilevanza della mancata individuazione delle persone offese nonché delle somme di denaro estorte ed aggiungendo, per di più, che le dichiarazioni avevano trovato ampio riscontro nella presenza dell’imputato (accertata mediante il sistema GPS installato sulla sua autovettura) presso il lido ed altri luoghi dove egli si era recato per cercare il Russo.
Quanto, infine, al capo U), nella sentenza impugnata si precisa che l’appellante non aveva specificato a che titolo la persona offesa, titolare di una società di trasporti, avrebbe dovuto versare la somma a due sodali, tanto più che
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dalle intercettazioni emerge che il ricorrente, con COGNOME, aveva fatto var “tappe” e che, in occasione di una di esse – quella presso la ditta di Bia COGNOME -, avesse pronunciato con fierezza la frase «e mi sono fatto pure questo qua».
10.5. Nel caso di specie, nessun dubbio residua sulla configurabilità dell’aggravante mafiosa – sia nella variante oggettiva, sia in quella soggettiva sicché non vizia la motivazione la mancata argomentazione sulla specifica posizione del ricorrente, attivamente coinvolto (come sinteticamente riferito) nell realizzazione di estorsioni a vantaggio dell’organizzazione camorristica.
Il quinto motivo è, dunque, inammissibile.
10.6. Così come inammissibile, perché generico, è il sesto motivo di ricorso. L’aumento di un anno e sei mesi, per un reato (l’estorsione) punito, nella forma base, con la reclusione da cinque a dieci anni, a ragione, può essere ritenut contenuto, in uno con gli altri elementi del caso concreto. Non contrasta, dunque, con l’insegnamento di Sez. U., n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269.
10.7. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso di NOME COGNOME consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore dell Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
11. Il ricorso di NOME COGNOME è fondato limitatamente al terzo motivo.
11.1. Il primo motivo di ricorso è quantomeno infondato.
11.1.1. In tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, è opportuno premettere che per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concre nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un real pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputa attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051).
L’insegnamento ha trovato specificazione, in una situazione speculare a quella in oggetto, quantomeno in Sez. 6, n. 49820 del 05/12/2013, COGNOME, Rv. 258138, secondo cui non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la decision con cui l’imputato, rinviato a giudizio per partecipazione ad associazione mafiosa, sia condannato per concorso esterno alla stessa associazione, trattandosi non di
due GLYPH diverse GLYPH ipotesi GLYPH delittuose, GLYPH ma GLYPH di GLYPH distinte GLYPH modalità della partecipazione criminosa, purché il fatto materiale per cui vi è sta condanna risulti sufficientemente descritto nell’imputazione, la quale ha altre precisato che neppure può ipotizzarsi una violazione del contraddittorio e del correlato diritto dell’imputato ad un equo processo, dal momento che l’imputato è stato messo in condizione di interloquire pienamente sulla riqualificazione giuridica operata dal tribunale, dapprima con l’atto di appello e, in seguito, con il ric per cassazione (cfr., più di recente, Sez. 2, n. 29248 del 26/04/2018, COGNOME Rv. 272947).
In GLYPH termini, GLYPH tale GLYPH principio GLYPH era GLYPH stato GLYPH già GLYPH sancito GLYPH in GLYPH Sez. 2, n. 12838 del 16/12/2002, dep. 2003, COGNOME, Rv. 224879, e ad esso si è conformata la Corte d’appello di Napoli.
I Giudici di secondo grado, dopo aver reputato – con giudizio di fatto non sindacabile in questa sede – le dichiarazioni dei collaboratori dettagliat specifiche, citando in particolare quelle di NOME COGNOME e di NOME COGNOME quale aveva identificato in COGNOME uno storico affiliato del clan COGNOME, che faceva parte dell’alleanza di Secondigliano, successivamente transitato nelle fila del clan COGNOME), hanno congruamente specificato come, a causa dell’età avanzata, l’imputato non avesse più un ruolo attivo nella commissione di reati-fine, tant che era stato mandato assolto con formula dubitativa da un delitto-fine di estorsione (capo C). Ma ha altresì aggiunto come il collaboratore di giustizi COGNOME avesse affermato non soltanto che COGNOME continuava a percepire lo stipendio (in un’intercettazione il ricorrente affermava di dover ancora riceve 500 euro sulla “mesata”), ma pure che nel territorio francese insistevano vari attività economiche riferibili a NOME COGNOME, tra cui un ristorante-pizzeria che collaboratore si preoccupava di mandare a visionare in compagnia di un altro affiliato fiduciario indicato, appunto, in NOME COGNOME: con ciò dando ragione del ruolo di questi nello svolgimento delle attività estorsive nell’ambi dell’associazione.
11.1.2. Tale motivazione appare completa e non illogica, sottraendosi, dunque, al sindacato di questa Corte, e dà ragione della concreta messa a disposizione del clan dell’operato di COGNOME che, d’altronde – si è appena rilevato ne riceveva una contropartita economica. Dimostra dunque, al di là di ogni ragionevole dubbio, la responsabilità dell’imputato per l’ipotesi partecipativa.
11.1.3. Mentre, quanto all’eccepita violazione dell’art. 238-bis cod. proc. pen è il caso di precisare che, se costituisce insegnamento costante quello secondo cu – in assenza di pregiudizialità penale e fermo restando l’obbligo motivazional vigente in presenza di un giudicato assolutorio per il medesimo fatto – la differenz tra le acquisizioni processuali di un procedimento già definito e di altro in co
può GLYPH condurre GLYPH il GLYPH giudice GLYPH di GLYPH merito GLYPH a GLYPH epiloghi GLYPH diversi (Sez. 2, n. 38184 del 06/07/2022, Cospito, Rv. 283904, la quale specifica che in ciò consiste il richiamo operato dall’art. 238-bis cod. proc. pen. alle reg interpretative fissate dagli artt. 187 e 192, comma 3, cod. proc. pen.), de ritenersi che, a fortiori, nessun vincolo ai fini di prova del fatto può derivare al giudice di merito dall’assenza di sentenze definitive di condanne. Come nel caso di specie.
11.2. Il secondo motivo è inammissibile.
La motivazione della sentenza impugnata – per cui, trattandosi di mafia storica ed essendo COGNOME affiliato di vecchia data, non poteva non essere a conoscenza della disponibilità di armi da parte del clan appare tutt’altro che illogica e risulta, quindi, esente da vizi.
11.3. Fondato è, invece, il terzo motivo di ricorso.
Le circostanze attenuanti generiche erano state chieste in appello adducendo l’assenza di condanne per reati associativi, la mancanza di reati-fine ed il minim apporto all’associazione.
La Corte d’appello ha risposto in modo estremamente sintetico e stereotipato, significativamente senza alludere, come fatto per altri ricorrenti, alla gravità fatto ma rilevando genericamente soltanto l’«assenza di condotte resistenti ed elementi suscettibili di positiva valutazione».
Si è pertanto sottratta ad un obbligo di motivazione che avrebbe dovuto essere stringente, tanto più nel caso di specie, avendo essa stessa riconosciu che l’imputato, di età avanzata, da tempo non svolgeva più un ruolo concorsuale attivo nella commissione di singoli reati-fine, ma si limitava a fare da referente territorio per l’associazione.
11.4. La sentenza va dunque annullata, in relazione alla posizione di NOME COGNOME limitatamente all’applicazione dell’art. 62-bis cod. pen., affinché il giudice del rinvio svolga un nuovo giudizio sul punto.
Il vizio motivazionale è ancora più accentuato in relazione alla posizione di NOME COGNOME il cui ricorso appare fondato già in punto di responsabilità.
12.1. La sentenza impugnata “dipinge” COGNOME come uno storico affiliato al clan con il compito di partecipare attivamente alle estorsioni ai danni degli imprenditori della zona di Giugliano, nonché della zona costiera, desumendo la sua appartenenza all’associazione: dal fatto che l’appellativo “COGNOME” – riferito, giudizio di merito, non sindacabile in questa sede, all’imputato – ricorre ne captazioni tra i sodali (senza però precisare in che cosa consista il contenu indiziante di tali conversazioni); dai controlli cui il ricorrente è stato s
assoggettato con altri affiliati; dalla sua sottoposizione agli arresti domiciliar 2018 per estorsione aggravata.
Tanto più in assenza del diretto coinvolgimento nella commissione di singoli reati-fine, tuttavia, quegli elementi non appaiono ancora sufficienti a denotare più volte evocata «messa a disposizione» in favore dell’associazione, la quale deve essere attuale, oltre che fattiva, e che non può quindi ridursi ad una risale affiliazione formale, “vuota” di concreti contenuti operativi (quali l’effett svolgimento di mansioni di raccordo, di scambio informativo o qualunque altro consapevole sostegno, a vario titolo, al consorzio criminoso).
Infatti, se è vero che il vincolo associativo tra il singolo e l’organizzazion instaura nella prospettiva di una futura permanenza in essa a tempo indeterminato e si protrae sino allo scioglimento della consorteria, potendo essere significati della cessazione del carattere permanente della partecipazione soltanto l’avvenuto recesso volontario, che, come ogni altra ipotesi di dismissione dell qualità di partecipe, deve essere accertato in virtù di condotta esplicita, coere e univoca e non in base a elementi indiziari di incerta valenza, quali quelli del età, del subingresso di altri nel ruolo di vertice e dello stabilimento della resid in luogo in cui si assume non essere operante il sodalizio criminoso (Sez. 5 n. 1703 del 24/10/2013, dep. 2014, Sapienza, Rv. 258954), d’altro canto, condotta esplicita deve ritenersi anche una protratta inazione, a condizione che denoti in modo inequivoco la cessata condivisione di metodo e finalità associative, non potendo ammettersi che un partecipe rimanga tale per sempre.
D’altronde, nel caso di specie, la motivazione della sentenza impugnata non può essere integrata da quella di primo grado, anch’essa sul punto ambivalente. Dalla sua lettura si apprende, infatti, che COGNOME (come detto, nominato i intercettazioni tra terzi) è stato ritenuto dai conversanti e dai collabor «affiliato» e che era stato sì preso astrattamente in considerazione per alcu incarichi.
Tuttavia, da un lato, la mera affiliazione non sarebbe comunque sufficiente ai fini dell’integrazione dell’ipotesi di reato, in base al più volte citato arresto U., n. 36958 del 27/05/2021, COGNOME, cit.; dall’altro, dalla stessa sentenza appello emerge che la citata “candidatura” dell’imputato allo svolgimento di compiti per il clan era declinata, poiché gli stessi conversanti ne parlavano come di un soggetto controverso e poco affidabile, che in passato aveva tenuto comportamenti scorretti verso il clan e che, per tale ragione, andava tenuto lontano dalle attività di questo (per di più, da un passaggio delle intercettaz evincendosi che l’imputato potrebbe vivere dei canoni di affitto di abitazion comprate con soldi a suo tempo sottratti al clan).
•
Il Giudice di primo grado riporta, inoltre, le dichiarazioni del collaborator
COGNOME secondo cui COGNOME, allontanato dall’associazione per essersi appropriato di alcune somme, vi era stato, successivamente, reintegrato da tale
NOME COGNOME che aveva bisogno di uomini, aggiungendo di aver collaborato con lui in alcune estorsioni. Anche in proposito, dalla pronuncia risulta però ch
tali informazioni erano state riferite a Caracallo da terzi affiliati al clan
COGNOME
(sicché, essendo de relato,
avrebbero dovuto essere supportate da validi elementi di verifica circa le modalità di acquisizione dell’informazione resa, che consentan
di ritenerle effettivamente oggetto di patrimonio conoscitivo comune agli associati:
Sez. 1, n. 17647 del 19/02/2020, COGNOME, Rv. 279185) e che le vicende risalivano a molto tempo prima (agli anni 2002/2003).
Nella trama della sentenza di primo grado, pure le collaborazioni estorsive tra
Caracallo e Vallefuoco restano, infine, imprecisate, soprattutto sul pian cronologico: come d’altronde dimostra il fatto, già sottolineato, che in ques
processo l’imputato non ha riportato condanne per reati-fine.
12.2. Essendo fondato il primo motivo di ricorso – esaminato in via logicamente prioritaria – i restanti motivi sono assorbiti e la sentenza conseguentemente annullata, con rinvio ai giudici del merito per nuovo giudizio sulla responsabilità dell’imputato Vallefuoco.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME e COGNOME NOME e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. Annulla la medesima sentenza nei confronti di COGNOME Giuseppe limitatamente alla applicazione dell’art 62-bis cod. pen., con rinvio, per nuovo giudizio su tale punto, ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. Dichia inammissibile nel resto il ricorso di COGNOME. Rigetta il ricorso di NOME COGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibili i ricorsi di COGNOME Michele, COGNOME Mario, COGNOME, COGNOME NOMECOGNOME Giuseppe, COGNOME NOME, COGNOME Angelo e COGNOME Marco che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
o GLYPH Così deciso il 17/06/2025