Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 5257 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 5257 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 12/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a MAMMOLA il 10/08/1943
avverso l’ordinanza del 22/04/2024 del TRIB. LIBERTA’ DI TORINO Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza in data 22 aprile 2024, il Tribunale del riesame di Torino ha parzialmente confermato il provvedimento con cui il GIP presso il Tribunale della stessa città aveva applicato nei confronti, tra gli altri, di NOME COGNOME la misura cautelare della custodia in carcere in relazione ai reati di partecipazione, con ruolo apicale, ad associazione mafiosa armata, e di due estorsioni.
Avverso tale ordinanza, NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, articolando otto motivi di censura.
2.1. Con il primo motivo deduce vizio di violazione di legge e vizio di L. motivazione. Il Tribunale del riesame avrebbe ritenuto provata l’esistenza nel comune di Brandizzo di una articolazione locale della associazione di stampo
mafioso denominata ‘ndrangheta, nella quale il ricorrente avrebbe rivestito un ruolo apicale e che sarebbe stata legata alla “casa madre” costituita dalle ‘ndrine “Nirta e COGNOME“, secondo quanto emerso dalle dichiarazioni di NOME COGNOME e del figlio NOME, senza tener conto delle argomentazioni svolte dalla difesa che aveva ricondotto tali dichiarazioni a manifestazioni di «spavalderia e millanteria». Il Tribunale avrebbe inoltre omesso di considerare che il cognome COGNOME corrispondeva al cognome della moglie di NOME, e COGNOME era il cognome della suocera dell’indagato e, inoltre, entrambe le donne erano incensurate e prive di collegamenti criminali. L’ordinanza impugnata avrebbe, altresì, omesso di considerare la circostanza – dedotta dal ricorrente – che COGNOME NOME, cognato di NOME COGNOME, non aveva alcun legame con la famiglia mafiosa dei COGNOME, che egli non era mai stato coinvolto in alcun procedimento per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e che nel periodo in considerazione era detenuto per reati concernenti gli stupefacenti. Il Tribunale neppure avrebbe verificato la sussistenza di indizi attestanti la natura mafiosa della famiglia COGNOME, cui apparteneva NOME COGNOME la moglie di NOME COGNOME né della famiglia COGNOME, di COGNOME NOME, suocera di NOME. Non avrebbe inoltre accertato la affiliazione di COGNOME NOME, di COGNOME NOME e NOME, nonché di NOME COGNOME.
La ritenuta affiliazione con i clan suddetti sarebbe basata unicamente sulle affermazioni contenute nelle conversazioni intercorse tra NOME COGNOME e il figlio NOME oggetto di intercettazione, e nelle quali essi si vantavano tra loro che COGNOME NOME e COGNOME NOME fossero affiliati di spessore, senza considerare che i medesimi risultavano incensurati. Sarebbe stato, altresì, travisato il contenuto della conversazione captata il 2 settembre 2015, in cui NOME padre e figlio facevano riferimento alla dote criminale ricevuta in Calabria da NOME e conferitagli da NOME COGNOME o in sua presenza. In realtà in detta conversazione non si farebbe riferimento al COGNOME il quale veniva nominato nella conversazione del giorno successivo, ma senza alcun richiamo ai fatti citati nel dialogo del giorno precedente.
2.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di violazione di legge con riferimento al numero minimo degli associati richiesto per integrare il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.
Nel capo 1 dell’incolpazione provvisoria è contestata a Pasqua la partecipazione alla articolazione territoriale di ‘ndrangheta operante in Brandizzo, Torino e provincia, la quale costituirebbe una emanazione delle ‘ndrine Nirta e Pelle. Tuttavia, essendo detta articolazione, un’entità diversa, essa, per integrare un’associazione ai sensi dell’art. 416-bis cod. pen., avrebbe dovuto essere formata da tre o più persone. In realtà, con riguardo ai soggetti individuati quali partecipi dell’associazione insieme a NOME COGNOME e NOME COGNOME e cioè NOME
COGNOME e NOME COGNOME erano stati esclusi i gravi indizi di colpevolezza sia dal GIP che dal Tribunale del riesame, sicché non esisterebbero le condizioni per configurare un’associazione criminosa.
2.3. Con il terzo motivo si deduce vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo. Il Tribunale del riesame avrebbe omesso di motivare con riferimento all’esistenza e operatività delle presunte ‘ndrine di Nirta e Pelle; inoltre, la motivazione sarebbe manifestamente illogica nella parte in cui non si confronterebbe con la assenza di attività criminali quali affiliazioni, riunioni e riconoscimenti di dote nel periodo di vita della presunta associazione a Brandizzo; neppure avrebbe considerato la singolare circostanza per cui nessuno dei familiari stretti dell’indagato risulterebbe affiliato, nonostante che le associazioni criminali calabresi si fondino su vincoli di parentela. Difetterebbero, altresì, manifestazioni esterne del vincolo associativo, come attestato dalla circostanza che nei rapporti con imprenditori terzi, la condotta contestata al Pasqua consisterebbe nella dazione di utilità in cambio di favori, e non nella forza intimidatrice derivante dall’appartenenza ad una famiglia mafiosa, che caratterizza il metodo mafioso. Inoltre, l’indagato non sarebbe intervenuto per tutelare il fratello NOME e il nipote NOME che erano stati vittima di estorsioni. Secondo la prospettazione difensiva, le aggressioni subite da COGNOME e COGNOME, presunte vittime di estorsione, sarebbero espressione del carattere iracondo dell’indagato e non manifestazione della forza intimidatrice del vincolo mafioso, neppure mai prospettato.
In definitiva, l’ordinanza impugnata non indicherebbe alcun fatto da cui sarebbe emersa l’esteriorizzazione della forza intimidatrice dell’appartenenza all’associazione mafiosa, dal momento che l’indagato non avrebbe mai manifestato ad alcuno il legame con la “casa madre” COGNOME e COGNOME
2.4. Con il quarto motivo si deduce vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del programma criminoso e della divisione dei ruoli.
Il Tribunale avrebbe omesso di indicare quali sarebbero state le condotte poste in essere da NOME COGNOME nell’ambito del progetto elaborato dal figlio NOME di «ricucire il legami sul territorio della cintura nord di Torino». Avrebbe altresì mancato di specificare i fatti da cui aveva dedotto l’esistenza di uno stretto collegamento con alcune strutture della ‘ndrangheta piemontese e segnatamente quelle di Volpiano, Chivasso e Santhià, nonché con le strutture calabresi. Per quanto attiene ai rapporti con alcuni fornitori della ditta di cui era titolare ricorrente, l’ordinanza impugnata non avrebbe spiegato le ragioni per cui tali rapporti dovevano ritenersi rientrare nel programma criminoso dell’associazione.
Avrebbe altresì omesso di chiarire il ruolo e gli interessi dei Nirta e Pelle nella realizzazione del programma criminoso dei Pasqua.
2.5. Con il quinto motivo si deduce vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla valutazione delle propalazioni dei collaboratori di giustizia. Manifestamente illogica sarebbe la motivazione dell’ordinanza impugnata in ragione del difetto di coincidenza tra i fatti descritti nel capo di imputazione e le accuse mosse dai collaboratori. In particolare, NOME COGNOME persona – a dire del ricorrente – avvezza a – ha affermato che il ricorrente appartiene al locale di Volpiano, laddove invece ciò sarebbe escluso dalle indagini. Inoltre, né COGNOME, né il collaboratore NOME COGNOME avrebbero attribuito a Pasqua alcun «fatto dinamico di mafia». La ritenuta attendibilità del COGNOME sarebbe smentita dagli atti di indagine. Quanto alle dichiarazioni di COGNOME, esse si riferirebbero a fatti di droga e non di mafia.
Nella valutazione delle dichiarazioni del collaboratore COGNOME, il Tribunale non avrebbe considerato che egli era acerrimo nemico di NOME COGNOME e quindi aveva motivi di risentimento nei suoi confronti. Le sue dichiarazioni, inoltre, non avrebbero riscontrato quelle degli altri collaboratori, in quanto egli riferiva soltanto che i COGNOME erano legati alla droga e che avrebbero “comandato” fino al 2000.
2.6. Con il sesto motivo si contesta vizio di violazione legge e vizio di motivazione con riguardo all’asserito ruolo di dirigente e organizzatore dell’associazione svolto dal ricorrente. Il Tribunale del riesame avrebbe valutato circostanze che sarebbero estranee al presunto sodalizio mafioso, e non avrebbe chiarito nei confronti di chi detto ruolo sarebbe stato esercitato. Le uniche condotte che attesterebbero una posizione apicale di NOME sarebbero costituite dalla presunta raccomandazione di una persona estranea all’associazione, nonché dalla capacità di resistenza manifestata in occasione della doppia detenzione subita in passato, mentre non sarebbero indicate condotte delittuose.
2.7. Con il settimo motivo si lamenta il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 43 e 629 cod. pen., dal momento che non ricorrerebbero gli estremi dell’estorsione asseritamente perpetrata nei confronti del rappresentante di gasolio COGNOME in quanto le pressioni svolte nei suoi confronti per dissuaderlo da azioni legali e convincerlo a concedergli dilazioni di pagamento si giustificherebbero in ragione del periodo di emergenza pandemica in cui erano avvenute, nonché della risalente conoscenza con l’indagato. In ogni caso, NOME COGNOME il giorno precedente il litigio aveva comunque pagato un quarto del debito che aveva nei confronti del COGNOME e gli aveva proposto una rateizzazione dell’importo restante. Inoltre, i rapporti tra i due erano proseguiti anche successivamente a tale episodio.
Analoghe considerazioni varrebbero con riguardo alla vicenda relativa a COGNOME, fornitore delle ditte gestite dal ricorrente. Conseguentemente non ricorrerebbe né l’elemento oggettivo del reato di estorsione, non essendovi stata alcuna diminuzione patrimoniale, né l’elemento soggettivo del dolo specifico, essendo stata la condotta dell’indagato caratterizzata da dolo d’impeto. Il Tribunale avrebbe inoltre omesso di considerare che NOME avrebbe voluto pagare i propri debiti ma non aveva possibilità economiche per farlo.
2.8. Con l’ottavo motivo di ricorso si denuncia il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 274, comma 1, lett. a) e c) e all’art. 275 commi 3 e 4 cod. proc. pen.
L’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di NOME, soggetto ultraottantenne, non sarebbe giustificata dalla ricorrenza di esigenze cautelari di eccezionale gravità. Invero la motivazione dell’ordinanza impugnata avrebbe dato rilievo al ruolo apicale rivestito dall’indagato, ruolo che però sarebbe privo di condotte fattuali concrete. Inoltre, avrebbe trascurato di considerare la risalenza nel tempo di molti degli episodi contestati, mentre quelli più recenti consisterebbero in condotte realizzate per le aziende di famiglia.
Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito precisate.
È preliminarmente opportuno ribadire il principio di diritto secondo cui, in tema di misure cautelari personali, il giudizio di legittimità relativo alla verifica della sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza (ex art. 273 cod. proc. pen.), oltre che delle esigenze cautelari (ex art. 274 cod. proc. pen.), è chiamato a rilevare, nei limiti della devoluzione, la violazione di specifiche norme di legge o la mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato. In particolare, il controllo di legittimità non può intervenire nella ricostruzione dei fatti, né sostituire l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza dei dati probatori. D conseguenza, non possono ritenersi ammissibili le censure che, pur formalmente investendo la motivazione, si risolvono in realtà nella sollecitazione a compiere una diversa valutazione di circostanze esaminate dal giudice di merito.
Si è inoltre precisato che, in tema di misure cautelari personali, il ricorso per cassazione per vizio di motivazione del provvedimento del tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza consente al giudice di
legittimità, in relazione alla peculiare natura del giudizio ed ai limiti che ad esso ineriscono, la sola verifica delle censure inerenti la adeguatezza delle ragioni addotte dal giudice di merito ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie e non il controllo di quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito. (Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, COGNOME, Rv. 276976 – 01; Sez. F, n. 47748 del 11/08/2014, COGNOME, Rv. 261400 – 01; Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, COGNOME, Rv. 215828 – 01).
Di conseguenza, non possono ritenersi ammissibili le doglianze che, pur formalmente investendo la motivazione, si risolvono in realtà nella sollecitazione a compiere una diversa valutazione di circostanze esaminate dal giudice di merito: ove sia, dunque, denunciato il vizio di motivazione del provvedimento cautelare in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, la Corte di legittimità deve controllare essenzialmente se il giudice di merito abbia dato adeguato conto delle ragioni che l’hanno convinto della sussistenza della gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato e verificare la congruenza della motivazione riguardante lo scrutinio degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che devono governare l’apprezzamento delle risultanze probatorie (v. Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, COGNOME, cit.; Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, COGNOME, Rv. 255460; Sez. 1, n. 50466 del 15/06/2017, Matar, n.m.; Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, COGNOME, cit.).
Questa Corte regolatrice ha inoltre affermato che l’interpretazione delle interlocuzioni, ivi incluse le intercettazioni, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta irragionevolezza della motivazione (da ultimo, Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, COGNOME, Rv. 268389).
3. Ciò premesso, le doglianze prospettate dal ricorrente, sollecitano una rivalutazione di merito attraverso una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione; infatti, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alle categorie del vizio di motivazione e della violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., le censure sono in realtà dirette a richiedere a questa Corte un inammissibile sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dal Tribunale (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, COGNOME, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, COGNOME, Rv. 214794), ovvero prospettano una lettura alternativa delle emergenze investigative, riproponendo peraltro questioni già prospettate in sede di merito
cautelare, senza sostanzialmente confrontarsi con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato.
4. Il primo motivo è infondato, ai limiti della inammissibilità.
Trattasi di censura sostanzialmente reiterativa delle analoghe doglianze svolte con i motivi di appello, ai quali il Tribunale del riesame aveva dato puntuale risposta. Invero, l’ordinanza impugnata ha fondato il collegamento di NOME, così come del figlio NOME, con la ‘Ndrina COGNOME di San Luca, alla quale erano imparentati tramite la moglie di NOME, NOME COGNOME, sulle conversazioni intercorse tra padre e figlio. Con motivazione ineccepibile dal punto di vista logicogiuridico, il Tribunale del riesame ha escluso che tali conversazioni fossero frutto di millanteria, in ragione del fatto che non avesse alcun senso che l’indagato e il figlio, parlando tra loro, simulassero di avere rapporti con i COGNOME e se ne vantassero. Inoltre, in modo non manifestamente illogico, pur dando atto della circostanza che NOME COGNOME era ancora incensurato, l’ordinanza impugnata ha valorizzato sia le segnalazioni in SDI a carico di costui, sia il tenore dei dialoghi intercorsi tra lui e NOME COGNOME sia il racconto entusiastico fatto da NOME dell’episodio dei settembre 2015, in cui egli era salito al Santuario della Madonna di Polsi, in Calabria, dove aveva incontrato «tutta la costellazione», episodio interpretato in modo non irragionevole dal Tribunale come la possibile attribuzione di una dote più elevata. L’ordinanza impugnata ha, altresì, messo in rilievo i rapporti intercorsi tra COGNOME NOME e NOME COGNOME il quale era andato a fargli visita mentre questi si trovava detenuto presso la casa circondariale di Locri per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti e frequentava il di lui figlio NOME, gravitante in Lombardia. Trattasi di valutazioni che, in quanto non manifestamente illogiche e supportate da adeguata motivazione, si sottraggono in questa sede alle censure svolte dal ricorrente. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il secondo motivo, con il quale si contesta il vizio di violazione di legge per mancanza del numero minimo di associati richiesto dall’art. 416-bis cod. pen., è infondato.
Va ribadito a riguardo che il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si consuma nel momento in cui il soggetto entra a far parte dell’organizzazione criminale, senza che sia necessario il compimento, da parte dello stesso, di specifici atti esecutivi della condotta illecita programmata, poiché, trattandosi di reato di pericolo presunto, per integrare l’offesa all’ordine pubblico è sufficiente la dichiarata adesione al sodalizio, con la c.d. «messa a disposizione», che è di per sé idonea a rafforzare il proposito criminoso degli altri associati e ad
accrescere le potenzialità operative e la capacità di intimidazione e di infiltrazione del sodalizio nel tessuto sociale (Sez. 5, n. 27672 del 03/06/2019, Rv. 276897, in applicazione del principio, la Corte ha ritenuto sufficiente, per integrare gli estremi del reato, l’affiliazione del ricorrente ad una delle mafie storiche).
L’ordinanza impugnata ha evidenziato la sussistenza di gravi indizi in ordine alla partecipazione di NOME COGNOME all’organizzazione storica della ‘ndrangheta, sottolineandone – come si è già detto – la sua appartenenza al sodalizio calabrese e il collegamento con la ‘ndrina dei Nirta di San Luca. Inoltre, ha ampiamente argomentato la sua appartenenza alla locale di Brandizzo, ove il ricorrente era in grado di condizionare il settore economico delle movimentazioni di terra e degli appalti autostradali, imponendo illecitamente condizioni di favore e dilazioni di pagamenti in danno dei fornitori in quella zona del piemontese.
Quanto al rilievo mosso dalla difesa circa il dato numerico degli appartenenti all’associazione, esso è superato dalla constatazione che, a prescindere dalle valutazioni operate dal giudice cautelare, tutti gli indagati per il reato associativo risultano attualmente sottoposti a procedimento penale, e che il capo d’imputazione provvisorio fa esplicito riferimento a soggetti indicati come ignoti e in corso di identificazione.
Infondato è il terzo motivo, con cui si censura la ritenuta sussistenza della forza intimidatrice della locale di Brandizzo derivante dal vincolo associativo, che, secondo il ricorrente, addirittura difetterebbe a monte nelle ‘Ndrine di riferimento, di cui non sussisterebbero documentate attività criminali, affiliazioni, riunioni ecc.
6.1. Secondo l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. è configurabile con riferiment ad un’articolazione territoriale di una mafia storica (nella specie, una locale di ‘ndrangheta situata in territorio piemontese), allorché la stessa, per effetto del collegamento organico-funzionale con la casa-madre, dotato del carattere della riconoscibilità esterna e non limitato, pertanto, a forme di collegamento che si consumino soltanto al suo interno sul piano dell’adozione di moduli organizzativi e di rituali di adesione, si avvalga di una forza di intimidazione intrinseca che, pur non necessitando di forme eclatanti di esteriorizzazione del metodo mafioso, non consiste nella mera potenzialità, non esercitata e quindi meramente presuntiva, dell’impiego della forza, ma nella spendita d’una vera e propria fama criminale ereditata dalla casa-madre (Sez. 1, n. 51489 del 29/11/2019, Rv. 277913 – 01).
Si è inoltre precisato che il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. è configurabile – con riferimento ad una nuova articolazione periferica (c.d. “locale”) di un sodalizio mafioso radicato nell’area tradizionale di competenza – anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice,
qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella “madre” del sodalizio di riferimento, ed il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, ecc.) presenti tratti distintivi del predetto sodalizio, con conseguente forza di intimidazione “intrinseca” alla accertata capacità di egemonizzazione criminale del territorio (Sez. 5, n. 47535 del 11/07/2018, Rv. 274138 – 01).
Questa Corte regolatrice ha, inoltre, affermato il principio di diritto secondo il quale la reale connotazione delle forme di “delocalizzazione” delle cd. mafie storiche, e della ‘ndrangheta in particolare, caratterizzata da una vera e propria colonizzazione dei territori nei quali estende la propria forza, risiede nella intrinseca, e non implicita, forza di intimidazione derivante dal collegamento con le componenti centrali dell’associazione mafiosa, dalla riproduzione sui territori delle tipiche strutture organizzative della ‘ndrangheta, dall’avvalimento della fama criminale conseguita, nel corso dei decenni, nei territori di storico insediamento (Sez. 2, n. 31920 del 04/06/2021, COGNOME, Rv. 281811; Sez. 2, n. 27808 del 14/03/2019, COGNOME, Rv. 276111 – 01). In particolare, ricorrendone i presupposti strutturali, organizzativi e operativi, la cd. “mafia silente” rientra nel paradigma normativo dell’art. 416-bis cod. pen., in quanto è capace di avvalersi di una forza di intimidazione intrinseca alla struttura delle associazioni mafiose, nelle sue componenti centrali e delocalizzate, pur in assenza di forme di esteriorizzazione eclatante del metodo mafioso e della forza di intimidazione (Sez. F, n. 56596 del 03/09/2018, Balsebre, Rv. 274753).).
Invero, la forza di intimidazione che caratterizza il vincolo associativo non deve necessariamente essere esternata attraverso specifici atti di minaccia e violenza da parte dell’associazione o dei singoli soggetti che ad essa fanno riferimento, potendosi desumere anche dal compimento di atti che, sebbene non violenti, siano evocativi dell’esistenza attuale, della fama negativa e del prestigio criminale dell’associazione, ovvero da altre circostanze obiettive idonee a dimostrare la capacita attuale del sodalizio, o di coloro che ad essa si richiamano, di incutere timore ovvero dalla generale percezione che la collettività abbia dell’efficienza del gruppo criminale nell’esercizio della coercizione fisica (Sez. 6, n. 28212 del 12/10/2017, dep. 2018, Rv. 273537 – 01, con la quale la Corte ha aggiunto che la violenza e la minaccia rivestono natura strumentale rispetto alla forza di intimidazione e ne costituiscono un accessorio eventuale, sotteso, diffuso e percepibile).
6.2. Di tali condizioni il Tribunale del riesame ha ravvisato la sussistenza, dandone motivatamente atto allorché ha evidenziato che obiettivo della “locale” di Brandizzo non era quello di realizzare forme di sopraffazione fisica o morale, bensì quella di inserirsi e appropriarsi di settori economici in cui essa operava,
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escludendoli dalle logiche del libero mercato, in particolare imponendo condizioni di favore con i committenti e fornitori, ostacolando i concorrenti o ottenendo aiuti in periodi di crisi (pag. 28 ordinanza impugnata). D’altra parte, l’associazione di tipo mafioso non è necessariamente destinata alla commissione di delitti, ma può anche essere diretta a realizzare, avvalendosi della particolare forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, taluno degli altri obiettivi indicati dall’art. 416-bis cod. pen., fra i quali quello della realizzazione di profitti ingiusti per sé o per altri (Sez. 2, 31920 del 04/06/2021, COGNOME, Rv. 281811 – 03, concernente l’ipotesi nella quale l’associazione era diretta a controllare una serie di società coinvolte nella gestione dei rifiuti che rappresentavano lo strumento per acquisire appalti pubblici e privati con illecite modalità).
L’ordinanza impugnata ha inoltre messo in rilievo come il potere di intimidazione di NOME COGNOME e della locale ad esso relativa si sia manifestato in diversi contesti. Tra i vari episodi, viene richiamato quello in cui il nipote NOME COGNOME per mettere fine ad un dissidio con il nuovo compagno della ex moglie, raccontava di avergli detto di chiamarsi NOME e di essere di COGNOME, e che quelle parole avevano intimidito l’interlocutore (p. 32 dell’ordinanza impugnata). Viene inoltre dato atto dell’intimidazione, sia pure velata, posta in essere dal ricorrente nei confronti di COGNOME, un funzionario dell’impresa RAGIONE_SOCIALE, per “scacciare” possibili concorrenti per i lavori riguardanti la TAV Torino-Milano (pp. 50-51 dell’ordinanza impugnata), nonché dei rapporti con il gruppo societario partecipato e riferibile a Fantini RAGIONE_SOCIALE, caratterizzati da «velate intimidazioni e episodi di scambi di favori» (pp. 69 e ss ord. impugnata). Ancora, il Tribunale richiama le estorsioni poste in essere nei confronti di due fornitori della ditta del COGNOME per convincerli a concedergli ulteriori dilazioni di pagamento e dissuaderli dall’intraprendere azioni legali nei suoi confronti.
7. Anche il quarto motivo è infondato.
Il provvedimento impugnato, interpretando in modo logico e coerente il compendio probatorio, ha dato ampiamente conto dell’esistenza del programma criminoso della “locale” di Brandizzo e del ruolo svolto al suo interno dal ricorrente, spiegando come esso fosse rivolto al controllo del territorio, nonché, e soprattutto, delle attività economiche nel settore in cui operava la ditta NOME COGNOME. Il Tribunale infatti evidenziato i rapporti – emergenti dalle captazioni di conversazioni – di NOME COGNOME e del figlio con le ditte che si occupavano della gestione dei lavori autostradali, in particolare laddove ha rievocato l’episodio in cui il ricorrente intimava al dirigente della COGEFA di attivarsi per escludere i concorrenti della ditta Pasqua dall’affidamento dei lavori, minacciandolo velatamente di bloccare i
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cantieri (v. pp. 51 ss. e 92, della ordinanza impugnata); ovvero allorché ha richiamato i vari episodi in cui il ricorrente e il figlio tentavano di ingraziarsi dirigenti di varie ditte per ottenere appalti sui cantieri dell’autostrada MilanoTorino (pp. 54-55 ordinanza impugnata).
Sono stati altresì puntualmente illustrati i rapporti della “locale” piemontese con le strutture calabresi, richiamandosi le captazioni in cui NOME e il figlio NOME parlavano della attribuzione a quest’ultimo da parte di NOME NOME, detto zio NOME, di una dote maggiore in occasione del suo viaggio in Calabria nel 2015.
8. Il quinto motivo, con cui si deduce l’erroneità e illogicità della motivazione con riferimento alle propalazioni dei collaboratori di giustizia, è infondato.
Il provvedimento impugnato, con motivazione adeguata e coerente, ha dato conto della positiva valutazione di credibilità dei collaboranti COGNOME NOME e COGNOME NOME, rilevando come essa sia stata attestata in plurime sentenze definitive; ne ha rinvenuto, altresì, la conferma nel carattere asciutto e circoscritto delle dichiarazioni rese nel presente giudizio. Ha precisato, inoltre, che le propalazioni del COGNOME, pur riferendo de relato circostanze apprese dal codetenuto COGNOME, riguardavano specificamente l’affiliazione di NOME fin dagli anni ’90. In ogni caso, le sue affermazioni hanno trovato riscontro nelle dichiarazioni di NOME NOME, il quale ha riferito di fatti di cui egli aveva diretta conoscenza, e cioè che il ricorrente aveva ricevuto la dote da NOME, padre del collaborante.
Soprattutto, si deve rilevare come tali dichiarazioni non costituiscono l’unica fonte su cui il Tribunale fonda il giudizio di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, poggiando questo sull’ulteriore e ampio compendio probatorio di cui l’ordinanza impugnata ha dato puntualmente conto, e che ha riscontrato dette propalazioni; in particolare, sulle numerose captazioni delle conversazioni di NOME con il figlio o con i familiari, da cui emergeva che egli si vantava di essere imparentato, tramite la moglie di NOME NOME, ai Nirta di San Luca; sulla circostanza che nel 2015 NOME aveva ricevuto da COGNOME NOME una dote di promozione; sulla contiguità dei NOME con la famiglia COGNOME, documentata dal fatto che NOME, nipote del ricorrente, era in società con NOME NOME cl. ’86 per la gestione di una palestra sita a Volpiano; sulla disponibilità di armi attestata anche dalle conversazioni da cui emergevano i rapporti di NOME con COGNOME NOME che commerciava in armi.
A fronte di tali circostanziate e puntuali argomentazioni, le censure svolte dal ricorrente risultano volte sostanzialmente in fatto e e non idonee ad incrinare il ragionamento posto a base dell’ordinanza.
9. Il sesto motivo, con cui si contesta l’erroneità e illogicità della motivazione in relazione al ruolo di dirigente e organizzatore attribuito a NOME, è infondato.
Le deduzioni difensive non si confrontano con gli elementi di valutazione considerati dal Tribunale del riesame, il quale ha ritenuto che la posizione di vertice rivestita dal ricorrente emerge chiaramente non solo dal riferimento alla dote di `ndrangheta ricevuta da NOME COGNOME ma soprattutto dal ruolo di protezione concretamente assunto nei rapporti con i terzi che interferissero con altri affiliati. In proposito il Tribunale richiama: l’episodio in cui il nipote NOME COGNOME che aveva subito pretese estorsive, raccontava la reazione intimorita degli estorsori una volta che avevano appreso che egli era nipote di NOME; l’episodio in cui NOME e NOME COGNOME si erano rivolti al ricorrente per aiutare la loro impresa ad essere inserita in qualche lavorazione della TAV e per avere la garanzia di non correre rischi; l’episodio in cui NOME pretendeva che NOME, dirigente della COGEFA, escludesse i concorrenti della sua ditta dalla assegnazione dei lavori. Rilevano, inoltre le captazioni in cui NOME definiva COGNOME NOME come “ragazzo d’azione” del padre, nonché la circostanza che NOME, nella sua attività di espansione, seguiva consigli e direttive del padre.
Tali specifiche circostanze di fatto, puntualmente evidenziate dall’ordinanza impugnata, sono senz’altro idonee qualificare come apicale il ruolo rivestito dal ricorrente all’interno dell’associazione e come tale ruolo fosse riconosciuto sia all’interno che anche all’esterno del sodalizio, in conformità con quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità (v. Sez. 6, n. 40530 del 31/05/2017, Abbinante, Rv. 271482 – 01; Sez. 2, n. 20098 del 03/06/2020, Buono, Rv. 279476 – 03).
10. Il settimo motivo, concernente le estorsioni di cui ai capi 3) e 4), è infondato.
Questa Corte di legittimità ha affermato che in tema di estorsione, nella nozione di danno patrimoniale rilevante ai fini della configurabilità del delitto, rientra anche la perdita di una seria e consistente possibilità di conseguire un bene o un risultato economicamente valutabile, la cui sussistenza deve essere provata sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale (Sez. U, n. 30016 del 28/03/2024, COGNOME, Rv. 286656 – 01; Sez. 2, n. 44230 del 13/11/2024, S., Rv. 287217 – 01).
Nel caso in esame risulta evidente, avendone il Tribunale del riesame dato puntualmente atto, come il Pasqua abbia posto in essere minacce volte ad evitare che i fornitori della sua ditta pretendessero, eventualmente anche attraverso l’esercizio dei rimedi legali, l’adempimento delle obbligazioni su di lui gravanti, cioè
il pagamento nei tempi convenuti delle forniture ricevute, nonché a garantirsi la continuità delle stesse pur a fronte dei mancati o ritardati pagamenti. Risulta evidente il carattere economicamente valutabile di un tale risultato, con conseguente danno di analoga natura per le vittime, consentendo esso all’indagato di imporre unilateralmente la tempistica dell’adempimento e dunque gli esborsi di denaro verso i fornitori, i quali venivano così costretti, non solo a rinunciare ai rimedi civilistici per far valere i propri crediti, ma altresì a non poter contare su pagamenti tempestivi e integrali.
In tale quadro, il riferimento operato dalla difesa alla risalente conoscenza tra NOME e la vittima, ovvero alle difficoltà economiche in cui si trovava l’indagato, non sono elementi idonei ad escludere la rilevanza penale della condotta, neppure con riguardo all’elemento soggettivo del reato, essendo le condotte poste in essere chiaramente dirette a conseguire il suddetto ingiusto profitto.
11. Anche l’ottavo motivo è infondato.
11.1. La questione prospettata dal ricorrente attiene alla possibilità di mantenimento della custodia preventiva in ragione della sua età, avendo egli più di ottanta anni. In tali ipotesi l’art. 275, comma 4, cod. proc. pen. stabilisce che la misura custodiale può giustificarsi solo per la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
La richiamata disposizione è chiaramente configurata come punto di equilibrio tra il soddisfacimento delle esigenze special-preventive di tutela della collettività, nello specifico rafforzate (atteso il titolo di uno dei reati oggetto di imputazione) dalla operatività della presunzione relativa di adeguatezza di cui all’art. 275, comma 3, e di quelle di conservazione della salute psicofisica dell’indagato, che si presume sia messa a rischio dall’effetto combinato dell’età avanzata e delle modalità di svolgimento della custodia carceraria. La giurisprudenza di questa Corte regolatrice ha affermato che sussistono esigenze di eccezionale rilevanza ai sensi dell’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., ai fini del mantenimento della misura intramuraria, nei confronti di soggetto ultrasettantenne di cui sia riconosciuto il ruolo apicale e di rappresentanza in seno all’articolazione territoriale di un’associazione mafiosa (Sez. 6, n. 19848 del 28/03/2023, COGNOME, Rv. 284737 – 01
11.2. Nella specie, ritiene il Collegio che il Tribunale del riesame ha congruamente argomentato nel ritenere prevalenti le ricordate esigenze di tutela della collettività rispetto a quelle della salute del ricorrente, evidenziando la sua personalità, connotata da indifferenza per la carcerazione già subita a seguito della condanna per il delitto di omicidio nel 1982 e per traffico di stupefacenti nel 1997, e sottolineando la mancanza di effetti positivi di tali periodi di detenzione, posto
che il COGNOME ha ripreso a delinquere una volta rimesso in libertà; ha inoltre evidenziato la caratura criminale del ricorrente, resa chiara dal ruolo di spicco avuto nell’associazione criminosa. Tali elementi hanno portato il Tribunale a ritenere, in modo affatto illogico, l’imminenza del pericolo di recidiva, nonché del pericolo di inquinamento probatorio, essendovi l’alta probabilità che, se posto in libertà, il COGNOME possa avvicinare coindagati e testimoni. L’ordinanza ha altresì motivatamente ritenuto che il pericolo di recidivanza non sia escluso dal trascorso cd. tempo silente, cui ha fatto riferimento la difesa, posto che l’attività criminosa è documentata dall’attività investigativa fino al 2022, mentre non risulta la dissociazione dell’indagato dal sodalizio criminale.
Alla luce delle superiori considerazioni, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così è deciso, il 12 novembre 2024