Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 13796 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 13796 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 22/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a LIZZANELLO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 19/04/2023 della CORTE APPELLO di LECCE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME COGNOME che ha concluso : il Proc. Gen. si riporta alla requisitoria già depositata e conclude per l’inammissibilità;
udito il difensore : l’avvocato NOME COGNOME espone i motivi di gravame ed insiste nell’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME per il reato a lui ascritto nel capo E4 (furto) per difetto di querela e lo ha assolto dal reato di cui al capo E5 (estorsione). Per il resto, ha escluso la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis, comma quarto, cod. pen., contestata nel capo A, con le conseguenti determinazioni sul piano sanzionatorio.
Ha confermato nel resto la sentenza di primo grado, sia nei confronti di NOME COGNOME che del coimputato NOME COGNOME, il quale ultimo non ha proposto ricorso per cassazione, sicché la pronuncia nei suoi confronti è divenuta irrevocabile.
All’esito del giudizio di secondo grado risulta dunque confermato il giudizio di responsabilità, nei confronti del COGNOME – unico odierno ricorrente – per i reati di cui ai capi A (art. 416-bis cod. pen.), C27 (artt. 81, comma secondo, cod. pen. e 73 d.P.R. n. 309/1990), E (art. 73 d.P.R. n. 309/1990), E2 (art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990).
Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato NOME COGNOME, a mezzo del difensore, articolando i motivi di seguito enunciati negli stretti limiti di cui all’ 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione, con riferimento al giudizio di responsabilità per il reato di cui al capo A.
Il ricorrente ricorda che il giudizio di gravità indiziaria della sua partecipazione all’associazione mafiosa denominata “RAGIONE_SOCIALE” era stato fondato su alcuni dati sintomatici: a) la sua fittizia assunzione presso un’impresa, in cambio di protezione; b) la manifestata disponibilità ad un intervento punitivo nei confronti dell’attentatore di uno stabilimento balneare di San COGNOME; c) la definizione da parte dei sodali, nelle conversazioni intercettate, del COGNOME come del “RAGIONE_SOCIALE di San COGNOME“; d) l’acquisizione illecita di un bar a San COGNOME.
Senonché, osserva il ricorrente, all’esito del giudizio cautelare l’ultimo degli elementi indicati aveva perso rilievo, ma il Tribunale, all’esito del primo giudizio, vi aveva aggiunto il riferimento alla vicenda di un gommone rubato ed alla conseguente estorsione che avrebbe coinvolto il NOME; la Corte di appello, però, ha assolto l’imputato da quel reato ed ha osservato che nell’occasione l’imputato aveva rinunciato a conseguire un personale profitto, traendone la conclusione dell’obbedienza gerarchica alla quale lo stesso NOME era legato rispetto ad un promotore del sodalizio, NOME COGNOME, cui erano vicine le vittime del furto.
Per giungere a tale conclusione, la Corte di appello avrebbe travisato il contenuto di due conversazioni ed avrebbe “interpretato” la perizia trascrittiva alla luce della testimonianza di un ufficiale di polizia giudiziaria.
Mancando la prova dell’estorsione, mancherebbe pure la prova dell’intervento di elementi di spicco dell’associazione mafiosa a tutela delle vittime e, correlativamente, quella dell’atteggiamento di gerarchica obbedienza serbato dal NOME.
Sul punto la Corte di appello ha ritenuto di poter valorizzare la testimonianza dell’ufficiale di polizia giudiziaria affermando che la prova è rappresentata dalla bobina o dalla cassetta e non dalla sua trascrizione, nel caso di specie inesistente, laddove avrebbe dovuto invece procedere a perizia ovvero all’ascolto delle conversazioni di interesse, nel contraddittorio.
Nel caso in esame, la maggior parte delle conversazioni è stata trascritta in una prima perizia e la perizia è stata rinnovata, mentre con riferimento alle conversazioni di interesse la trascrizione manca.
La motivazione sull’interessamento dei referenti dell’associazione alla vicenda del gommone ne risulterebbe illogica.
Del resto, il figlio della vittima del furto ha riferito di un ritrovamento casual del bene rubato e la circostanza che il giudice di primo grado abbia disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica per la valutazione del contenuto di tale testimonianza non sarebbe rilevante, non essendone sortito alcun seguito.
Quanto all’ulteriore elemento rappresentato dalla disponibilità del NOME a partecipare alla spedizione punitiva organizzata insieme ad NOME COGNOME nei confronti di NOME COGNOME, che aveva incendiato uno stabilimento balneare il cui titolare era vicino al clan COGNOME, la Corte non avrebbe correttamente considerato le prove raccolte: che, cioè, a fronte di un’intercettazione dell’H maggio 2018 tra l’odierno ricorrente e il COGNOME, la vittima COGNOME è stata individuata solo il 30 maggi successivo; che dalle stesse intercettazioni si desume una riunione per pianificare le conseguenze a carico dell’attentatore, cui il NOME non partecipò; che pure sono estranee al COGNOME le considerazioni circa il “danno di immagine” subito dal clan a seguito dell’attentato.
Mancherebbe dunque anche il minimo apporto causale del ricorrente all’associazione.
Quanto GLYPH all’elemento GLYPH della GLYPH ritenuta GLYPH fittizia GLYPH assunzione GLYPH da GLYPH parte dell’imprenditore COGNOME, non è stata valutata la deposizione dello stesso, che ha spiegato come si sia trattato di una mera cortesia fatta al NOME, del quale era amico, per consentirgli di recuperare il periodo di assunzione come lavoratore subordinato che gli mancava per ottenere l’indennità di disoccupazione e che,
comunque, mai aveva subito furti o danneggiamenti nei cantieri in cui NOME aveva lavorato. Le dichiarazioni del COGNOME circa la durata del rapporto di lavoro sarebbero confermate dalla documentazione RAGIONE_SOCIALE allegata (al pari del verbale delle dichiarazioni del COGNOME) al ricorso.
Sarebbe irrilevante anche l’ultimo elemento, cioè l’appellativo di “RAGIONE_SOCIALE uno di COGNOME” attribuito al ricorrente da tale NOME: dalla conversazione di interesse si desume che tale appellativo sia stato esplicitato da uno dei partecipanti ad un incontro, al momento in cui il NOME faceva ingresso alla riunione; ne sarebbe seguito un commento sarcastico dell’interessato, per il resto estraneo alla conversazione. La stessa Corte di appello, nello scegliere l’interpretazione da attribuire alla conversazione, si è espressa in termini di maggiore plausibilità e non di certezza.
I reati in materia di stupefacenti commessi dal NOME, taluni già giudicati ed altri oggetto del presente processo, non sarebbero rilevanti come reati-fine dell’associazione e la motivazione sul punto sarebbe illogica.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al reato di cui al capo C27.
La prova per il reato continuato di spaccio di stupefacenti contestato in tale capo sarebbe stata tratta dalla commissione del diverso reato di spaccio di cui al capo E, ammesso dall’imputato che, avverso la condanna per esso, non ha nemmeno proposto appello.
Per il resto, vi sarebbe travisamento dell’intercettazione telematica a fondamento del giudizio di responsabilità, nella quale il ricorrente parlava di “odore” che la sostanza emanava, e che dunque non poteva essere cocaina (come ipotizzato dall’accusa) bensì eventualmente sostanza leggera, che produce appunto odore. La Corte ha superato la contraddizione ipotizzando la presenza di sostanza da taglio, ma avrebbe reso una motivazione illogica, posto che mai è stata sequestrata, nel corso delle indagini, cocaina tagliata; del resto, la Corte si è limitata a “non escludere” tale possibilità, in contrasto con lo standard probatorio richiesto.
La Corte territoriale avrebbe travisato il contenuto delle intercettazioni, sia con riferimento alla natura della sostanza, sia con riferimento alla cadenza delle forniture: il prezzo pagato sarebbe troppo basso per la cocaina; il linguaggio criptico è stato usato secondo la Corte per la cocaina (chiamata “Louis Vouitton”), ma risulta per tabulas che anche con riguardo alle droghe leggere si usasse un linguaggio cifrato; nulla autorizza a pensare ad una cadenza quindicinale.
2.3. Con l’ultimo motivo il ricorrente deduce violazione di legge processuale e vizio di motivazione con riferimento alla mancata ammissione del giudizio abbreviato condizionato.
La difesa ha avanzato tale istanza, subordinando il rito all’audizione di pochi testi mai sentiti nel corso delle indagini; respinta l’istanza dal G.u.p., l’ ripresentata in apertura del dibattimento ed ha impugnato la decisione di rigetto.
La Corte di appello avrebbe reso una motivazione illogica nel ritenere che l’integrazione probatoria in ordine al concorso nell’illecita acquisizione del bar “RAGIONE_SOCIALE” di San COGNOME fosse stata ritenuta non significativa, laddove invece l’imputato era ancora sottoposto a custodia cautelare in virtù di un’ordinanza che l’aveva valorizzata; mentre è stata rigettata l’istanza di audizione del teste COGNOME, sulla base della ritenuta sufficienza delle captazioni, quando la testimonianza doveva servire proprio a contestare il contenuto di esse.
Si è proceduto a trattazione orale.
Il Procuratore generale si è richiamato alla memoria scritta, nella quale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
Il Difensore del ricorrente ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I primi due motivi sono inammissibili.
Va ricordato che il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne né la ricostruzione dei fatti né l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile:
l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato;
l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.
Con l’ulteriore precisazione, quanto alla l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, che deve essere evidente (“manifesta illogicità”), cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu ocu/i, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074). Inoltre, il vizio della “manifesta illogicità” dell motivazione deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere logica “rispetto a se stessa”, cioè rispetto agli atti processuali citati nella stessa e alla conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presa a
censura soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi della logica.
Ancora, al giudice di legittimità è preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché rite maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto.
Ebbene, i primi due motivi sono strutturati come una nuova critica di merito, che sollecita il giudice ad una rivalutazione delle prove, non consentita in quanto esula «dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali» (Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, COGNOME).
Nello stesso tempo, i predetti motivi si caratterizzano anche per genericità c.d. estrinseca (v. per la definizione Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822), nel momento in cui omettono sostanzialmente di confrontarsi con l’intero percorso argonnentativo seguito dalla Corte territoriale per respingere i motivi di appello (il secondo e il quarto), dei quali costituiscono sostanziale riproduzione.
Il primo motivo è sostanzialmente reiterativo del secondo motivo di appello e si appalesa generico, tenuto conto del mancato confronto con il ragionamento della Corte territoriale, che non può essere efficacemente contrastato attraverso la lettura parcellizzata delle fonti di prova che il ricorrente inammissibilmente sollecita.
Il ricorrente contesta il valore dimostrativo della vicenda del “gommone” rispetto alla partecipazione del COGNOME all’associazione per delinquere e censura la decisione della Corte di appello di attribuire rilievo alla deposizione dell’ufficiale polizia giudiziaria. Dalla valorizzazione di tale deposizione, in luogo della perizia di trascrizione, sarebbe derivato il travisamento di alcune conversazioni.
Ebbene, il travisamento è dedotto in modo del tutto generico e, soprattutto, senza adempiere all’onere di dimostrare la decisività del dato asseritannente travisato rispetto alla decisione finale. Onere, del resto, impossibile da assolvere, tenuto conto anzitutto della valutazione, da parte della Corte territoriale, di alt indici della partecipazione del COGNOME all’associazione (indici che lo stesso ricorrente
ha elencato) e, inoltre, della chiarezza del dato esposto a pagina 20 della sentenza, laddove si evidenzia che, nella vicenda, il NOME abbia rinunciato a perseguire un proprio profitto, elemento ritenuto di per sé sintomatico della sua decisione di adeguarsi agli ordini.
La Corte ha fornito una spiegazione non illogica del complesso degli elementi di prova che non è corretto, dal punto di vista logico, leggere partitamente.
Così, anche sulla vicenda della spedizione punitiva organizzata insieme ad NOME COGNOME, le osservazioni del ricorrente puntano ad una rilettura degli elementi di prova e non sono in grado di disarticolare il ragionamento della Corte di appello: non colgono nel segno, laddove evidenziano per esempio l’assenza del NOME ad una riunione per decidere il da farsi ovvero la distanza di tempo tra le intercettazioni sull’argomento e l’individuazione della vittima, a fronte di una motivazione che ha valorizzato il contenuto delle intercettazioni (in ciò saldandosi con la motivazione resa dal Tribunale: cfr. pagg. 75-81 di quella decisione) che chiaramente rivelano la partecipazione del NOME al piano.
Ancora, le osservazioni critiche svolte dal ricorrente in ordine alla vicenda dell’assunzione presso il COGNOME sono meramente reiterative delle doglianze svolte in sede di appello e sono palesemente generiche poiché si limitano a riprodurle, senza confrontarsi con la motivazione resa dalla Corte di appello (pagg. 21-22) la quale si è certo confrontata con la deposizione del COGNOME e l’ha ritenuta ininfluente perché ha giudicato rilevante non il dato dell’effettività o meno dell’assunzione, bensì quello della motivazione che ha spinto l’imprenditore ad un’assunzione non necessaria alle esigenze dell’impresa, allo scopo, dichiarato come raggiunto nelle conversazioni intercettate, di ottenere protezione.
Ed infine la questione dell’appellativo di “RAGIONE_SOCIALE uno” attribuito al NOME è affrontata, dalla Corte di appello, con evidente attenzione alla versione difensiva, genericamente reiterata nel ricorso per cassazione e giudicata non attendibile proprio alla luce del contesto in cui la frase fu pronunciata (pagg. 22-23). In ogni caso, si tratta di una questione di fatto, genericamente dedotta e rispetto alla quale il ricorso omette di evidenziare la decisività, alla luce della complessiva risposta fornita dalla Corte territoriale al motivo di appello sul punto.
Il secondo motivo, sull’erronea premessa secondo la quale la responsabilità dell’imputato per il reato di spaccio continuato di cocaina di cui al capo C 27 sarebbe stata affermata sulla base della pacifica responsabilità (ammessa dall’interessato) per l’analogo reato contestato nel capo E, invita la Corte di cassazione ad una rilettura del materiale intercettivo, senza però dedurre ammissibilmente il travisamento della prova, cioè un errore indiscutibile sul “significante” della fonte travisata, e non sul suo significato; errore del quale s
deduca e si dimostri la decisività, nel senso di sicura idoneità del dato correttamente interpretato a mutare la decisione.
Al contrario, la lettura delle conversazioni citate a pagina 18 della sentenza di appello ed allegate sub 4, 13, 14 e 16 del ricorso per cassazione (che sul punto rispetta il precetto dell’autonomia) rende palese che la trascrizione dei brani ritenuti rilevanti dalla Corte di appello è perfettamente conforme al contenuto delle telefonate, sicché per definizione l’errore sul significante non sussiste.
Ebbene, mantenendo l’attenzione esclusivamente rivolta alla motivazione della sentenza, e non invece sulla valutazione delle prove, non si ravvisano manifeste illogicità: il dato della sicura attribuibilità al NOME della responsabili per spaccio di cocaina di cui al capo E, lungi dal costituire prova della responsabilità per il diverso capo C 27, è stato ritenuto sintomatico della dedizione dell’imputato a tal genere di traffici (pag. 17, primo capoverso, della sentenza impugnata). Dopodiché, la Corte ha motivato in modo non manifestamente illogico l’attribuibilità dei riferimenti contenuti in alcune conversazioni allo stesso genere di sostanza stupefacente anziché alla droga leggera sulla base del diverso linguaggio criptico usato per i diversi tipi di sostanze; ed ha ipotizzato la presenza di sostanza da taglio non già in modo implausibile, bensì sulla base della testimonianza di un ufficiale di polizia giudiziaria, con il che spiegando in maniera logica sia il lamentato odore della sostanza sia il prezzo della stessa. Del tutto irrilevante, rispetto alla motivazione sui fatti di cui al capo C 27, è la circostanza che la droga sequestrata (pertinente a diverso reato) non fosse invece tagliata.
Le critiche che il ricorrente muove sono per un verso generiche, perché non si confrontano con l’intero ragionamento sviluppato dalla Corte territoriale, e per altro verso non consentite perché tali da sollecitare una rinnovata lettura delle prove.
5. Inammissibile è pure l’ultimo motivo.
Il ricorrente non chiarisce il proprio interesse a ricorrere contro l’ordinanza che non ha ammesso le testimonianze in ordine alla vicenda del bar “RAGIONE_SOCIALE“: il ricorso deduce che, al momento della decisione sul punto, l’imputato sarebbe stato sottoposto a custodia cautelare sulla base di un’ordinanza che valorizzava pure tale dato, solo in seguito ritenuto privo di rilievo. Ebbene, posto che la vicenda è scomparsa dall’orizzonte motivazionale del Tribunale e della Corte di appello perché ritenuta irrilevante, non è chiaro l’interesse dell’imputato a ricorrere avverso la decisione (in ogni caso rivelatasi corretta, alla luce della motivazione delle sentenze di merito) di non ammettere il rito subordinato a testimonianze sul punto.
Quanto alla testimonianza di COGNOME, la motivazione della sentenza di appello è ineccepibile e logica, nel momento in cui esclude la necessità di essa tenuto conto del contenuto delle intercettazioni (cfr. pag. 24 della sentenza impugnata). Come si è visto, a pagina 22 la Corte si è confrontata con le dichiarazioni rese nel corso del dibattimento dal COGNOME, giudicandole irrilevanti. A maggior ragione, esse non potevano dirsi ex ante necessarie ai fini della decisione, né ciò è dimostrato dal ricorso, che ancora una volta è aspecifico.
Alla declaratoria di inammissibilità consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di euro tremila alla RAGIONE_SOCIALE delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della RAGIONE_SOCIALE delle Ammende.
Così deciso il 22/02/2024