Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 5231 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 5231 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 31/10/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME nato a NISCEMI il 11/12/1966 COGNOME NOME nato a NISCEMI il 04/01/1953
NOME nato a VITTORIA il 15/01/1970
avverso la sentenza del 25/10/2023 della CORTE APPELLO di CATANIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore COGNOME
che ha concluso chiedendo
Il Proc. Gen. conclude per l’inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza dello stesso.
udito il difensore
Il difensore NOME del foro di CALTANISSETTA si riporta ai motivi del ricorso e insiste per l’accoglimento dello stesso.
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Catania confermava la sentenza con cui il tribunale di Caltagirone, in data 21.7.2020, aveva condannato COGNOME NOME, COGNOME NOME, Arcerito NOME COGNOME, ciascuno alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato di cui all’art. 416 bis, c.p., loro in rubrica ascritto, quali componenti del clan COGNOME, rientrante nella famiglia mafiosa di Niscenni, mandamento di Gela.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiedono l’annullamento, hanno proposto ricorso per cassazione i suddetti imputati, con autonomi atti di impugnazione.
2.1. In particolare l’COGNOME, nel ricorso a firma del suo difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME lamenta, con i primi due motivi di ricorso, violazione di legge e vizio di motivazione in punto di affermazione di responsabilità dell’COGNOME per la sua partecipazione all’associazione a delinquere di tipo mafioso nota come “Cosa Nostra” e, in particolare, alla famiglia di Niscemi, in quanto la corte territoriale non ha fornito alcuna reale risposta alle doglianze articolate sul punto dall’appellante.
In particolare, osserva il ricorrente, che, come eccepito nei motivi di appello, con riferimento al periodo in contestazione (dal luglio 2005 al luglio 2011), non vi è prova che l’COGNOME, già condannato in passato per il reato associativo contestato come commesso in periodi di tempo diversi, con sentenze passate in giudicato, abbia continuato a far parte dell’indicato sodalizio mafioso con un ruolo direttivo, posto che nel suddetto periodo egli era stato detenuto dal primo marzo 2007 al 19 novembre 2009, quasi ininterrottamente, restando libero solo dal 3 gennaio 2008 e dall’8 marzo del 2008 (per due mesi) e dal 22 maggio 2008 al 22 novembre 2008 (per sei mesi). Al riguardo, rileva l’imputato, la stessa sentenza di appello evidenzia come, dal momento in cui l’COGNOME è stato scarcerato, il 19 novembre 2009, non vi sono fonti dichiarative, ad eccezione del collaboratore COGNOME, che confermino la sua partecipazione al sodalizio criminoso de quo, mentre i contributi degli altri collaboratori si fermano tutti al 2006.
Con il terzo motivo di ricorso l’COGNOME deduce violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento alla determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio, rilevando come le circostanze rassegnate nei primi due motivi di gravame avrebbero giustificato un trattamento sanzionatorio più mite rispetto a quello stabilito con la sentenza di primo grado, laddove la corte territoriale si è limitata a definire congruo l’aumento di pena fissato in applicazione della disciplina della continuazione con altri fatti oggetto di sentenze di condanna irrevocabili. 2.2. Il COGNOME, nel ricorso a firma del suo difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME lamenta, violazione di legge e vizio di motivazione, in punto di inosservanza del principio del ne bis in idem.
Premesso che il tempus commissi delicti contestato al COGNOME è compreso tra il 2002 e il luglio 2011, lamentava e lamenta il ricorrente la duplicazione temporale della contestazione quanto all’anno 2002, poiché già coperto dal giudicato formatosi con riferimento alla sentenza pronunciata dalla corte di appello di Catania in data 1.4.2004, divenuta irrevocabile il 18.5.2004, con cui era stata affermata la responsabilità penale del COGNOME ai sensi dell’art. 416 bis, c.p., per avere fatto parte dell’organizzazione a delinquere di stampo mafioso denominata “RAGIONE_SOCIALE Niscemi”, a far data dall’anno 1999 fino all’anno 2002, reato che, successivamente, era stato ritenuto unificato sotto il vincolo della continuazione con l’ulteriore reato associativo oggetto della sentenza pronunciata dalla corte di assise di appello di Catania in data 20.6.2016, divenuta irrevocabile il 14.11.2017, che ha accertato la partecipazione del Di Pasquale alla medesima associazione mafiosa per gli anni 1996, 1997 e 1998, sicché, conclude il ricorrente, residuavano, tutt’al più, da valutare le condotte ricadenti tra l’anno 2003 e l’anno 2011. Ma, rileva il ricorrente, sul punto difetta la prova dei necessari elementi fattuali nuovi e diversi rispetto a quelli già valutati, giudicati e oggetto delle pronunce definitive citate, comunque idonei a suffragare la partecipazione del COGNOME al programma criminoso dell’associazione mafiosa operante in Niscemi nel periodo oggetto di contestazione nel presente procedimento, ossia, come di è detto, dal
2002 al luglio 2011, posto che tutti i collaboratori di giustizia escussi hanno riferito di non avere avuto nessun contatto con il COGNOME o di averne avuto notizia alcuna a partire dal 2002.
La corte territoriale, nel rigettare il motivo di appello, ha fatto retrocedere lessicalmente la contestazione mossa nel presente procedimento a quella coincidente alla data dell’avvenuta emissione del decreto che dispone il giudizio, aggiungendo, erroneamente per quanto già osservato, che l’appellante non aveva dimostrato quale sarebbe effettivamente il periodo incluso in entrambe le contestazioni, senza tacere che trattandosi di contestazione in forma aperta, alla luce della quale la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado, spettava alla Pubblica Accusa l’onere di fornire la prova a carico dell’imputato in ordine al mancato protrarsi della condotta criminosa fino all’ultimo limite processuale (dies ad quem, anno 2002).
In definitiva manca del tutto l’analisi delle condotte ricadenti nel perimetro della parte residua in contestazione, non essendo sufficiente, al riguardo, il generico richiamo alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, non valutate alla stregua del necessario requisito della messa a disposizione in favore del sodalizio mafioso per il perseguimento dei comuni fini criminosi (Modaffari) nel periodo successivo al 2002, né potendo bastare, in tema, la riferita pregressa affiliazione ed i fatti reato già coperti dal giudicato.
2.3. L’Arcerito, nel ricorso a firma del suo difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME lamenta, violazione di legge, con riferimento agli artt. 649 e 192, co. 3, c.p.p., e vizio di motivazione, in punto di: 1) inosservanza del principio del ne bis in idem, rispetto a precedente condanna subìta dall’imputato per il medesimo fatto; 2) di generico richiamo alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, prive dei necessari riscontri esterni; 3) omessa risposta alla doglianza difensiva afferente il trattamento sanzionatorio; 4) violazione del canone del ragionevole dubbio, la cui corretta applicazione, alla luce dell”insufficienza, della contraddittorietà e dell’incertezza probatoria,
avrebbe imposto l’adozione di una pronuncia assolutoria ex art. 530, co. 2, c.p.p.
I ricorsi non possono essere accolti, apparendo inammissibile il ricorso proposto nell’interesse dell’Arcerito, mentre vanno rigettati i ricorsi proposti nell’interesse di COGNOME NOME e di COGNOME Francesco.
Con particolare riferimento al ricorso dell’Arcerito NOME, esso va dichiarato inammissibile, perché redatto in guisa tale da integrare la violazione dell’art. 581, co. 1, lett. d), c.p.p., che nel dettare, in generale, quindi anche per il ricorso per cassazione, le regole cui bisogna attenersi nel proporre l’impugnazione, stabilisce che nel relativo atto scritto debbano essere enunciati in forma specifica, a pena di inammissibilità, tra gli altri, “i motivi, con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”; violazione che, come ribadito dal disposto dell’art. 591, co. 1, lett. c), c.p.p., determina l’inammissibilità dell’impugnazione stessa, quando i motivi, come quelli in esame, sono articolati in maniera del tutto generica, riducendosi a mere enunciazioni, prive delle ragioni che le sostengono.
Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 3000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest’ultimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
Va, invece, rigettato il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME Francesco, essendo sorretto da motivi, in parte infondati, in parte inammissibili.
5.1. Infondati, in particolare, appaiono i primi due motivi di impugnazione, sintetizzati al punto n. 1) nelle pagine precedenti dedicate all’illustrazione dei motivi di ricorso.
Al riguardo si osserva che può dirsi pacificamente acquisito il dato storico, sancito dalle sentenze passate in giudicato indicate dalla corte territoriale e non contestato dal ricorrente, che l’COGNOME, “sino al giugno
del 2005 era non solo organico al clan COGNOME, ma aveva all’interno del clan un ruolo di rilievo: persona di fiducia di COGNOME NOME, già al vertice del gruppo, in confidenza con COGNOME NOME, altro esponente di peso” (cfr. p. 14 della sentenza di appello).
Va, inoltre, sottolineato che il ricorrente non ha mosso alcuna specifica contestazione in ordine alla credibilità soggettiva dei collaboratori di giustizia presi in considerazione dalla corte territoriale, né tantomeno alla attendibilità, intrinseca ed estrinseca delle loro dichiarazioni, per cui da tali dichiarazioni, come sintetizzate dal giudice di appello, che ne ha fatto oggetto di puntuale valutazione (cfr., in particolare, p. 21 della sentenza di secondo grado) appare opportuno partire.
In particolare, con riferimento al periodo compreso tra il luglio 2005 e il luglio 2011, rilevano le dichiarazioni dei seguenti collaboratori di giustizia: COGNOME Vincenzo, arrestato nel mese di ottobre del 2009, il quale ha fatto riferimento per conoscenza diretta soprattutto a episodi che coinvolgono l’COGNOME nel 2005 e nel 2006; COGNOME, arrestato nell’aprile del 2006, che ha indicato l’COGNOME, per conoscenza diretta quale esponente di rilievo del clan COGNOME, come responsabile del gruppo di COGNOME, quanto meno sino alla data del suo arresto, specificando che il ricorrente aveva la disponibilità di armi e si era occupato, tra il 2005-2006, di un’estorsione in danno di un’impresa operante nel campo dei rifiuti solidi urbani; COGNOME, arrestato nel giugno del 2006, riferendo de relato da COGNOME NOME COGNOME e dallo Smorta, lo ha indicato come componente del gruppo dei “niscemesi”, con riferimento agli anni 2005-2006; COGNOME NOME COGNOME, arrestato nel 2007, ha affermato che sino a quando l’COGNOME non venne arrestato il 14.9.2006, era con lui che si incontrava per parlare degli affari dell’associazione mafiosa, specificando che gli incontri, dopo l’agosto del 2007, continuarono anche in carcere, dove il collaboratore, a sua volta detenuto, apprese dalla voce dello stesso COGNOME che quest’ultimo intendeva sostituire una persona che gestiva i videopoker per conto di COGNOME Salvatore, venendo informato anche delle vicende relative all’estorsione in danno di NOME COGNOME, cui
l’COGNOME era direttamente interessato; infine aggiungendo che sempre l’COGNOME provvedeva a pagare lo stipendio a COGNOME COGNOME, del pari detenuto in carcere, sino al marzo 2007; COGNOME COGNOME, il quale ha riferito che, pur trovandosi in carcere dal 2001, ebbe modo di incontrarsi con l’COGNOME, il COGNOME e il COGNOME nelle occasioni in cui questi ultimi vennero arrestati nel 2004-2005, nel 2006 e nel 2008, quando addirittura si trovava nella stessa cella con i tre, precisando di avere ricevuto lo stipendio da COGNOME sino al 2007, mentre dopo la spaccatura verificatasi all’interno della famiglia di Niscemi nel 2007/2009, tra il gruppo vicino agli COGNOME (COGNOME, COGNOME, COGNOME, COGNOME) e quello rimasto fedele ai vecchi COGNOME (COGNOME, COGNOME, COGNOME e COGNOME) egli non aveva più percepito alcuna retribuzione, perché il vecchio gruppo era stato emarginato dagli uomini fedeli agli COGNOME; COGNOME NOME, arrestato nel giugno del 2001 e detenuto nel carcere di Benevento sino al 2005, il quale ha riferito di conoscere da molto tempo il Di Pasquale Salvatore, l’COGNOME NOME e l’Arcerito NOME, che aveva inserito nella famiglia mafiosa di Niscemi negli anni “90, ai quali, nel periodo in cui era detenuto, aveva spedito dei messaggi a mezzo della compagna quando quest’ultima non riceveva soldi dal sodalizio mafioso, delle cui vicende egli era periodicamente informato sia dal Di Pasquale, che lo andava a fargli visita in Toscana, dove il COGNOME venne sottoposto al soggiorno obbligato dal 2005 al 2009, sia dall’Arcerito, dall’COGNOME e ancora dal COGNOME, incontrati un paio di volte in Sicilia nel periodo in cui si era recato a Caltanissetta o a Catania per seguire i processi pendenti a suo carico, sicché era in grado di affermare che dal 2005 al 2009 a Niscemi governava l’Arcerito e che l’COGNOME, il COGNOME, il COGNOME e il COGNOME COGNOME avevano preso il controllo del paese, anche se poi lo avevano emarginato, non fornendogli più alcuna notizia sugli affari dell’organizzazione mafiosa; NOME NOMECOGNOME infine, il quale ha condiviso la detenzione in carcere con l’Arcerito e l’COGNOME dal 15 febbraio 2013 al 3 maggio 2013, riferendo di avere appreso da entrambi come fosse organizzata “Cosa Nostra” a Niscemi, quali fossero i rispettivi ruoli all’interno del sodalizio mafioso e
l’organigramma della cosca, di cui faceva parte anche il COGNOME, con l’Arcerito e l’COGNOME in posizione dominante, almeno sino al maggio del 2013 (cfr. pp. 14-20 della sentenza di secondo grado.
Orbene, come appare evidente, le chiamate di correità che si sono succedute nel corso del tempo ad opera degli indicati collaboratori di giustizia, delineano una costante presenza dell’COGNOME al vertice della famiglia mafiosa di Niscemi, sino agli anni 2007- 2009, inserendosi le dichiarazioni rese da ultimo dal Giugno, che ha esteso la parte partecipazione dell’COGNOME al sodalizio mafioso sino al maggio del 2013, in questo contesto, consentendo di affermare del tutto logicamente, in mancanza di evidenze contrarie, che l’COGNOME svolse il suo ruolo apicale nel periodo in contestazione, pur risultando spesso detenuto, come del resto aveva già fatto in passato, quando lo stato detentivo, come dichiarato dal COGNOME e dal COGNOME, non gli aveva certo impedito di adempiere con continuità ai compiti che gli spettavano in qualità di componente di spicco del sodalizio mafioso di cui si discute.
Del resto giova ricordare che, come affermato da un condivisibile arresto della giurisprudenza di questa Corte, in tema di prova dei reati associativi, la conferma dell’attendibilità di un’accusa mossa da un collaboratore di giustizia può essere costituita dalla dichiarazione di un altro collaboratore avente ad oggetto un fatto diverso ma comunque indicativo della partecipazione all’associazione, a nulla rilevando che il riscontro attenga ad un accadimento collocabile in un diverso contesto temporale, se quest’ultimo sia comunque compreso nel periodo di contestazione del reato, in quanto il “fatto” da dimostrare non è il singolo comportamento dell’associato ma la sua appartenenza al sodalizio (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 21562 del 03/02/2015, Rv. 263704).
Il che consente di condividere la valutazione unitaria operata dalla corte territoriale delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia con riferimento a contesti temporali diversi, in cui il ricorrente ha sempre operato nell’interesse del sodalizio mafioso di riferimento, rientranti nel periodo di contestazione del reato associativo.
Il ricorrente, come si è detto, lamenta la mancanza di una specifica risposta da parte della corte territoriale in ordine alla questione posta, senza tenere conto, tuttavia, del contesto complessivo emergente dalle prove dichiarative e documentali acquisite e valutate dai giudici di merito.
E invero, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità con condivisibile orientamento, l’obbligo di motivazione del giudice dell’impugnazione non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell’atto d’impugnazione, se il suo discorso giustificativo, come nel caso in esame, indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicché, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno dell’appello, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, come nel caso in esame, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilità del vizio di mancanza di motivazione di cui all’art. 606, comma primo, lett. e), c.p.p. (cfr. Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Rv. 260841; Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Rv. 277593).
Né va taciuto che la conclusione cui è giunta la corte territoriale risulta del tutto conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di criminalità mafiosa.
Come è stato sottolineato da tempo, infatti, in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, il sopravvenuto stato detentivo del soggetto non determina la necessaria ed automatica cessazione della sua partecipazione al sodalizio, atteso che la relativa struttura caratterizzata da complessità, forti legami tra gli aderenti e notevole spessore dei progetti delinquenziali a lungo termine – accetta il rischio di periodi di detenzione degli aderenti, soprattutto in ruoli apicali, alla stregua di eventualità che, da un lato, attraverso contatti possibili anche in pendenza di detenzione, non ne impediscono totalmente la partecipazione alle vicende del gruppo ed alla programmazione delle sue
attività e, dall’altro, non ne fanno venir meno la disponibilità a riassumere un ruolo attivo alla cessazione del forzato impedimento. (Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto corretta la decisione con cui il tribunale del riesame aveva reputato sussistere la permanenza del vincolo associativo in capo all’indagato – “braccio destro” del capoclan nonostante la sofferta detenzione, sottolineando come i suoi contatti con il medesimo, e con l’intero gruppo, fossero nel frattempo continuati anche in ragione della periodica erogazione di somme di denaro da parte del sodalizio: cfr. Sez. 2, n. 8461 del 24/01/2017, Rv. 269121).
In tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, dunque, il sopravvenuto stato detentivo non esclude la permanenza della partecipazione al sodalizio, che viene meno solo in caso di cessazione della consorteria criminale ovvero nelle ipotesi, positivamente acclarate, di recesso o esclusione del singolo associato, quali, a mero titolo esemplificativo, un lungo periodo di detenzione in assenza di contatti con la consorteria, il trasferimento in luogo distante da quello della sua operatività o una contrapposizione interna al sodalizio seguita dall’allontanamento di uno dei sodali (cfr. Sez. 6, n. 1162 del 14/10/2021, Rv. 282661), circostanze del tutto assenti nel caso in esame e nemmeno prospettate dal ricorrente.
5.2. Inammissibili appaiono, infine, i motivi di ricorso attinenti alla determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio, perché tali da sollecitare, in maniera del tutto generica, una non consentita valutazione di merito sulla dosimetria della pena.
La corte territoriale, infatti, ha rigettato il motivo di appello articolato sul punto, evidenziando che la dedotta doglianza si fondava su presupposti, quali il limitato periodo temporale di partecipazione dell’COGNOME al sodalizio mafioso e l’esclusione della circostanza aggravante del ruolo direttivo dallo stesso svolto, rivelatisi fallaci, in quanto puntualmente disattesi dal giudice di secondo grado, la cui decisione sul punto è stata condivisa in questa sede (cfr. pp. 21-22 della sentenza di appello)
Sicché riproporre la questione negli stessi termini rende le articolate censure non specifiche, ma apparenti, in quanto omettono di assolvere
la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso, pertanto inammissibili (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Rv. 277710-01).
6. Il ricorso del COGNOME va rigettato, essendo sorretto da motivi infondati.
Anche in questo caso il ricorrente non ha mosso contestazioni dotate della necessaria specificità in ordine alla credibilità soggettiva dei collaboratori di giustizia presi in considerazione dalla corte territoriale, né tantonneno alla attendibilità, intrinseca ed estrinseca delle loro dichiarazioni.
Può dunque ritenersi dimostrata, sulla base delle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia COGNOME, COGNOME e COGNOME, già richiamate nelle pagine precedenti, alla cui lettura si rimanda, esaminando la posizione dell’COGNOME, la partecipazione del COGNOME alla famiglia mafiosa di COGNOME, per un periodo di tempo che arriva quanto meno al maggio del 2013.
Anche in questo caso giova ricordare che, come affermato dal già richiamato arresto della giurisprudenza di questa Corte, in tema di prova dei reati associativi, la conferma dell’attendibilità di un’accusa mossa da un collaboratore di giustizia può essere costituita dalla dichiarazione di un altro collaboratore avente ad oggetto un fatto diverso ma comunque indicativo della partecipazione all’associazione, a nulla rilevando che il riscontro attenga ad un accadimento collocabile in un diverso contesto temporale, se quest’ultimo sia comunque compreso nel periodo di contestazione del reato, in quanto il “fatto” da dimostrare non è il singolo comportamento dell’associato ma la sua appartenenza al sodalizio (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 21562 del 03/02/2015, Rv. 263704).
Il che, come già detto, consente di condividere la valutazione unitaria operata dalla corte territoriale delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia con riferimento a contesti temporali diversi in cui il ricorrente ha operato sempre nell’interesse del sodalizio mafioso di riferimento, rientranti nel periodo di contestazione del reato associativo.
Se ciò è vero, come è vero, allora trova applicazione il principio giurisprudenziale secondo cui in tema di partecipazione ad associazione mafiosa, il vincolo associativo tra il singolo e l’organizzazione si instaura nella prospettiva di una futura permanenza in essa a tempo indeterminato e si protrae sino allo scioglimento della consorteria, potendo essere significativo della cessazione del carattere permanente della partecipazione soltanto l’avvenuto recesso volontario, che, come ogni altra ipotesi di dismissione della qualità di partecipe, deve essere accertato in virtù di condotta esplicita, coerente e univoca e non in base a elementi indiziari di incerta valenza, quali quelli della età, del subingresso di altri nel ruolo di vertice e dello stabilimento della residenza in luogo in cui si assume non essere operante il sodalizio criminoso (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 1703 del 24/10/2013, Rv. 258954; Sez. 2, n. 25311 del 15/03/2012, Rv. 253070).
Recesso che, nel caso in esame, risulta indimostrato.
Una volta dimostrata la sussistenza di elementi che consentono di attribuire al Di Pasquale l’appartenenza al sodalizio mafioso di cui si discute sino al maggio del 2013, dunque ben oltre il 2002, risulta irrilevante la questione posta dal ricorrente, secondo cui si sarebbe già formato il giudicato con riferimento alla condotta posta in essere nell’anno 2002, posto che, ai fini della preclusione del giudicato, l’identità del fatto è configurabile solo ove le condotte siano caratterizzate dalle medesime condizioni di tempo, di luogo e di persone, sicché costituisce fatto diverso quello che, pur violando la stessa norma e integrando gli estremi del medesimo reato, rappresenti ulteriore estrinsecazione dell’attività delittuosa, distinta nello spazio e nel tempo da quella pregressa. (Fattispecie relativa a partecipazione ad associazione mafiosa in cui la Corte ha escluso la violazione del principio del “ne bis in idem”, in quanto la contestazione afferiva a un periodo temporale successivo rispetto a quello oggetto del precedente procedimento già definito con sentenza irrevocabile e si fondava su fatti nuovi, indicativi della persistente intraneità del ricorrente: cfr. Sez. 5, n. 18020 del 10/02/2022, Rv. 283371).
In altri termini la decisione assunta dalla corte territoriale risulta conforme a quello che lo stesso ricorrente individua come il perimento decisionale del giudice di secondo grado: “…il Di NOME doveva essere chiamato a rispondere del reato associativo per le condotte poste in essere dall’anno 2002 all’anno 2001″ (cfr. p. 6 del ricorso), senza tacere, a sostegno della genericità dell’argomentazione difensiva sul punto, che l’imputato non ha indicato quali conseguenze deriverebbero dalla pretesa violazione del principio del bis in idem, una volta dimostrata la continuazione della condotta associativa ben oltre il 2002.
7. Al rigetto dei ricorsi dell’COGNOME e del COGNOME, segue la condanna di entrambi i ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibile il ricorso di NOME NOMECOGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 31.10.2024.