Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 25827 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 25827 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 31/05/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME, nato a Catania il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nato a Catania il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nato a Catania il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nato ad Acireale il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 02/05/2023 della Corte d’appello di Catania visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME AVV_NOTAIO, il quale ha concluso chiedendo che: i ricorsi di COGNOME NOME e di COGNOME NOME siano rigettati; il ricorso di COGNOME NOME sia dichiarato inammissibile; con riguardo al ricorso di COGNOME NOME, la sentenza impugnata venga annullata con rinvio relativamente alla sospensione condizionale della pena, con rigetto dello stesso ricorso nel resto;
udito l’AVV_NOTAIO, in difesa di NOME, il quale si è riportato ai motivi di ricorso;
udito l’AVV_NOTAIO, in sostituzione dell’AVV_NOTAIO, il quale si è riportato ai motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 02/05/2023, la Corte d’appello di Catania, per quanto q ancora interessa, in parziale riforma della sentenza del 22/01 i /20 1 del G.u.p. del Tribunale di Catania, emessa in esito a giudizio abbreviato,
escluse, per tutti gli appellanti, l’aggravante di cui al quarto comma dell’art. 416-bis cod. pen. con riguardo al reato di cui al capo 1) dell’imputazione, le aggravanti di cui al comma 4 dell’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. con riguardo al reato di cui al capo 10) dell’imputazione, e l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. con riguardo ai reati di cui ai capi 11), 12), 13) e 15) dell’imputazione:
ritenuta la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 08/06/2005 della Corte d’appello di Catania, divenuta irrevocabile il 24/06/2005, e più grave il reato sub iudice di cui al capo 10) dell’imputazione, rideterminava in complessivi 20 anni di reclusione la pena irrogata a NOME COGNOME per i reati di:
1.1) associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell’imputazione (con NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, nei confronti dei quali ultimi due si era proceduto separatamente), quale capo e organizzatore del gruppo di “RAGIONE_SOCIALE“, articolazione dell’associazione di tipo mafioso denominata clan dei “RAGIONE_SOCIALE” o clan “RAGIONE_SOCIALE“;
1.2) estorsione pluriaggravata (dall’essere stata la minaccia posta in essere da più persone riunite e da persona appartenente al clan dei “RAGIONE_SOCIALE” o clan “RAGIONE_SOCIALE” e per essere stato il fatto commesso al fine di agevolare il gruppo di “RAGIONE_SOCIALE” e con metodo mafioso) e continuata in concorso (con NOME COGNOME, NOME COGNOME ed NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 2) dell’imputazione;
1.3) estorsione pluriaggravata (dall’essere stata la minac:cia posta in essere da più persone riunite e da persona appartenente al clan dei “RAGIONE_SOCIALE” o clan “RAGIONE_SOCIALE” e per essere stato il fatto commesso al fine di agevolare il gruppo di “RAGIONE_SOCIALE” e con metodo mafioso) e continuata in concorso (con NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 3) dell’imputazione;
1.4) estorsione pluriaggravata (dall’essere stata la minaccia posta in essere da più persone riunite e da persona appartenente al clan dei “RAGIONE_SOCIALE” o clan “RAGIONE_SOCIALE” e per essere stato il fatto commesso al fine di agevolare il gruppo di “RAGIONE_SOCIALE” e con metodo mafioso) e continuata in concorso (con NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 4) dell’imputazione;
1.5) estorsione pluriaggravata (dall’essere stata la minaccia posta in essere da più persone riunite e da persona appartenente al clan dei “RAGIONE_SOCIALE” o clan “RAGIONE_SOCIALE” e per essere stato il fatto commesso al fine di agevolare il gruppo di
“RAGIONE_SOCIALE” e con metodo mafioso) e continuata in concorso (con NOME COGNOME e NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 5) dell’imputazione;
1.6) estorsione pluriaggravata (dall’essere stata la minaccia posta in essere da più persone riunite e da persona appartenente al clan dei “RAGIONE_SOCIALE” o clan “RAGIONE_SOCIALE” e per essere stato il fatto commesso al fine di agevolare il gruppo di “RAGIONE_SOCIALE” e con metodo mafioso) e continuata in concorso (con NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 6) dell’imputazione;
1.7) associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti (con NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, nei confronti del quale ultimo si era proceduto separatamente), in veste di promotore o comunque direttore e organizzatore’ di cui al capo 10) dell’imputazione;
1.8) traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti continuati i concorso (con NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, nei confronti del quale ultimo si era proceduto separatamente) di cui al capo 11) dell’imputazione;
1.9) traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti continuati i concorso (con NOME COGNOME, oltre che con NOME COGNOME e NOME COGNOME nei confronti dei quali ultimi due si era proceduto separatamente) di cui al capo 13) dell’imputazione;
rideterminava in 4 anni, 7 mesi e 10 giorni di reclusione la pena irrogata ad NOME COGNOME per i reati di:
2.1) associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti (con NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, nei confronti del quale ultimo si era proceduto separatamente) di cui al capo 10) dell’imputazione;
2.2) traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti continuati i concorso (con NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, nei confronti del quale ultimo si era proceduto separatamente) di cui al capo 11) dell’imputazione;
rideterminava in 2 anni e 4 mesi di reclusione ed C 1.200,00 di multa la pena irrogata a NOME COGNOME per i reati di:
3.1) estorsione pluriaggravata (dall’essere stata la minaccia posta in essere da persona appartenente all’associazione di tipo mafioso “RAGIONE_SOCIALE“, gruppo di “RAGIONE_SOCIALE“, e per essere stato il fatto commesso al fine di agevolare la medesima associazione mafiosa e con metodo mafioso) e continuata in concorso (con NOME COGNOME, nei cui confronti si procedeva separatamente) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 7) dell’imputazione;
3.2) traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti continuati i concorso (con NOME COGNOME, oltre che con NOME COGNOME e NOME COGNOME nei confronti dei quali si procedeva separatamente) di cui al capo 13) dell’imputazione;
3.3) traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti continuati i concorso (con NOME COGNOME, oltre che con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME nei confronti dei quali si procedeva separatamente) di cui al capo 19) dell’imputazione;
rideterminava in 2 anni di reclusione ed C 3.600,00 di multa la pena irrogata ad NOME COGNOME per il reato di traffico e detenzione illeciti sostanze stupefacenti continuati in concorso (con NOME COGNOME, oltre che con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME nei confronti dei quali si procedeva separatamente) di cui al capo 19) dell’imputazione.
Avverso tale sentenza del 02/05/2023 della Corte d’appello di Catania, hanno proposto ricorsi per cassazione, con distinti atti e per il tramite dei propri rispettivi difensori, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Il ricorso di NOME COGNOME è affidato a cinque motivi.
3.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., l’«errata interpretazione» dell’art. 416-bis, secondo comma, cod. pen., e il «travisamento delle risull:anze in atti», con riguardo alla ritenuta qualità di capo e organizzatore dell’associazione mafiosa di cui al capo 1) dell’imputazione.
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Catania, nel ritenere tali sue qualità, non avrebbe né dato risposta alle puntuali doglianze difensive che, al riguardo, erano state prospettate nel proprio atto di appello, né spiegato in base a quali elementi di fatto e considerazioni giuridiche fosse pervenuta a reputare che egli rivestisse i suddetti ruoli nell’associazione di tipo mafioso, avendoli, in realt illegittimamente argomentati «sulle risultanze riferite alla qualifica di capo organizzatore contestata nell’ambito della diversa associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti».
3.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., l’«errata interpretazione» dell’art. 74, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, e il «travisamento delle risultanze in atti», con riguardo alla ritenuta qualità di capo e organizzatore dell’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 1 dell’imputazione.
Nell’esporre in presenza di quali circostanze, anche secondo la richiamata giurisprudenza della Corte di cassazione, sarebbe possibile attribuire la qualifica di
capo e di organizzatore di un’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Catania, «ignorando le altre obiezioni in fatto e in diritto sollevate nei motivi di appello», gli avre attribuito le suddette qualifiche con «una motivazione molto scarna, basata su pochissimi elementi» e avrebbe, in particolare: a) valorizzato l’intercettata frase «dov’è il tuo capo?» che era stata rivolta, facendo riferimento al COGNOME, da NOME COGNOME a NOME COGNOME (pag. 30 e pag. 36 della sentenza impugnata), nonostante la stessa frase costituisse un «elemento L.] assolutamente neutro», rappresentando «semplicemente una espressione che intende sminuire un soggetto, magari attribuendo allo stesso la circostanza di subire la personalità di un altro»; b) valorizzato il fatto che «né il COGNOME né COGNOME assumono decisioni autonome, ma coinvolgono sempre il COGNOME» (pag. 35 della sentenza impugnata), nonostante tale “coinvolgimento” non si potesse ritenere «indicativo della sua qualifica di capo, atteso che, proprio in quanto capo, lo stesso non può mai essere coinvolto alla fine di un qualcosa ma deve essere necessariamente presente all’inizio. Il coinvolgerlo pertanto significa solamente il volerlo avere con loro, non necessariamente che, senza di lui, o senza il suo sta bene, non si potrebbe proseguire una eventuale attività delittuosa»; c) non avrebbe valorizzato «a sufficienza» il contenuto dell’intercettazione progressivo n. 4640 delle ore 09:44 del 09/05/2017, «dalle quale di contro si desume come l’organizzatore sia persona del tutto diversa da COGNOME NOME».
3.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’«errata interpretazione» dell’art. 629 cod. pen. e il «travisamento delle risultanze in atti», con riguardo all’affermazione di responsabilità per i delitti di estorsione di cui ai capi «da 2 a 8» (in realtà: COGNOME non era stato contestato il reato di cui al capo 7 dell’imputazione, del quale erano stati chiamati a rispondere NOME COGNOME e NOME COGNOME; la Corte d’appello di Catania ha assolto il COGNOME dal reato di cui al capo 8 dell’imputazione, come motivato alle pagg. 36-37 della sentenza impugnata e dichiarato nel dispositivo alla pag. 63 della stessa sentenza, del che, peraltro, lo stesso ricorrente dà atto nella settima pagina del suo ricorso).
Il COGNOME sostiene che la Corte d’appello di Catania, con l’affermare che i fatti a lui attribuiti, «benché non siano stati riscontrati atti intimidatori violen avrebbero integrato le contestate fattispecie di estorsione pluriaggravata «in quanto la nota appartenenza del COGNOME e dei suoi correi al clan COGNOME era di per sé sufficiente ad indurre le vittime a pagare quanto richiesto» (pag. 36 della sentenza impugnata), sarebbe incorsa in un «cortocircuito moitivazionale».
Secondo il ricorrente, come sarebbe dimostrato anche «dalla cordialità dei colloqui intercettati», le corresponsioni, da parte delle persone offese, di denaro o
di altre utilità «possono (anche) essere attribuite a rapporti del tutto legittimi comunque certamente non estorsivi», tenuto conto che, posto che la Corte d’appello di Catania avrebbe dovuto indicare gli elementi «dai quali avrebbe evinto che le vittime fossero in posizione di soggezione rispetto al ricorrente o ad altri soggetti», sarebbe «molto strano che, agli atti del procedimento, non risulti alcuna minaccia nei confronti delle presunte vittime, neppure implicita o indeterminata e nessuna coartazione psicologica nei loro confronti. Né è provato in alcun modo l’eventuale ingiusto vantaggio personale di qualsivoglia natura con altrui danno, dallo stesso ottenuto».
La Corte d’appello di Catania, inoltre, non avrebbe adeguatamente considerato come: a) «gli episodi avvengano tra soggetti legati da vincolo di amicizia/parentela»; b) «non sono mai state documentate consegne di denaro al COGNOME per effetto delle presunte estorsioni»; c) «le conversazioni intercettate fra il COGNOME e le presunte persone offese non lasciano trasparire atteggiamenti ritorsivi, aggressivi, violenti o anche solo velatamente minacciosi».
Il ricorrente conclude che non sarebbe «legittimo e conforme a giustizia condannare per sei estorsioni un soggetto che ha chiesto del denaro ad amici e parenti, senza usare nei loro confronti violenza o minaccia, solo perché la sua “nota appartenenza” di per sé sarebbe stata sufficiente ad indurre al pagamento», con la conseguenza che «chiunque gli conceda un prestito o un regalo, in maniera automatica diventa vittima di estorsione».
3.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., l’«errata interpretazione» dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e il «travisamento delle risultanze in atti», con riguardo all’affermazione di responsabilità per i reati di traffico e detenzione illecit sostanze stupefacenti di cui ai capi 11) e 13) dell’imputazione.
Nel richiamare alcune pronunce della Corte di cassazione in tema di cosiddetta droga parlata, quanto all’affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo 11) dell’imputazione, il COGNOME lamenta che sarebbe «infondata e arbitraria la lettura delle conversazioni intercettate», in difetto di «elementi di supporto a tale lettura», atteso che: a) non erano stati identificati gli acquirenti della sostanz stupefacente; b) non erano stati individuati disponibilità e movimenti di denaro; c) non era stato effettuato alcun sequestro di sostanza stupefacente; d) le conversazioni intercettate non avevano consentito di individuare le fonti di approvvigionamento della sostanza stupefacente che si assumeva acquistata; e) non erano stati individuati gli eventuali acquirenti della stessa sostanza; f) né sulla sua persona, né nella sua abitazione erano state rinvenute «tracce di sostanza stupefacente»; g) non erano stati individuati i luoghi in cui la sostanza stupefacente sarebbe stata custodita.
Pertanto, sarebbe mancata la motivazione in ordine agli «elementi non solo di fatto ma anche di diritto richiesti dalla più accorta giurisprudenza di legittimità
Secondo il COGNOME, la motivazione della sentenza impugnata non consentirebbe di «comprendere se e quanti controlli siano stati effettuati dalla polizia giudiziaria su luoghi e persone con esito negativo e quali elementi obiettivi quei controlli abbiano comunque recepito» e la Corte d’appello di Catania non avrebbe adeguatamente considerato che «l’attività investigativa tecnica» era stata svolta per ben due anni «ma semplicemente non prodotto i risultati sperati, quali quelli di documentare eventuale commissione di attività illecita (di fatto inesistente)».
Inoltre, «il linguaggio e i termini emergenti dalle conversazioni intercettate» non sarebbero stati «univocamente interpretabili nei sensi di avere ad oggetto transazioni commerciali relative a sostanza stupefacente organizzate e gestite dal RAGIONE_SOCIALE».
Il compendio probatorio si fonderebbe peraltro per lo più sul contenuto di intercettate conversazioni telefoniche tra NOME COGNOME e NOME COGNOME, intervenute tra il 22/02/2017 e il 11/06/2017, «nelle quali il COGNOME non è neppure presente o semplicemente menzionato». Per potere ritenere la responsabilità dell’imputato sulla base di tali conversazioni, sarebbe stato pertanto necessario «inserirle all’interno di un seppur minimo compendio probatorio o anche solo indiziario ulteriore, tale per cui le stesse avrebbero assunto un significato specifico, eventualmente sintomatico di narcotraffico».
Il ricorrente fa poi riferimento all’«episodio nel quale, secondo la ricostruzione della sentenza COGNOME con COGNOME, COGNOME, COGNOME e COGNOME avrebbe spostato un borsone rosso dal contenuto di fatto ignoto – nel quale gli inquirenti hanno supposto vi fosse, non meglio specificata quantità e qualità, sostanza stupefacente – e ciò da una zona sciarosa (anche questa non meglio specificata) vicino a INDIRIZZO a RAGIONE_SOCIALE, per portarlo in un posto, anch’esso no meglio specificato, in INDIRIZZO». A proposito di tale episodio, il ricorrente deduce che, dalle intercettazioni ambientali riportate alle pagg. 182-183 dell’ordinanza di custodia cautelare e «dalle relative immagini video agli atti», emergerebbe come egli «non si sia mai addentrato nell’area sciarosa considerata», mentre le indicate immagini non mostrerebbero alcuna consegna di sostanza stupefacente. Ne discenderebbe che la Corte d’appello di Catania avrebbe solo «supposto che nella zona sciarosa vi fosse nascosta sostanza stupefacente, che nel borsone rosso fosse stata trasportata sostanza stupefacente, che in INDIRIZZO Scordo gli imputati abbiano trasferito la sostanza stupefacente stessa».
Così come avrebbe parimenti «supposto, con riferimento a tutti gli altri episodi».
L’argomentazione che «coinvolgerebbe il ricorrente nell’avere delegato il COGNOME ad annotare gli esiti dell’attività di spaccio» sarebbe poi smentita dall’intercettata conversazione progressivo n. 4640 delle ore 09:44 del 09/05/2027. Inoltre, nonostante le perquisizioni che erano state effettuate, non erano stati rinvenuti alcun «registro o appunti vari nei quali fossero annotati eventuali proventi, rinvenimento di denaro quale provento dell’attività di spaccio».
Quanto all’affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo 13) dell’imputazione, il COGNOME richiama «le considerazioni svolte sopra a proposito del capo 11», ribadendo come difetterebbe «ogni tipo di riscontro in merito ai fornitori della sostanza, alla mancanza di accertati movimenti di denaro, alla inesistenza di sequestri della sostanza, alla indicazione di quantità e qualità della sostanza stupefacente», così come mancherebbero «attività di geolocalizzazioni satellitari, attività di osservazione, controllo e pedinamento che avrebbe potuto consentire di individuare e identificare i presunti fornitori albanesi, il luogo da dov veniva importata la presunta sostanza stupefacente o consentire in qualche modo un tracciamento dell’attività di narcotraffico».
Il ricorrente conclude che non vi sarebbe alcun indizio grave preciso e concordante della sua partecipazione ai due reati in considerazione.
3.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’«errata interpretazione» dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 e il «travisamento delle risultanze in atti», con riguardo all’affermazione di responsabilità per il reato di associazione finalizzata al traffic illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 10) dell’imputazione.
Dopo avere lamentato che, nella prassi, la prova della sussistenza di tale reato verrebbe ormai normalmente erroneamente «desunt dalla circostanza che alcuni soggetti spaccino in maniera continuativa e con un minimo di organizzazione» e avere svolto alcune considerazioni sul tema della distinzione tra il reato di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti concorso eventuale nel reato di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, il ricorrente denuncia che la Corte d’appello di Catania avrebbe dato «per scontata l’esistenza di una associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, palesemente argomentando dalla ritenuta sussistenza di un’associazione mafiosa. Una vera e propria probatio diabolica», anche perché «potrebbe essere molto più logico e conforme alle risultanze in atti, ritenere che l’attività di spaccio non sia altro c un reato fine dell’associazione mafiosa».
Il COGNOME deduce che, «nelle argomentazioni della corte territoriale, non si rinviene alcun argomento logico o giuridico che dimostri che i soggetti, gli stessi dell’associazione mafiosa, si siano, indipendentemente dall’associazione, coalizzati in una associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti,
commettendo il fatto tipico e codificato, cioè il costituire una organizzazione ad hoc», considerato che «il materiale probatorio è rappresentato esclusivamente da pochissimi episodi in cui si ritiene vi sia stata una attività di acquisto cessione di sostanza stupefacente». Il ricorrente rappresenta in proposito che la prova dell’esistenza di un’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanz stupefacenti e della partecipazione a essa «non può essere semplicemente inferita dalla dimostrazione della commissione di reati-scopo commessi congiuntamente da più persone , occorrendo comunque la dimostrazione di elementi probatori da cui ricavare una comune affectio societatis ed una consapevolezza di perseguire, con carattere di stabilità, uno scopo comune».
Tale prova dell’esistenza di una siffatta societas sceleris non potrebbe essere ritenuta esistente, ribadisce il ricorrente, «sulla base della circostanza che sussiste il vincolo tra le stesse persone nell’ambito dell’associazione mafiosa, che di fatto è il ragionamento della corte territoriale e del giudice di prime cure».
Secondo il COGNOME, nel caso in esame, «ritenendo la contestazione ex articolo 73 come reato fine della contestata associazione mafiosa, non solo l’accordo presenterebbe il connotato dell’occasionalità, essendo strumentale al compimento di uno o più reati determinati, la cui realizzazione, indispensabile, comporta la rottura del legame criminogeno tra i concorrenti, ma i reati sarebbero semplice espressione di un’associazione mafiosa e non, con una palese forzatura, una associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti».
A quest’ultimo riguardo, il ricorrente, dopo avere illustrato la distinzione tra l’elemento soggettivo che dove sorreggere il reato di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti e quello che connota il concorso eventuale nel reato di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, asserisce che «appare logico ritenere che se dei soggetti sono già vincolati dall’essere associati ad una associazione mafiosa, non ha alcun senso che gli stessi con coscienza e volontà si uniscano per costituire una diversa associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Quando lo spaccio non rappresenterebbe altro, per loro, che uno dei reati fine dell’associazione mafiosa».
Il COGNOME rappresenta ancora che, ancorché sia vero che l’associazione di tipo mafioso e l’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti «possono coesistere», ciò non si sarebbe verificato nel caso di specie nel quale l’esistenza di quest’ultima associazione sarebbe stata ritenuta «senza che vi sia agli atti alcuna prova della consapevolezza dei singoli imputati di aderire alla associazione, e prima ancora di averla costituita». Gli imputati, ritenuti associati al clan mafioso, sarebbero stati «automaticamente» reputati appartenere anche a un’associazione ex art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, «senza alcuna disamina
critica di tutti gli elementi costitutivi di un’associazione secondo i dettami indica dalla suprema corte di cassazione».
Il ricorso di NOME COGNOME è affidato a un unico motivo, con il quale il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., l’inosservanza o l’erronea applicazione dell’art. 81 cod. pen. e la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla determinazione dell’aumento di pena per la continuazione con il reato di cui al capo 11) dell’imputazione.
Il ricorrente rappresenta come non gli fosse stata contestata la recidiva reiterata (con la conseguente insussistenza di alcun obbligo in ordine alla misura del suddetto aumento di pena), come già il Tribunale di Catania gli avesse concesso le circostanze attenuanti generiche (in considerazione dell’ammissione dei fatti da parte sua) e come la Corte d’appello di Catania avesse escluso la circostanza aggravate di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., e lamenta che, nonostante tali elementi «avrebbero potuto spingere l’Organo Giudicante ad ancorare l’aumento in esame al minimo edittale», la stessa Corte d’appello di Catania aveva invece applicato un aumento per la continuazione «che si discosta ampiamente dal minimo edittale, oltre tutto senza nessuna esternazione del canone logico utilizzato, tale da non consentirne il sindacato».
Il ricorso di NOME COGNOME è affidato a due motivi.
5.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c) ed e) , cod. proc. pen., e con riferimento agli artt. 125 e 546 dello stesso codice, la mancanza e la contraddittorietà della motivazione con riguardo «alla ricorrenza degli elementi probatori dimostrativi» della propria responsabilità per il reato di estorsione pluriaggravata in concorso ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 7) dell’imputazione.
Il ricorrente premette che, nel proprio atto di appello, aveva: a) rappresentato come la ricostruzione del contenuto delle intercettate conversazioni telefoniche tra lui stesso e la persona offesa NOME COGNOME avrebbe tratto origine dalla «natura minacciosa delle richiesta di aiuto economico» che sarebbe stata avanzata all’COGNOME da NOME COGNOME e da NOME COGNOME, mentre la propria condotta si sarebbe connotata come quella dell’esattore del “pizzo”; b) contestato che la mancanza di un’accusa nei confronti del COGNOME e del COGNOME avrebbe «reso impraticabile quel percorso probatorio o, comunque, lo stesso non consentiva di affermarsi che una minaccia estorsiva vi fosse stata e che ia stessa era stata attuata da quei soggetti» e che, quindi, il proprio rapporto con l’COGNOME potesse «ascriversi ad una minaccia di un danno ingiusto, già consolidatasi , patita ad opera dei due soggetti» suddetti.
Ciò premesso, il COGNOME lamenta, sotto un primo profila, che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe «inadeguat» in quanto la Corte d’appello di Catania affermerebbe, da un lato, che la natura estorsiva della richiesta di denaro all’COGNOME «sarebbe stata fondata sulla caratura criminale del COGNOME e del COGNOME» (così il ricorso) e, dall’altro lato, che «non sarebbe dato sapere il ruolo avuto COGNOME e dal COGNOME nella estorsione» (così il ricorso), con la conseguenza che la stessa Corte d’appello lascerebbe «sullo sfondo l’elemento centrale della condotta tipica del reato ipotizzato, ovvero la minaccia».
Sotto un secondo profilo, il COGNOME sostiene che la Corte d’appello di Catania avrebbe, in modo contraddittorio, prima «individua nella condotta dei due soggetti, COGNOME e COGNOME, non imputati del fatto, la formulazione di una implicita minaccia derivante dal loro status di appartenenti ad una consorteria mafiosa» e, poi, affermato che «la minaccia potrebbe essere stata formulata da altri membri del medesimo clan, rilevando che quella parte della condotta estorsiva sarebbe rimasta ignota».
5.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., e con riferimento agli artt. 125, 546 e 671 dello stesso codice, nonché all’art. 81 cod. pen. la «violazione di legge» con riguardo all’esclusione della continuazione tra il reato di estorsione ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 7) dell’imputazione e i reati di traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti di cui ai capi 13) e 19) dell’imputazione.
Il COGNOME rappresenta che, con il proprio atto di appello, aveva chiesto il riconoscimento della medesimezza del disegno criminoso tra tali tre reati, sull’assunto che, dalla propria partecipazione a un’associazione mafiosa – reato che gli era stato contestato nell’ambito di un altro procedimento penale -, si sarebbe dovuta trarre «la contestuale rappresentazione, nelle linee essenziali, dei fatti reato, ritenuti strumentali rispetto alla fattispecie associativa».
Ciò rappresentato, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Catania, con l’affermare che «non può, in linea di principio, riconoscersi il vincolo della continuazione tra reati accertati con sentenze non ancora passate in giudicato» e che «ben potrà l’appellante proporre l’istanza in esame in sede esecutiva, non appena divenute irrevocabili le sentenze relative ai reati che si assume commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso» (pag. 59 della sentenza impugnata), avrebbe illegittimamente esteso «il divieto normativo a che si possa riconoscere la continuazione tra fatti oggetto di sentenze non ancora passate in giudicato anche a quei fatti, non ancora contenuti in sentenze passate in giudicato, che, tuttavia, appartengono al medesimo giudizio di cognizione nel quale il riconoscimento del vincolo è invocato».
6. Il ricorso di NOME COGNOME è affidato a tre motivi.
6.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per non avere la Corte d’appello di Catania pronunciato sentenza di non luogo a procedere per la sussistenza di un bis in idem, ai sensi dell’art. 649 cod. proc. pen., per avere il procedimento in corso a oggetto il medesimo fatto per il quale, con la sentenza n. 230/18 del 05/03/2018 del G.i.p. del Tribunale di Catania, divenuta irrevocabile il 25/03/2018, gli era stata applicata la pena su richiesta delle parti.
Nel richiamare alcune pronunce della Corte costituzionale e della Corte di cassazione sul tema, il COGNOME rappresenta anzitutto che, con quest’ultima sentenza, gli era stata applicata la pena per il reato di cui all’art. 73 del d.P.R. 309 del 1990 con riguardo alla detenzione di sostanze stupefacenti che era stata accertata in esito alla perquisizione domiciliare che era stata eseguita il 22/11/2017 e che tale perquisizione era stata disposta nell’ambito delle indagini che venivano svolte nel presente procedimento penale.
Ciò rappresentato, il ricorrente, sulla premessa che, ai fini della preclusione che è connessa al principio del ne bis in idem, la medesimezza del fatto deve essere valutata «unicamente con riferimento alla condotta, all’evento e al nesso causale, nonché alle circostanze di tempo e di luogo del fatto, considerati non solo nella loro dimensione storico-naturalistica ma anche in quella giuridica», deduce che, nel caso in esame, l’identità del fatto sarebbe emersa dalle circostanze che: a) a fondamento delle richieste di rinvio a giudizio e di condanna era stato espressamente indicato l’esito della menzionata perquisizione del 22/11/2017, la quale aveva portato al proprio fermo e alla successiva pronuncia della sentenza di “patteggiamento” n. 230/18 del 05/03/2018; b) «sino a quel momento», i risultati delle indagini che erano state svolte nell’ambito del presente procedimento, segnatamente, intercettazioni telefoniche e tra presenti, «non offrivano la prova in ordine alla qualità e alla quantità della sostanza trattata dal COGNOME. Erano state captate conversazioni in cui si parlava di soldi e di fumo, ma non erano certi né la specie di sostanza trattata né la quantità. Per avere certezza della sostanza trattata, gli inquirenti disponevano le perquisizioni nei confronti di COGNOME e COGNOME. Ovviamente, l’esito positivo delle perquisizioni era certo sin dal momento in cui erano disposte proprio perché, seguivano alla osservazione del relativo rifornimento».
Tutto ciò rappresentato e dedotto, il ricorrente conclude che, pertanto: a) «operato il fermo per i medesimi fatti per cui vi è l’odierno processo, la posizione dell’indagato andava stralciata»; b) non provvedendo in tale senso, «si dava luogo alla duplicazione del procedimento per i medesimi fatti»; c) il presente procedimento avrebbe dovuto essere definito con sentenza di non luogo a procedere per ne bis in idem.
6.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 163 cod. pen. nonché il «difetto di motivazione» della stessa sentenza con riguardo alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena.
Il COGNOME lamenta che, nonostante egli, nel proprio atto di appello, avesse fatto richiesta di riduzione della pena che gli era stata irrogata dal G.u.p. de Tribunale di Catania e, conseguentemente, di concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, la Corte d’appello di Catania, pur avendo ridotto la pena a 2 anni di reclusione ed € 3.600,00 di multa e pur essendo egli privo di precedenti penali, aveva del tutto omesso di motivare con riguardo alla concessione del suddetto beneficio.
6.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per «difetto di motivazione» con riguardo al manc:ato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Il COGNOME lamenta che, nonostante egli, nel proprio atto di appello, avesse fatto richiesta di riconoscimento di tali circostanze attenuanti (come è stato anche riportato a pag. 61 della sentenza impugnata), la Corte d’appello di Catania aveva del tutto omesso di motivare al riguardo, come era tenuta a fare, senza che, peraltro, neppure dal tenore complessivo della motivazione della sentenza impugnata si possano desumere le ragioni di un implicito rigetto della richiesta dell’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso di NOME COGNOME.
1.1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Con esso, il ricorrente non contesta né l’esistenza dell’associazione di tipo mafioso denominata clan dei “RAGIONE_SOCIALE” o clan “RAGIONE_SOCIALE” e, in particolare, dell’articolazione di tale clan che operava nel territorio di RAGIONE_SOCIALE, né di esser reinserito nei ranghi del gruppo di “RAGIONE_SOCIALE” dopo la sua scarcerazione (essendo stato egli detenuto sino all’aprile del 2015) e di averne fatto parte nel periodo in contestazione (da ottobre del 2016 all’aprile 2017), bensì, soltanto, di essere stato il capo e l’organizzatore del suddetto gruppo di “RAGIONE_SOCIALE“.
A tale proposito, si deve rilevare che la Corte d’appello di Catania ha confermato che il COGNOME aveva rivestito tali ruoli sulla base degli elementi che: a) in occasione delle plurime estorsioni a lui attribuite in concorso con altr appartenenti al clan mafioso, era sempre il COGNOME a impartire gli ordini e a stabilire l’ammontare delle richieste estorsive; b) anche nel settore del traffico di stupefacenti, era il COGNOME a interloquire con i trafficanti (con quelli albanesi d cui al capo 13 dell’imputazione e anche con altri fornitori) per l’acquisto della droga
e a stabilire il prezzo di vendita della stessa; c) come risultava dall’intercettat conversazione del 14/03/2017 tra l’imputato, NOME COGNOME e NOME COGNOME, avente o oggetto un incontro con altri esponenti del clan, solo il COGNOME riteneva di dovervi necessariamente partecipare, evidentemente, come è stato logicamente ritenuto, in ragione del ruolo di vertice che rivestiva; d) nei rapporti con i terzi, relativi ad attività delittuose, né NOME COGNOME né NOME COGNOME assumevano decisioni in autonomia, ma coinvolgevano sempre il COGNOME, fissandogli degli appuntamenti di persona in luoghi prestabiliti; e) in un’intercettata conversazione del 15/02/2017, NOME COGNOME chiedeva a NOME COGNOME, con riferimento al COGNOME, «dov’è il tuo capo?».
Tale motivazione della conferma del ruolo dell’imputato di capo e organizzatore del gruppo di “RAGIONE_SOCIALE“, oltre a non integrare alcuna «errata interpretazione» del secondo comma dell’art. 416-bis cod. peri. (che il ricorrente, peraltro, ha omesso di spiegare in cosa sarebbe consistita), risulta del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, come pure dell’asserito «travisamento delle risultante in atti» (anch’esso, peraltro, non specificato), atteso che i menzionati elementi valorizzati dalla Corte d’appello di Catania appaiono, in tutta evidenza, comprovare logicamente il ruolo apicale e organizzativo che era stato svolto dal COGNOME nell’ambito del menzionato gruppo mafioso.
Inoltre, come si è visto, diversamente da quanto è stato sostenuto dal COGNOME, l’attribuzione dei medesimi ruoli non è stata argomentata dalla Corte d’appello di Catania esclusivamente «sulle risultanze riferite alla qualifica di capo e organizzatore contestata nell’ambito della diversa associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti», ma anche con specifico riferimento all’associazione di tipo mafioso.
Il motivo è, poi, del tutto aspecifico là dove, con esso, si lamenta che la Corte d’appello di Catania avrebbe omesso di dare risposta alle doglianze difensive che erano state prospettate nell’atto di appello dell’imputato, atteso che il ricorrente ha del tutto omesso di indicare quali sarebbero state tali doglianze che sarebbero rimaste senza risposta e come esse avrebbero dovuto condurre a una decisione diversa da quella che è stata assunta dai giudici di merito.
1.2. Il secondo e il quinto motivo – i quali, attenendo entrambi alla contestazione della conferma della sussistenza del reato di cui all’art. 74, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, possono essere esaminati congiuntamente – sono manifestamente infondati.
1.2.1. Cominciando, in ordine logico, dal quinto motivo (atteso che esso attiene alla contestazione dell’esistenza stessa dell’associazione di cui al capo 10 dell’imputazione), si deve rammentare che le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno affermato il principio secondo cui i reati di associazione per
delinquere, generica o di stampo mafioso, concorrono con il delitto di associazione per delinquere dedita al traffico di sostanze stupefacenti, anche quando la medesima associazione sia finalizzata alla commissione di reati concernenti il traffico degli stupefacenti e di reati diversi (Sez. U, n. 1149 del 25/09/2008, dep. 2009, Magistris, Rv. 241883-01. Successivamente, nello stesso senso: Sez. 1, n. 4071 del 04/05/2018, COGNOME, Rv. 278583-01; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258163-01; Sez. 2, n. 36692 22/05/2012, Abbrescia, Rv. 253892-01).
Si è del resto rilevato come siano diversi i beni giuridici tutelati dai due reati rispettivamente: l’ordine pubblico messo in pericolo dalle situazioni di assoggettamento e di omertà per quello previsto dall’art. 416-bis cod. pen.; la salute individuale e collettiva, minacciata dalla diffusione dello spaccio di sostanze stupefacenti, per quello previsto dall’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 (Sez. 1, n. 17702 del 21/01/2010, COGNOME, Rv. 247059-01; Sez. 2, n. 21956 del 16/03/2005, COGNOME, Rv. 231972-01).
Si deve in ogni modo osservare che entrambe le fattispecie associative in considerazione si fondano sulla convergente operatività di più soggetti, i quali agiscono per la realizzazione di un programma. Tale convergente e sincronica operatività postula, in entrambi i casi, un assetto organizzativo, più o meno strutturato, che sia accompagnato dalla specifica affectio societatís di ciascun componente; il quale deve, perciò, avere la consapevolezza e la volontà di essere partecipe con un ruolo attivo e, al tempo stesso, essere accettato dal sodalizio come partecipe.
Con riguardo ai rapporti tra i due reati, la Corte di cassazione ha più specificamente affermato, sviluppando delle argomentazioni che si ritiene utile riportare per esteso, che: «ciò che realmente distingue i due tipi di associazione è la natura del programma: nel caso del sodalizio di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 esso è specifico, dovendo aver ad oggetto il narcotraffico; nel caso della consorteria di tipo mafioso, l’oggetto è più genericamente orientato verso la commissione di delitti, l’acquisizione e gestione di attività economiche, la realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti, l’ostacolo al libero esercizio del dir di voto o il procacciamento di voti in competizioni, ma ciò che lo qualifica è l’utilizzo del metodo, cioè il fatto che la consorteria si avvalga della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva.
In tale specifica prospettiva è stato sottolineato che “l’elemento che caratterizza l’associazione di tipo mafioso rispetto all’associazione dedita al narcotraffico, in presenza del quale può configurarsi il concorso tra i due delitti, è costituito non tanto dal fine di commettere altri reati, quanto dal profilo programmatico dell’utilizzo del metodo, che, nell’associazione di cui all’art. 416 bis
c.p., ha una portata non limitata al traffico di sostanze stupefacenti ma si proietta sull’imposizione di una sfera di dominio in cui si inseriscono la commissione di delitti, l’acquisizione della gestione di attività economiche, di concessioni, appalt e servizi pubblici, l’impedimento o l’ostacolo al libero esercizio di voto, procacciamento del voto in consultazioni elettorali” (Cass. Sez. 6, n. 563 del 29/5/2015, dep. nel 2016, Viscido, rv. 265762).
È dunque la circostanza che il sodalizio utilizzi il metodo per esercitare una sfera di predominio in un ambito territoriale, implicante a quel punto plurimi tipi di operatività, lecita o illecita, relativa ad settore o ad un altro, che specificamente qualifica la consorteria di tipo mafioso e rende c:onfigurabile il reato di cui all’art. 416-bis c.p., salva la concomitante configurabilità della fattispec associativa di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, allorché quella consorteria strutturi un riconoscibile assetto organizzativo specificamente funzionale al narcotraffico, costituente se del caso principale strumento di profitto.
Correlativamente non rileva il fatto che la compagine sia o meno coincidente, essendo invece rilevante l’esistenza di quel riconoscibile assetto, che per lo più implica un’attribuzione di ruoli, che ben possono essere diversi nelle due associazioni, in quanto comunque possa dirsi che l’operatività costituisca emanazione di entrambe» (Sez. 6, n. 31908 del 14/05/2019, COGNOME, Rv. 276469-01; Sez. 6, n. 43890 del 21/06/2017, COGNOME, non massimata sul punto).
Nel caso in esame, la Corte d’appello di Catania, al fine di ritenere la sussistenza dell’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 10) dell’imputazione, ha valorizzato i seguenti elementi, che risultavano dagli atti processuali: a) la suddivisione dei ruoli, con l’attribuzione COGNOME di quello di capo (in ordine al quale si dirà al seguente punto 1.2.2), a NOME COGNOME e NOME COGNOME di quello esecutivo delle indicazioni del COGNOME, a NOME COGNOME e a NOME COGNOME (nei confronti dei quali si era proceduto separatamente), pure, di partecipi, e a NOME COGNOMEosentino e NOME COGNOME di venditori al minuto dello stupefacente; b) l’intrattenimento di rapporti con plurimi fornitori di sostanze stupefacenti, in particolare, sia con quell albanesi di cui al capo 13 dell’imputazione sia con altri fornitori “locali”); c notevole numero di cessioni di sostanza stupefacente, in un arco di tempo piuttosto limitato, sia al dettaglio (da parte di NOME COGNOME e NOME COGNOME, specificamente, nella INDIRIZZO che era stata a essi affidata), sia a terzi rivenditori.
Tale motivazione della sussistenza di un’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti non è stata perciò fondata, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, né su un mero «automatismo», cioè sulla mera esistenza di un’associazione di tipo mafioso tra gli stessi soggetti (e «nemmeno
tutti, in realtà»; pag. 32 della sentenza impugnata), né sulla mera commissione di reati fine di “spaccio”, bensì, come si è visto, sui plurimi elementi sopra indicat i quali hanno indotto la Corte d’appello di Catania a ritenere – c:on una motivazione che appare sia in linea con il dato normativo e con l’esposto orientamento della Corte di cassazione, sia priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, come pure dell’asserito «travisamento delle risultante in atti» – che, nell’ambito del sodalizio mafioso e accanto a esso, era stato strutturato un riconoscibile e stabile assetto organizzativo specificamente funzionale al narcotraffico, cioè alla commissione di plurimi e indeterminati reati di “spaccio” di sostanze stupefacenti.
1.2.2. Quanto al secondo motivo, il quale attiene alla contestazione dell’avere il COGNOME diretto e organizzato tale associazione finalizzata al narcotraffico, la Corte d’appello di Catania ha confermato che l’imputato aveva rivestito tali ruoli sulla base degli elementi che: a) era il COGNOME a interloquire con i trafficanti (con quelli albanesi di cui al capo 13 dell’imputazione e anche con altri fornitori “locali” per l’acquisto della droga; b) era il COGNOME a organizzare gli incontri con gli acquirenti della droga e a stabilirne il prezzo di vendita; c) nei rapporti con i terz relativi ad attività delittuose in genere, né NOME COGNOME né NOME COGNOME assumevano decisioni in autonomia, ma coinvolgevano sempre il COGNOME, fissandogli degli appuntamenti di persona in luoghi prestabiliti; d) il COGNOME manifestava insofferenza quando le sue direttive non venivano eseguite; e) in un’intercettata conversazione del 15/02/2017, NOME COGNOME chiedeva a NOME COGNOME, con riferimento al COGNOME, «dov’è il tuo capo?».
Tale motivazione della conferma del ruolo dell’imputato di capo e organizzatore anche dell’associazione di cui al capo 10) dell’imputazione, oltre a non integrare alcuna «errata interpretazione» del comma 1 dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 (che il ricorrente, peraltro, ha omesso di spiegare in cosa sarebbe consistita), risulta del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto m manifeste, come pure dell’asserito «travisamento delle risultante in atti», atteso che i menzionati elementi valorizzati dalla Corte d’appello di Catania appaiono, in tutta evidenza, comprovare logicamente il ruolo apicale e organizzativo che era stato svolto dal COGNOME nell’ambito del suddetto gruppo finalizzato al narcotraffico.
A fronte di ciò, le doglianze del ricorrente in ordine all’interpretazione della citata frase «dov’è il tuo capo?» e della mancanza di autonomia decisionale che veniva dimostrata dal COGNOME e dal COGNOME appaiono, oltre che manifestamente infondate – attesa la palese valenza logica di tali elementi nel senso del ruolo apicale rivestito dall’imputato -, prima ancora, non consentite, in quanto risultano dirette a sollecitare una diversa valutazione del significato
probatorio da attribuire ai suddetti elementi di prova, il che non è possibile fare i sede di legittimità.
Del tutto generica e, perciò, anch’essa non consentita è, poi, la doglianza secondo cui la Corte d’appello di Catania non avrebbe valorizzato «a sufficienza» il contenuto dell’intercettazione progressivo n. 4640 delle ore 09:44 del 09/05/2017, atteso che il ricorrente ha del tutto omesso sia di indicare quale sarebbe stato il contenuto di tale intercettata conversazione sia di spiegare perché, come sostiene, dallo stesso contenuto si sarebbe desunto «come l’organizzatore sia persona del tutto diversa da COGNOME NOME».
1.3. Il terzo motivo non è consentito in quanto aspecifico ed è, comunque, manifestamente infondato.
La Corte d’appello di Catania, alle pagine da 21 a 25 della sentenza impugnata, ha diffusamente e partitamente esposto il compendio probatorio che ha ritenuto comprovare la responsabilità del COGNOME per ciascuno dei cinque delitti di estorsione di cui ai capi da 2 a 6 dell’imputazione.
I valorizzati elementi probatori sono costituiti, in particolare, dal dichiarazioni delle persone offese (i commercianti o imprenditori NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) e dal contenuto di alcune intercettate conversazioni telefoniche.
Da tali elementi era emerso che i suddetti commercianl:i o imprenditori, in quanto tutti ben a conoscenza dell’appartenenza del COGNOME e dei suoi complici al clan dei “RAGIONE_SOCIALE” o clan “RAGIONE_SOCIALE“, anche in assenza di «atti intimidatori violenti» da parte dello stesso COGNOME e dei suoi complici, ne avevano assecondato o, per meglio dire, ne avevano subito le richieste di denaro o il mancato pagamento della merce che avevano fornito in quanto ne temevano le possibili reazioni qualora, appunto, non si fossero piegati alle lioro richieste.
Orbene, come già nel proprio atto di appello (nel quale, come è stato evidenziato dalla Corte d’appello di Catania, il COGNOME aveva contestato l’affermazione della propria responsabilità per i delitti di estorsione i considerazione «senza esaminare il compendio probatorio a sostegno di ogni singolo episodio»), il ricorrente ha articolato il motivo di ricorso in modo del tutt generico, atteso che non ha formulato alcuna specifica censura alla motivazione della sentenza impugnata riguardante i singoli episodi estorsivi che sono stati a lui attribuiti.
Per tale ragione, il motivo si deve ritenere, anzitutto, non consentito.
In ogni modo, in punto di diritto, si deve rammentare che, in tema di estorsione, ai fini della configurabilità del reato, sono indifferenti la forma o il mo della minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata o indeterminata
purché comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo. La connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità a integrare l’elemento strutturale del delitto di estorsione vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittim vista come persona di normale impressionabilità, a nulla rilevando che si verifichi un’effettiva intimidazione del soggetto passivo (Sez. 6, n. 3298 del 26/01/1999, COGNOME, Rv. 212945-01).
Sempre in tema di estorsione, è configurabile l’aggravante del metodo mafioso anche a fronte di un messaggio intimidatorio “silente”, in quanto privo di un’esplicita richiesta, nel caso in cui la consorteria abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti violenti o minacciosi (Sez. 2, n. 51324 del 18/10/2023, Rizzo, Rv. 285669-01; Sez. 3, n. 44298 del 18/06/2019, COGNOME Caprio, Rv. 277182-01).
Ai fini della configurabilità della stessa aggravante dell’utilizzazione del metodo mafioso, inoltre, è sufficiente – in un territorio in cui è radica un’organizzazione mafiosa storica – che il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta o implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività (Sez. 2, n. 29245 del 30/03/2017, Paiano, Rv. 269938-01).
Ancora, sempre a proposito del delitto di estorsione, la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso non è esclusa dal fatto che la vittima delle minacce abbia assunto un atteggiamento “dialettico” rispetto alle ingiuste richieste, ciò non determinando il venir meno della portata intimidatoria delle stesse (Sez. 2, n. 6683 del 12/01/2023, Bloise, Rv. 284392-01).
Anche alla luce di tali principi, affermati dalla Corte di cassazione e pienamente condivisi dal Collegio, e considerato il già censurato e assorbente difetto di specificità del motivo, con riguardo alle censure che sono state (genericamente) formulate dal ricorrente, si reputa comunque di osservare che: a) contrariamente a quanto è stato sostenuto dal COGNOME, l’assenza di «atti intimidatori violenti» non esclude affatto la sussistenza del reato di estorsione, aggravato dal metodo mafioso, per integrare il quale reato circostanziato è senz’altro sufficiente che la vittima, conoscendo l’estorsore e il clan al quale egli appartiene, percepisca la carica intimidatoria che proviene dalla richiesta che gli viene rivolta, ancorché essa non presenti, formalmente, un contenuto minatorio, per essere implicita, ma del tutto chiara, la possibilità delle reazioni (esse sì violente) che potrebbero conseguire nel caso in cui la stessa richiesta non fosse
assecondata; b) la tesi del ricorrente secondo cui le corresponsioni, da parte delle persone offese, di denaro o altri beni «possono (anche) essere attribuite a rapporti del tutto legittimi o comunque non estorsivi», in ragione anche del «vincolo di amicizia/parentela» con le stesse persone offese, risulta palesemente smentita dagli elementi probatori che sono stati esposti dalla Corte d’appello di Catania alle pagine da 21 a 25 della sentenza impugnata (la genericità del motivo consente di citare solo i seguenti eloquenti esempi: in ordine al capo 2, le frasi rivolte da COGNOME alla persona offesa NOME COGNOME «ti devi andare a cercare un amico», «l’hai trovato l’amico?» e la dichiarazione dello stesso COGNOME di avere pagato perché «questo mi avrebbe garantito la serenità aziendale»; in ordine al capo 3, la dichiarazione della persona offesa NOME COGNOME «ho preferito dargli i soldi pur di stare in pace»; in ordine al capo 4, frasi dette dalla persona offesa NOME COGNOME alla propria fidanzata «qua abbiamo avuto un poco di fastidi… dice… “Come ogni anno dobbiamo raccogliere un poco di soldi”… bastardi, tutti figli di puttana… gli ho dato 200 euro quasi se è andato seccato… gli devo dare i miei soldi… qua non sei protetto… qua ti sono mancate macchine»; c) diversamente da quanto è stato sostenuto dal ricorrente, dagli stessi elementi probatori che sono stati esposti dalla Corte d’appello di Catania alle pagine da 21 a 25 della sentenza impugnata – i quali, si sottolinea ancora una volta, non sono stati specificamente contestati – risulta la dazione di denaro al COGNOME da parte delle persone offese (lo si è visto, ad esempio, in relazione, tra gli altri, al capo 4, essendosi riportata l’esplicita frase della pers offesa NOME COGNOME: «gli ho dato 200 euro»).
Il motivo risulta, pertanto, in ogni caso, manifestamente infondato.
1.4. Il quarto motivo non è consentito in quanto aspecifico e rivalutativo.
Il compendio probatorio a carico dell’imputato risulta costituito dal contenuto di intercettate conversazioni telefoniche e, con riguardo al real:o di cui al capo 11) dell’imputazione, anche dalle immagini riprese dalle telecamere che erano state installate dalla polizia giudiziaria nei luoghi in cui si sarebbe svolta l’attivi spaccio della sostanza stupefacente.
Pertanto, posto che è solo con riguardo al reato di cui al capo 13) dell’imputazione che si può discorrere di droga esclusivamente “parlata”, a quest’ultimo proposito – che appare quindi rilevante con riguardo al suddetto reato di cui al capo 13) – si deve ribadire che, in tema di stupefacenti, qualora gli indiz a carico di un soggetto consistano in mere dichiarazioni captate nel corso di operazioni di intercettazione senza che sia operato il sequestro della sostanza stupefacente (la cosiddetta “droga parlata”), la loro valutazione, ai sensi dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., deve essere compiuta dal giudice con particolare attenzione e rigore e, ove siano prospettate più ipotesi ricostruttive del fatto, l
scelta che conduce alla condanna dell’imputato deve essere fondata in ogni caso su un dato probatorio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, caratterizzato da un alto grado di credibilità razionale, con esclusione soltanto delle eventualità più remote (Sez. 6, n. 27434 del 14/02/2017, Albano, Rv. 270299-01):
Sempre a proposito di “droga parlata”, la Corte di cassazione ha altresì affermato che, qualora gli elementi a carico di un soggetto consistano in mere dichiarazioni captate nel corso di operazioni di intercettazione ma prive di riscontri oggettivi, la loro valutazione deve essere compiuta dal giudice con particolare attenzione e rigore, in considerazione del limitato compendio probatorio (Sez. 3, n. 16792 del 25/03/2015, COGNOME Bello, Rv. 263356-01).
Richiamati tali principi, si deve anzitutto osservare come la Corte d’appello di Catania abbia adeguatamente motivato in ordine al carattere inequivoco del contenuto delle conversazioni intercettate (alcune delle quali sono state da essa riportate alle pagg. 27-29 della sentenza impugnata e, quanto al reato di cui al capo 13 dell’imputazione, anche alla pag. 38 della stessa sentenza), nel senso che, in esse, si faceva riferimento a sostanze stupefacenti, alla loro qualità, al loro prezzo e al loro confezionamento in dosi, nonché in ordine al fatto che l’interpretazione delle stesse conversazioni era stata «il più delle volte letterale».
La stessa Corte d’appello risulta perciò avere senz’altro valutato le dichiarazioni che erano state captate nel corso delle operazioni di intercettazione con l’attenzione e il rigore che sono richiesti dalla giurisprudenza della Corte di cassazione sul tema della cosiddetta “droga parlata”.
A fronte di ciò, il ricorrente si è limitato a contestare genericamente l’interpretazione delle conversazioni intercettate – dalle quali risultavano: a quanto al capo 11) dell’imputazione, la detenzione, da parte del COGNOME, di un consistente quantitativo di marijuana, in parte venduta a terzi e in parte destinata allo spaccio al minuto (affidato, come si è detto, a NOME COGNOME e ad NOME COGNOME); b) quanto al capo 13) dell’imputazione, l’avvenuta importazione, dall’Albania, di sostanza stupefacente sempre del tipo marijuana -, senza indicare alcuno specifico contenuto delle stesse conversazioni e senza prospettare alcuna plausibile diversa ipotesi ricostruttiva dei fatti.
A ciò si aggiunga che, nel caso del reato di cui al capo 11) dell’imputazione, le risultanze delle intercettazioni telefoniche erano suffragate dal contenuto delle immagini delle telecamere che erano state installate dalla polizia giudiziaria nei luoghi di svolgimento dell’attività di spaccio. A tale proposito, le censure del ricorrente – che si appuntano, principalmente, sui due episodi del “borsone rosso” e dell -annotazione degli esiti dell’attività di spaccio” dei quali si è detto alle pagg. 7-8 -, più che prospettare dei vizi rilevanti ex art. 606, comma 1, cod. proc. pen., appaiono sostanzialmente dirette a sollecitare una differente valutazione del
significato probatorio da attribuire agli stessi episodi, il che non è possibile fare sede di legittimità.
Quanto al reato di cui al capo 13) dell’imputazione, gli esiti delle intercettazioni, dalle quali risultavano messaggi relativi al pagamento di un già effettuato carico di sostanza stupefacente (per il quale pagamento, tale NOME COGNOME era stato addirittura lasciato in Albania “in garanzia”), era stato altresì suffragato dalle informazioni che erano state fornite dalla polizia dell’Albania in ordine alla natura dei rapporti intrattenuti con trafficanti di droga di quel Paese.
2. Il ricorso di NOME COGNOME.
L’unico motivo non è consentito.
Il G.u.p. del Tribunale di Catania aveva irrogato ad NOME COGNOME, per i reati a lui attribuiti, unificati dal vincolo della continuazione, di associazi finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di cui al capo 10) dell’imputazione e di traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti di cui al capo 1 dell’imputazione, la pena di 6 anni e 4 mesi di reclusione, così determinata: pena base per il più grave reato di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti 10 anni di reclusione; aumentata di un terzo per la ritenuta circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. e, quindi, a 13 anni e 4 mesi di reclusione; ridotta di un terzo per le riconosciute circostanze attenuanti generiche e, quindi, a 8 anni, 10 mesi e 20 giorni di reclusione; aumentata per la continuazione con il meno grave reato di traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti a 9 anni e 6 mesi di reclusione; ridotta, per la scelta del rit abbreviato, come si è detto, a 6 anni e 4 mesi di reclusione.
Con il proprio atto di appello, il COGNOME aveva chiesto: a) l’esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.; b) il «mitigamento» della pena che gli era stata inflitta, «in considerazione anche della spontanea confessione resa dall’odierno imputato, nonché dalla sua giovane età, ancor più giovane all’epoca dei fatti in contestazione; in considerazione della tipologia della droga da lui trattata (droga leggera)».
La Corte d’appello di Catania, in accoglimento dell’appello dell’imputato, esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., riduceva la pena irrogata al COGNOME a 4 anni, 7 mesi e 10 giorni di reclusione, così determinata: pena base per il più grave reato di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti 10 anni di reclusione; ridotta di un terzo per le già riconosciute circostanze attenuanti generiche e, quindi, a 6 anni e 8 mesi di reclusione; aumentata per la continuazione con il meno grave reato di traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti a 6 anni e 11 mesi di reclusione; ridotta, per la scelta del rito abbreviato, come si è detto, a 4 anni, 7 mesi e 10 giorni di reclusione.
Pertanto, la Corte d’appello di Catania ha ridotto l’aumento per la continuazione con il meno grave reato di cui al capo 11) dell’imputazione da 7 mesi e 10 giorni di reclusione, che erano stati irrogati dal G.u.p. del Tribunale di Catania, a 3 mesi di reclusione.
Ne discende che, poiché la stessa Corte d’appello di Catania ha operato tale sensibile riduzione (di più della metà) proprio in accoglimento dell’appello dell’imputato – e, quindi, si deve ritenere, in considerazione, oltre che dell’esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., anche degli altri elementi che erano stati addotti dal COGNOME – questi non si può dolere in questa sede dell’aumento di pena che il giudice di merito ha discrezionalmente rideterminato proprio in accoglimento dellle sue doglianze e tenendo conto dei suddetti elementi da lui addotti.
3. Il ricorso di NOME COGNOME.
3.1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
La Corte d’appello di Catania ha basato la conferma dell’affermazione di responsabilità del COGNOME per il reato di estorsione pluriaggravata ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 7) dell’imputazione sugli elementi di prova costituiti dal contenuto: a) dell’intercettata conversazione delle ore 20:42 del 27/05/2017 tra il COGNOME e la persona offesa NOME COGNOME; b) delle dichiarazioni che erano state rese dallo stesso NOME COGNOME.
Quanto alla menzionata conversazione del 27/05/2017, il cui contenuto è testualmente riportato alle pagg. 54-55 della sentenza impugnata, da essa risultava come il COGNOME avesse chiarito all’COGNOME che non si poteva sottrarre al pagamento del “pizzo” che gli era stato imposto, anche perché il COGNOME ne doveva rendere conto al clan (il gruppo di “RAGIONE_SOCIALE“).
Quanto alle dichiarazioni dell’COGNOME, questi aveva riferito che quattro anni prima, cioè nel 2013, il COGNOME si era presentato presso il suo locale (una pizzeria situata in COGNOME) e, facendo riferimento alla comune conoscenza con NOME COGNOME – con il quale, oltre che con NOME COGNOME, l’COGNOME, dieci anni prima, aveva instaurato un “rapporto di protezione” -, gli aveva chiesto elargizioni in denaro, due volte l’anno, che egli aveva accettato di effettuare per un importo di circa 700,00/800,00 euro l’anno.
La Corte d’appello di Catania ha ravvisato la natura estorsiva di tale richiesta di denaro in quanto essa si fondava tacitamente sul richiamo alla caratura criminale mafiosa del COGNOME e del COGNOME, ai quali il COGNOME, nell’avanzare la stessa richiesta, aveva fatto riferimento come a degli amici, sottolineando anche come l’insofferenza che, nel corso della menzionata conversazione telefonica, era stata manifestata dall’COGNOME, non mettesse comunque in discussione la sua soggezione nei confronti del COGNOME NOME (come era comprovato dalla frase, che era
stata rivolta dalla persona offesa al COGNOME, «se ti sto dicendo una parola in più scusami»).
Tale motivazione della natura estorsiva della condotta dell’imputato risulta del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, e resist agevolmente alle doglianze del ricorrente, in ordine alla cui manifesta infondatezza si deve osservare che: a) il fatto che il COGNOME avesse avanzato la propria richiesta di denaro richiamando la caratura criminale mafiosa del COGNOME e del COGNOME – ciò che integrava, di per sé, all’evidenza, una condotta implicitamente ma chiaramente minacciosa – non significa che costoro avessero necessariamente avuto un effettivo ruolo nell’estorsione, circostanza, questa, che, come è stato del tutto logicamente affermato dalla Corte d’appello di Catania, era rimasta ignota; b) diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, la Corte d’appello di Catania non ha affatto «individua nella condotta dei due soggetti, COGNOME e COGNOME, non imputati del fatto, la formulazione di una implicita minaccia derivante dal loro status di appartenenti ad una consorteria mafiosa», ma ha affermato – che è cosa evidentemente ben diversa – che il COGNOME, nel formulare la propria richiesta, aveva fatto riferimento al COGNOME, senza tuttavia attribuire a quest’ultimo (né al COGNOME) alcuna «condotta».
3.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Con il proprio atto di appello, il ricorrente aveva chiesto alla Corte d’appello di Catania di riconoscere la medesimezza del disegno criminoso tra i due reati di traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti di cui ai capi 13) e 19 dell’imputazione (i quali erano stati ritenuti tra loro unificati dal vincolo d continuazione dal G.u.p. del Tribunale di Catania) e il reato di estorsione di cui al capo 7) dell’imputazione; medesimezza, questa, che era stata invece esclusa dal G.u.p.
Tale richiesta era stata avanzata dal ricorrente sul fondamento del fatto che tutti e tre i suddetti reati avrebbero costituito dei reati-fine del reat partecipazione a un’associazione di tipo mafioso del quale il COGNOME era stato accusato nell’ambito di un altro procedimento penale.
Tale essendo il fondamento della richiesta del COGNOME, risulta sostanzialmente pienamente corretta la decisione della Corte d’appello di Catania la quale, senza escludere la sussistenza della continuazione tra i tre reati nei termini in cui essa era stata invocata dall’imputato, ha esattamente rilevato di non potere tuttavia allo stato riconoscerla, in quanto il reato di partecipazione a un’associazione di tipo mafioso, che della suddetta richiesta costituiva il presupposto, era tutt’ora sub iudice, non essendo ancora intervenuta una sentenza irrevocabile (la quale, perciò, non era stata neppure prodotta dall’imputato).
Ciò ferma restando la possibilità, che è stata anch’essa correttamente affermata dalla Corte d’appello di Catania, di richiedere l’applicazione della disciplina del reato continuato in sede di esecuzione, in quanto tale applicazione non era stata esclusa dalla stessa Corte d’appello.
4. Il ricorso di NOME COGNOME.
4.1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno da tempo chiarito che, ai fini della preclusione che è connessa al principio ne bis in idem, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799-01).
È stato altresì precisato che l’operatività del divieto di un secondo giudizio, previsto dall’art. 649 cod. proc. pen., non è preclusa dalla configurazione di circostanze aggravanti non costituenti oggetto del precedente processo, in quanto la valutazione sull’identità del fatto deve essere compiuta unicamente con riferimento all’elemento materiale del reato nelle sue componenti essenziali relative alla condotta, all’evento e al relativo nesso causale (Sez. 1, n. 42630 del 27/04/2022, COGNOME, Rv. 283687-01).
Richiamati tali principi, si deve reputare che correttamente la Corte d’appello di Catania, come già il G.u.p. del Tribunale di Catania, abbia escluso che il presente procedimento penale avesse a oggetto lo stesso fatto per il quale al COGNOME, con la sentenza n. 230/18 del 05/03/2018 del G.i.p. del Tribunale di Catania, divenuta irrevocabile il 25/03/2018, era stata applicata la pena su richiesta.
La Corte d’appello di Catania ha constatato che, mentre quest’ultima sentenza aveva riguardato uno specifico episodio di detenzione a fini di spaccio di complessivi gr. 278 di marijuana e hashish, il quale era stato accertato in esito alla perquisizione domiciliare che era stata effettuata il 22/11/2017 al fine di ricercare dei riscontri dell’attività di spaccio che era oggel:to di indagini n presente procedimento, in questo procedimento erano invece contestati all’imputato (al capo 19 dell’imputazione) plurimi episodi di detenzione a fini di spaccio e di cessione di sostanza stupefacente tra i quali non era compreso il suddetto episodio che era stato accertato il 22/11/2017.
Ne consegue la non medesimezza, ai sensi dell’art. 649 cod. proc. pen., dei fatti che sono stati perseguiti nei due giudizi, atteso che, come è stato constatato dalla Corte d’appello di Catania, i suddetti fatti non corrispondono affatto tra loro sul piano storico-naturalistico, sicché, pertanto, del tutto correttamente la Corte d’appello di Catania ha escluso che il processo del quale era investita costituisse
un’inammissibile duplicazione, in violazione del divieto di bis in idem, di quello che era stato definito con la precedente sentenza di “patteggiamento” del 05/03/2018.
4.2. Il secondo motivo è fondato.
Con il terzo motivo del proprio atto di appello, il COGNOME, nel chiedere un’attenuazione del trattamento sanzionatorio che gli era stato inflitto dal G.u.p. del Tribunale di Catania, aveva altresì richiesto l’applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena, al quale avrebbe potuto accedere in conseguenza della rideterminazione in melius della stessa.
In accoglimento del motivo di appello dell’imputato, la Corte d’appello di Catania ha ridotto la pena irrogata al COGNOME – per i reati, unificati dal vincol della continuazione, di cui al capo 19) dell’imputazione e di cui alla già ricordata sentenza del 05/03/2018 del G.i.p. del Tribunale di Catania – a due anni di reclusione ed C 3.600,00 di multa, determinando, pertanto, tale pena, entro il limite oggettivo che è previsto dall’art. 163 cod. pen.
Ciò nonostante, la stessa Corte d’appello di Catania ha omesso qualsiasi motivazione, neppure implicita, in ordine alla specifica richiesta, che era stata avanzata dal COGNOME nel proprio atto di appello, di ammissione alla sospensione condizionale della pena.
Da ciò discende l’annullamento della sentenza impugnata relativamente al punto che ha omesso di motivare in ordine alla richiesta di riconoscimento della sospensione condizionale della pena.
Ciò posto, il Collegio ritiene di aderire all’indirizzo giurisprudenzial maggioritario della Corte di cassazione secondo il quale l’omessa pronuncia, da parte della Corte d’appello, sulla richiesta di concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena determina l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio (e non già, come ritenuto da altro orientamento, anche senza rinvio, qualora tale opzione sia praticabile nel caso concreto), non potendo la Corte di cassazione operare una valutazione che coinvolga questioni di merito, anche con riferimento al giudizio prognostico di cui all’art. 164 cod. pen. (per tutte: Sez. 4, n. 465 del 14/10/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282562; Sez. 4, n. 3746 del 21/01/2020, COGNOME, Rv. 278285; Sez. 3, n. 35989 del 10/01/2017, COGNOME, Rv. 270829).
4.3. Il terzo motivo è fondato.
Con il terzo motivo del proprio atto di appello, il COGNOME aveva chiesto anche il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, atteso che esse gli erano state già concesse con la più volte ricordata sentenza del 05/03/2018 del G.i.p. del Tribunale di Catania, e per le medesime ragioni che avevano costituito il fondamento di tale concessione, segnatamente, «incensuratezza, resipiscenza, collaborazione».
•
Ciò nonostante, la Corte d’appello di Catania ha omesso qualsiasi motivazione, neppure implicita, in ordine a tale specifica richiesta, che era stata avanzata dal COGNOME nel proprio atto di appello, di riconoscimento delle invocate circostanze attenuanti generiche.
Da ciò discende l’annullamento della sentenza impugnata anche relativamente al punto che ha omesso di motivare in ordine a tale richiesta, con rinvio a un’altra sezione della Corte d’appello di Catania per un nuovo giudizio anche su tale punto.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di NOME COGNOME limitatamente alla sospensione condizionale della pena e alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio a un’altra sezione della Corte d’appello di Catania per un nuovo giudizio su tali due punti. Il ricorso del COGNOME deve essere dichiarato inammissibile nel resto e, ai sensi dell’art. 624, comma 2, cod. proc. pen., nel dispositivo, deve essere dichiarata l’irrevocabilità dell’affermazione della sua responsabilità.
I ricorsi di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME devono essere dichiarati inammissibili, con la conseguente condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di € 3.000,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME limitatamente alla sospensione condizionale della pena e alle attenuanti generiche con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catania per nuovo giudizio su detti punti. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso del COGNOME e definitivo giudizio di responsabilità. Dichiara inammissibili i ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 31/05/2024.