Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 22279 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 22279 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 06/03/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
COGNOME NOME, nato a Reggio Calabria il DATA_NASCITA
NOME, nato a Reggio Calabria il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 15/03/2023 della Corte di appello di Peggio Calabria;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udite le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del AVV_NOTAIO generale AVV_NOTAIO, che ha chiesto l’annullamento con rinvio per COGNOME ed il rigetto del ricorso per COGNOME;
udito i seguenti difensori, nell’interesse dei ricorrenti per ognuno indicati, che hanno chiesto l’accoglimento dei rispettivi ricorsi: AVV_NOTAIO per COGNOME; AVV_NOTAIO e NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Reggio Calabria ha confermato – per quanto qui d’interesse – la condanna di NOME COGNOME e NOME COGNOME per il delitto di partecipazione all’associazione di tipo mafioso denominata “RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE“, nelle fila della sua articolazione indicata come “RAGIONE_SOCIALE“, operante in alcuni quartieri di quella città.
Entrambi, con atti dei rispettivi difensori, impugnano tale decisione.
COGNOME lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al giudizio di responsabilità nei suoi confronti.
Questo si fonderebbe, infatti, soltanto sulle conversazioni da lui intrattenute con il maresciallo dei Carabinieri che comandava la stazione del quartiere cittadino di riferimento, nel corso delle quali egli ha fornito numerose informazioni su singoli episodi delittuosi, sugli aderenti alle varie cosche e sui confini dei rispettivi territor di competenza.
Tanto non basta, tuttavia, ad avviso della difesa, per ritenere dimostrato l’esercizio, da parte del ricorrente, di quel ruolo consapevolmente attivo ai fini dell’operatività e del rafforzamento del sodalizio criminale e riconosciuto come tale dagli altri aderenti, necessario per potersi ravvisare una partecipazione allo stesso.
Si obietta, in proposito: a) che le informazioni veicolate al maresciallo sono state ritenute significative da entrambe le sentenze di merito; b) che, dunque, la volontà di prestare ausilio alla consorteria è inconciliabile con quella, dimostrata mediante tali confidenze, di aiutare le forze di polizia che la combattono, perciò difettando quanto meno il dolo di partecipazione; c) che dette notizie potevano essere conosciute pure da soggetti semplicemente contigui alla RAGIONE_SOCIALE od essere state apprese anche soltanto de relato dal ricorrente, per effetto di suoi contatti con singoli esponenti, come pure potevano derivare da voci correnti in quel contesto, interessato in passato da processi e da sentenze molto noti; d) che le associazioni mafiose non consentono rapporti tra affiliati e forze dell’ordine, mentre emerge dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia in atti che fosse noto, tra gli aderenti al sodalizio, che COGNOME fosse un confidente di polizia; e) che, secondo la stessa Corte d’appello, le conversazioni intercettate, diverse da quelle col maresciallo, non dimostrano un apporto causale dell’imputato ad attività della RAGIONE_SOCIALE, ma semmai un suo generico inserimento nei circuiti criminali della zona.
Tali argomenti sono stati ribaditi e sviluppati con una memoria trasmessa in cancelleria, in cui si osserva ulteriormente: che le organizzazioni mafiose hanno interesse a veicolare informazioni ai soggetti ad esse non aderenti ma comunque contigui, per coltivare tale rapporto nonché accrescere la loro forza intimidatrice all’esterno; che il ricorrente aveva necessità di autoreferenziarsi presso il maresciallo dei carabinieri come partecipe del sodalizio, affinché potesse risultare credibile; che, infine, la sentenza impugnata dapprima giudica le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia generiche ed errate, ma poi illogicamente le annovera tra gli elementi dimostrativi dell’accusa.
Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME consta di tre motivi.
3.1. Il primo, seppur denuncia violazione di legge penale e processuale, in realtà lamenta essenzialmente un vizio d’illogicità della motivazione, che risiederebbe nella ritenuta colpevolezza dei soli COGNOME e COGNOME e nell’assoluzione per non aver commesso il fatto di tutti coloro che – secondo l’accusa ed il primo giudice – sarebbero stati i componenti del gruppo, con specifici ruoli e funzioni.
Peraltro, in ragione di tanto, sarebbe venuto meno il requisito del numero minimo di componenti necessario per la configurazione dell’associazione, insignificante essendo, in proposito, il riferimento contenuto in sentenza ad una pronuncia di legittimità che aveva definito un precedente processo nei confronti di aderenti alla stessa “RAGIONE_SOCIALE“, secondo la quale rileverebbe la partecipazione all’associazione mafiosa nel suo complesso e non a singole articolazioni di essa.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta ancora un vizio logico della motivazione, richiamandosi le valutazioni di genericità ed inconcludenza rassegnate dalla sentenza impugnata riguardo alle dichiarazioni dei collaboratori ed alle conversazioni intercettate, anche con riferimento alle posizioni degli ipotizzati partecipi del gruppo invece mandati assolti, ed evidenziandosi l’insufficienza dell’unico dato valorizzato in sentenza: una conversazione, cioè, tra COGNOME ed il maresciallo, in cui, parlando di una vicenda estorsiva, il primo afferma che “NOME” è «sempre (…) questo qua è che gestisce per adesso (…) lui è, diciamo, affermativo», ovvero colui che avrebbe potere decisionale e di controllo.
Rileva la difesa come si tratti di un unico elemento indiziante, costituito da «mezze frasi», incapaci di dimostrare che gli interlocutori parlassero effettivamente del COGNOME e, in tale ipotesi, quale sarebbe stato il suo ruolo nell’àmbito di tale vicenda estorsiva: un dato probatorio, dunque, isolato, che illogicamente – si sostiene – è stato reputato prevalente sulle numerosissime conversazioni intercettate, nelle quali, invece, i riferimenti a COGNOME ed alle sue condotte sono plurimi e palesi e, ciò nonostante, sono stati ritenuti dalla stessa Corte d’appello non concludenti ai fini della dimostrazione di una sua condotta partecipativa.
Né possono ritenersi decisivi gli acritici riferimenti contenuti in sentenza al precedente specifico del COGNOME ed all’attentato da lui subito nel 2008, peraltro evocati anche da alcuni collaboranti, i quali, ciò nonostante, non sono stati ritenuti portatori di un valido contributo dimostrativo.
3.3. Il terzo motivo denuncia l’assenza di motivazione in ordine al ruolo apicale riconosciuto al ricorrente, a maggior ragione necessaria, invece, alla luce
delle plurime assoluzioni intervenute in appello, che avrebbero reso necessaria una complessiva rivisitazione della struttura del gruppo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Prima di esaminare in dettaglio i ricorsi, è utile rammentare due princìpi, che rilevano ai fini della decisione e che costituiscono ormai ius receptum.
1.1. Il primo attiene al rito e riguarda l’àmbito di cognizione della Corte di cassazione.
Il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, attraverso una diversa lettura, benché anch’essa logica, dei dati processuali od una diversa ricostruzione storica dei fatti o, ancora, un diverso giudizio di rilevanza o di attendibilità delle fonti d prova, bensì quello di stabilire se quei giudici abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (per tutte: Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944; Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, Clarke, Rv. 203428). Peraltro, l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., è soltanto quella manifesta, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu ocu/i, senza possibilità, per la Corte di cassazione, di verificare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, COGNOME, Rv. 226074).
1.2. Il secondo principio è invece di natura sostanziale e riguarda la condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso: il cui dato qualificante è rappresentato dallo stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione, idoneo, per le specifiche caratteristiche del caso concreto, ad attestare la sua “messa a disposizione” in favore del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi (così Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, Modaffari, Rv. 281889, in sintonia con quanto peraltro già statuito dalle stesse Sezioni unite con le precedenti sentenze n. 16 del 05/10/1994, COGNOME, Rv. 199386, e n. 30 del 27/09/1995, Mannino, Rv. 202904).
Venendo, allora, a trattare dell’impugnazione di COGNOME, il compito di questa Corte è quello di verificare se il dato probatorio essenzialmente valorizzato dai giudici d’appello, vale a dire il contenuto dei dialoghi intercettati tra lui ed
maresciallo COGNOME, sia rappresentativo sul piano logico, al di là del dubbio ragionevole, del suo stabile inserimento nei ranghi della “RAGIONE_SOCIALE“.
Sul punto, una prima osservazione – per così dire – di ordine generale s’impone: ovvero che, come puntualmente segnalato dal ricorso, la Corte d’appello ha significativamente sfrondato il quadro probatorio da plurimi elementi invece considerati significativi dal giudice di primo grado. Non può non rilevarsi, tuttavia, che tale materiale istruttorio è stato svalutato solamente perché non ritenuto sufficientemente concludente rispetto all’ipotesi accusatoria, ma non già perché in contrasto con quest’ultima.
Precisato, dunque, che non si rinvengono in atti prove inconciliabili con la intraneità del COGNOME al sodalizio mafioso, concordemente ritenuta dai giudici di merito, ritiene la Corte che la valenza decisiva attribuita dalla sentenza impugnata alle sue conversazioni con il carabiniere COGNOME non si presenti manifestamente illogica, perciò resistendo alle censure difensive.
Sebbene, infatti, non siano ex ipsis rappresentative di un contributo attivo del ricorrente all’attività del sodalizio, tuttavia quelle conversazioni si presentano estremamente circostanziate e dimostrano, in modo nitido e sostanzialmente indiscusso, una compiuta conoscenza degli assetti mafiosi del luogo da parte del COGNOME; il quale, peraltro, si qualifica espressamente come appartenente alla RAGIONE_SOCIALE, nel momento in cui precisa al suo interlocutore che il territorio in cui era avvenuto un dato fatto criminoso «non c’entra niente con noi /à» (pag. 36, sent.).
L’obiezione difensiva per cui le informazioni in suo possesso potessero derivare da fonti indirette o da voci correnti è nulla più di una pura ipotesi, in quanto non sorretta da alcun elemento di prova. Così come non può dirsi dimostrato – come invece vorrebbe la difesa ricorrente – che egli fosse noto agli appartenenti al sodalizio come un confidente dei carabinieri, emergendo dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, al limite, dei semplici sospetti in t senso (pagg. 157 s., sent.), senza che, peraltro, nessuno di costoro ne abbia comunque escluso la partecipazione alla consorteria.
In realtà, ad offrire un robusto e decisivo sostegno logico alla valutazione in chiave accusatoria dei dialoghi tra COGNOME e COGNOME compiuta dalla Corte d’appello, è un ulteriore dato di fatto da essa posto in risalto e non confutato dal ricorso. Si tratta, cioè, della vicenda che aveva visto coinvolto il genero del COGNOME, tale NOME COGNOME, resosi inadempiente nella fornitura di merci ad un esercizio commerciale della zona, gestito da persone appartenenti ad altra famiglia di “RAGIONE_SOCIALE“: le quali, non appena avevano appreso di tale parentela, avevano dismesso ogni proposito minaccioso, ritenendo risolta la questione («siete il padrone qua, fai quello che vuoi, salutami a NOME, gli devi dire che è tutto a posto», risulta aver detto una di quelle al COGNOME). È del tutto ragionevole
concludere, dunque, come fa la Corte d’appello, che tale vicenda dimostri la qualità di partecipe del COGNOME alle locali compagini di “RAGIONE_SOCIALE” nonché il suo riconoscimento come tale da parte di altri aderenti (vds. pagg. 79-81 e 160, sent.).
Infine, non più che suggestiva si presenta la deduzione difensiva della inconciliabilità di un’affectio societatis con la rivelazione ai carabinieri di confidenze sugli affari interni alle cosche.
Ad una lettura attenta di quei dialoghi, infatti, così come testualmente riportati nella loro sentenza dai giudici d’appello, si coglie con evidenza come le informazioni veicolate da COGNOME COGNOME m.11o COGNOME riguardassero esclusivamente episodi delittuosi isolati e, per la totalità o quasi, da lui addebitati alla cosc avversaria alla propria su quel territorio: ragione per cui l’addotta antinomia d’intenti, se non addirittura esclusa, comunque non può tenersi per dimostrata, dovendo perciò ribadirsi la tenuta logica del ragionamento della Corte territoriale.
Il ricorso di COGNOME, in conclusione, si presenta complessivamente infondato e dev’essere, perciò, respinto.
Egualmente dicasi per quello proposto nell’interesse di COGNOME.
4.1. Più specificamente, il primo motivo, secondo cui mancherebbe il numero minimo legale di tre unità per la configurabilità del delitto associativo, si presenta generico in fatto ed infondato in diritto.
In fatto, invero, la sentenza impugnata ha rilevato come, in separato procedimento conclusosi con statuizione definitiva sul punto, sia stata accertata la partecipazione di altre persone alla “RAGIONE_SOCIALE“: ed il ricorso si limita a bollare come «priva di significato» tale osservazione, senza tuttavia spiegare perché debba reputarsi tale.
In diritto, poi, qualora si tratti di organizzazioni composte di varie articolazioni su base territoriale, tutte, però, legate da vincoli di solidarietà e dall’osservanza di regole e gerarchie condivise, e perciò operanti in modo sinergico (come di regola accade per le cc.dd. “mafie storiche”), il numero minimo legale di partecipanti all’associazione va riferito non alla singola RAGIONE_SOCIALE, bensì all’organizzazione mafiosa nel suo complesso.
4.2. Il secondo motivo, con cui si contesta la motivazione del giudizio di colpevolezza, non è fondato.
Nella parte in cui revoca in dubbio il significato attribuito dai giudici di merito alla conversazione in cui COGNOME rende noto a COGNOME che “NOME è affermativo”, il ricorso pone una questione di puro merito, che – per quanto s’è detto nel paragrafo iniziale – non può interessare il giudice di legittimità.
Per il resto, le obiezioni difensive non minano la tenuta logica della motivazione, ove si considerino la concludenza intrinseca degli elementi di fatto
ivi valorizzati a sostegno di quella informazione qualificata e la convergenza dei medesimi verso la perdurante militanza mafiosa del COGNOME: ovvero la sua precedente condanna definitiva per partecipazione alla “RAGIONE_SOCIALE“, accertata fino al 2003, ed il grave attentato con modalità tipicamente mafiose da lui subìto nell’ottobre 2008.
Nell’assenza, infatti, di elementi probatori di segno confliggente, il ragionamento della Corte d’appello, fondato su quei risultati probatori, può reputarsi sufficiente a superare il dubbio ragionevole sulla colpevolezza del ricorrente.
4.3. Infondato, infine, è anche il terzo motivo, riguardante l’assenza di motivazione sulla ritenuta aggravante del ruolo dirigenziale.
Vero è che la sentenza non si sofferma in dettaglio su tale circostanza; va però rilevato, per converso, che la motivazione della partecipazione del COGNOME alla RAGIONE_SOCIALE è tutta costruita sul suo ruolo apicale, che dunque viene indirettamente ma debitamente motivato, sebbene non all’interno di un passaggio della sentenza specificamente dedicato all’esame della relativa aggravante.
Al rigetto delle impugnazioni segue obbligatoriamente la condanna dei ricorrenti a sopportarne le spese (art. 616, cod. proc. pen.).
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 6 marzo 2024.