Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 30327 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 30327 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 24/04/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI NAPOLI nel procedimento a carico di: NOME COGNOME nato a NAPOLI il 21/11/1983 COGNOME NOME nato a TRENTOLA COGNOME il 22/09/1944 COGNOME nato a COGNOME IN CAMPANIA il 05/09/1964 COGNOME nato a NAPOLI il 28/09/1973 DI NOME nato a SANT’ANTIMO il 22/02/1967 COGNOME NOME nato a CITTADELLA il 30/04/1979 COGNOME nato a SANT’ANTIMO il 03/08/1971 COGNOME NOME nato a CASANDRINO il 03/03/1994 NOME nato a VILLARICCA il 18/12/1982 NOME nato a NAPOLI il 17/12/1994 COGNOME NOME nato a SANT’ANTIMO il 12/05/1966 NOME nato a SANT’ANTIMO il 03/11/1956
NOME COGNOME nato a SANT’ANTIMO il 03/05/1966
NOME nato a CASAL DI PRINCIPE il 06/08/1964
nel procedimento a carico di questi ultimi
NOME nato a AVERSA il 10/02/1989
inoltre:
COMUNE DI SANT’ANTIMO
LAMINO COGNOME, LAMINO NOME COGNOME NOME
LAMINO ANTIMO, COGNOME EMILIA
avverso la sentenza del 09/06/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale dott. NOME COGNOME che ha chiesto: l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata nei confronti di COGNOME Antonio limitatamente al mancato riconoscimento dell’attenuante della collaborazione e il rigetto del ricorso nel resto; il rigetto dei ric di COGNOME, COGNOME NOME, COGNOME COGNOME, COGNOME NOME; vengano dichiarati inammissibili i ricorsi del PG e quelli proposti nell’interesse di Battista Michel COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME, NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME;
udite le conclusioni dei difensori delle parti civili avv. NOME COGNOME avv. NOME COGNOME avv. NOME COGNOME che hanno chiesto il rigetto dei ricorsi;
udite le conclusioni dei difensori degli imputati avv. NOME COGNOME avv. NOME COGNOME avv. NOME COGNOME avv. NOME COGNOME avv. NOME COGNOME avv. NOME COGNOME avv. NOME COGNOME avv. NOME COGNOME avv. NOME COGNOME avv. NOME COGNOME che hanno chiesto l’accoglimento die ricorsi presentati nell’interesse dei rispettivi assistiti, nonché del difensore di COGNOME avv. NOME COGNOME il quale ha chiesto che il ricorso del Procuratore Generale venga dichiarato inammissibile o comunque rigettato.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte d’Appello di Napoli, occupandosi di alcune vicende che hanno interessato, tra il 2007 e il 2019, le aree di Sant’Antimo, Cassandrino e Grumo Nevano – oggetto di infiltrazione, da parte di sodalizi camorristici e, nella specie, del c “clan COGNOME“, nel tessuto economico, politico e amministrativo locale – ha confermato, anche agli effetti civili, la condanna di COGNOME NOME, COGNOME Antimo, COGNOME Giuseppe, COGNOME Vincenzo e COGNOME Giuseppe per il delitto pluriaggravato di cui all’art. 416 bis c.p., mentre, in parziale riforma della pronunzia di primo grado resa a seguito di giudizio abbreviato, ha assolto COGNOME NOME dal medesimo reato per non aver commesso il fatto, ritenendo che le condotte alla stessa ascritte, solo in parte provate, non fossero comunque tali da configurare alcuna fattispecie delittuosa, non potendosi invero attribuire all’imputata la realizzazione di qualsivoglia apporto concreto alla vit dell’associazione; conseguentemente, ha revocato la confisca ex art. 240 bis c.p. disposta nei confronti di quest’ultima.
Per quanto attiene alle posizioni di COGNOME e COGNOME Giuseppe, la Corte territoriale ha confermato altresì la loro condanna per i delitti aggravati di violenza priva – anche in forma tentata -, lesioni personali, danneggiamento e connessi reati in armi, tutti commessi al fine di agevolare le attività del clan camorristico COGNOME, rafforzando l’influenza esercitata dallo stesso nei confronti del settore urbanistica dell’Ufficio Tecni del Comune di Sant’Antimo tramite l’allontanamento dei relativi responsabili e dirigenti. Simile intento agevolativo è poi stato rinvenuto in relazione ai reati pluriaggravati ex artt. 635 c.p. e 10 e 12 I. 497/1974 di cui ai capi 44 e 45 dell’imputazione – per cui la Corte d’appello ha confermato la condanna, anche agli effetti civili, dei suddetti in concorso con NOME COGNOME COGNOME NOME e COGNOME NOME – in quanto commessi allo scopo di condizionare alcuni membri del consiglio comunale a dimettersi dalla propria carica o, comunque, a far venire meno il numero legale necessario per il funzionamento dell’organo pubblico, mediante la deflagrazione di ordigni esplosivi presso le rispettive abitazioni; episodi questi ultimi che hanno altresì interessato l’immobile di proprietà della famiglia del collaboratore di giustizia COGNOME NOME e in relazione ai quali è stata disposta, in sede di appello, la parziale rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale vol all’acquisizione delle dichiarazioni rese sul punto dallo COGNOME a seguito della sua scelta d intraprendere il percorso collaborativo.
Ancora, la Corte territoriale, in accoglimento dell’appello proposto dal Pubblico Ministero, ha condannato NOME COGNOME – ritenuto uno dei mandanti dell’azione criminosa – per il reato pluriaggravato di tentato omicidio, commesso ai danni di COGNOME NOME fortuitamente scampato all’attentato – e per quelli connessi in armi di cui ai capi 13 e 14 dell’imputazione. Nei confronti dello stesso imputato la sentenza impugnata ha altresì confermato la precedente condanna per i reati pluriaggravati di estorsione, turbata libertà
degli incanti e corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, questi ultimi finaliz all’aggiudicazione, da parte di imprese riferibili al clan COGNOME – del quale il COGNOME è st reggente – degli appalti oggetto di alcune gare d’appalto bandite dal Comune di Sant’Antimo, sfruttando in questo senso i contatti intercorrenti con l’allora dirigente de settore lavori pubblici dell’Ufficio Tecnico Comunale, alla base del cd. “sistema Valentino”, del quale avrebbero successivamente usufruito altresì COGNOME NOME, NOMECOGNOME NOME e COGNOME – la cui condanna per il concorso nei delitti pluriaggravati di cui agli artt. 353 e 319 c.p. è stata quindi anch’essa fatta oggetto di conferma in sede di appello (capi 36 e 37) – nonché COGNOME NOMECOGNOME la cui condanna per il concorso nel delitto aggravato ex art. 319 c.p., legata all’accordo finalizzato ad ottenere il rilascio di concessione edilizia in sanatoria, ha parimenti trovato conferma.
Per quanto attiene alla posizione di COGNOME la Corte territoriale, in accoglimento dell’appello proposto dal pubblico ministero, ha altresì riqualificato la condotta descritt al capo 10 dell’imputazione nel delitto di cui all’art. 416 ter co. 1 e 2 c.p., ripristinando così l’originaria qualificazione attribuita al fatto nell’imputazione, invece derubricato sot il titolo dell’art. 86 d.P.R. n. 570 del 1960 e provvedendo conseguentemente alla rideternninazione del trattamento sanzionatorio.
Infine, la Corte territoriale ha ridotto la pena inflitta a COGNOME e COGNOME Giuseppe, anche tramite la concessione delle circostanze attenuanti generiche in regime di equivalenza rispetto alle ritenute aggravanti.
Avverso la sentenza ricorrono il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Napoli nonché, con atti a firma dei rispettivi difensori, NOME COGNOME COGNOME MicheleCOGNOME Pietro, COGNOME NOME, COGNOME Giuseppe, COGNOME StefanoCOGNOME Antonio, COGNOME NOMECOGNOME Antonio, COGNOME ClaudioCOGNOME COGNOME e COGNOME NOME.
2.1 D ricorso della parte pubblica articola due motivi con i quali si denunciano violazione di legge e vizi di motivazione per essere la Corte territoriale addivenuta a pronunzia assolutoria nei confronti di COGNOME sulla base della valutazione atomistica e frazionata delle condotte ascrivibili alla medesima e ritenute invece sintomatiche della sua organicità al sodalizio camorristico. Il giudice di secondo grado avrebbe erroneamente ritenuto dirimente, ai fini del decidere, l’assoluzione, intervenuta in primo grado, per delitti scopo originariamente contestati alla COGNOME, non tenendo invece in considerazione i plurimi riscontri comprovanti il contributo di rafforzamento offerto dalla stessa al clan non confinabile a mera preoccupazione per le sorti del padre, membro di spicco del sodalizio.
2.2 Con il ricorso proposto nell’interesse di NOME vengono dedotti vizi di motivazione in ordine all’assenza di riscontri rispetto alle dichiarazioni rese a suo carico da NOME NOME, nipote dell’imputato e collaboratore di giustizia, ed all’errata valutazion ‘0 “
della credibilità dello stesso effettuata dal giudice d’appello in merito al suo presunto ruol di organizzatore degli attentati dinamitardi da eseguire presso le abitazioni dei consiglieri del Comune di Sant’Antimo, al fine di intimidirli e costringerli a dimettersi dal loro incaric Ad avviso del ricorrente, tuttavia, la sentenza d’appello non fornirebbe una motivazione sufficiente a dimostrare il ruolo “intermedio” di cui l’NOME sarebbe stato investito da COGNOME Francesco nell’organizzazione degli attentati, né la successiva designazione del nipote, NOME NOME, quale esecutore materiale degli atti intimidatori. Sul punto, ricorso contesta che i giudici di merito non si sarebbero confrontati con quanto statuito nell’incidente cautelare di legittimità, dove è stata rilevata l’insussistenza di elemen idonei a provare che il mandato fosse stato effettivamente stato conferito all’NOME, considerato anche il rapporto diretto che il COGNOME NOME manteneva con lo NOME, esecutore materiale degli attentati. La posizione di estraneità dell’imputato ai fatti non sarebb inficiata nemmeno dalle dichiarazioni rese dallo stesso brio, il quale avrebbe riconosciuto lo zio come ideatore degli attentati dinamitardi. Si contesta che il giudice d’appello avrebbe fondato la decisione di confermare la condanna all’imputato basandosi esclusivamente sulle dichiarazioni rese da quest’ultimo successivamente alla sua decisione di collaborare, i cui verbali, acquisiti e dichiarati utilizzabili nel giudizio d’ap sarebbero stati acriticamente riportati nella motivazione, senza, tuttavia, fornire riscontr esterni o elementi atti a giustificare la credibilità di quanto riferito. In propos ricorrente denuncia invece che le propalazioni del collaboratore sarebbero contraddittorie al punto da inficiarne l’attendibilità. In particolare, in sede di primo interrogatori garanzia, avvenuto nel 2020, egli si era avvalso della facoltà di non rispondere e solo successivamente alla pronuncia di annullamento del provvedimento cautelare adottato nei confronti dell’imputato si era deciso a rendere dichiarazioni, nel corso delle quali, peraltro, aveva inizialmente negato l’esistenza di un rapporto diretto con COGNOME mandante degli attentati dinamitardi – arrivando ad ammetterlo solo dopo che gli erano state contestate le riprese filmate di un loro incontro. Il ricorso rappresenta inoltre che dichiarazioni rese nel giudizio d’appello dallo COGNOME sarebbero del tutto difformi da quell rilasciate nel 2020 e che la credibilità del collaboratore sarebbe inficiata dal fatto che eg avrebbe ammesso di aver mentito su rilevanti circostanze riferite nel corso dell’interrogatorio davanti al pubblico ministero, circostanza non valutata dalla Corte territoriale. Il ricorrente lamenta il silenzio della sentenza sulle ragioni che avrebbe indotto lo COGNOME a pentirsi con la giustizia, nonostante la giurisprudenza di legittimi ritenga tale indagine funzionale alla valutazione della credibilità soggettiva di colui ch renda dichiarazioni eteroaccusatorie, nonché l’omessa considerazione dell’astio nutrito dal medesimo nei confronti dell’imputato, comprovato da alcune missive inviategli e dal contenuto di alcune intercettazioni eseguite in altro procedimento e del tutto ignorate dalla Corte. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.3 Il ricorso inerente alla posizione di NOME COGNOME articola due motivi con i qua vengono dedotti violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante soggettiva di cui all’art. 416 bis.1 co. 1 c.p. per avere la Corte territoriale fondato la propria decisione sulla base di elementi – quali la presenza, tra concorrenti, di soggetti legati al clan COGNOME e la consapevolezza, da parte dell’imputato, del contesto criminale di realizzazione dell’operazione – del tutto estranei a quelli richiest per la configurabilità della circostanza dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare giudici dell’appello non avrebbero saputo indicare alcun elemento sulla base del quale sarebbe possibile desumere il perseguimento della finalità agevolativa del sodalizio in capo al ricorrente o ad alcuno dei concorrenti nei reati contestati, tanto più che le imprese che in ipotesi avrebbero dovuto essere favorite nemmeno sono poi risultate effettivamente aggiudicatarie delle gare di appalto. Non solo, la Corte territoriale avrebbe errato anche nell’affermare la consapevolezza, da parte del Battista, del contesto criminale di riferimento, avendo questa fondato tale rilievo, da un lato, sulla base delle dichiarazioni del collaboratore COGNOME che, oltre ad essere prive di riscontro, nemmeno avrebbe nominato l’imputato e, dall’altro, travisando l’identità di uno degli interlocutor coinvolti nelle intercettazioni successive all’arresto di COGNOME COGNOME, invero da identificarsi in COGNOME NOME
2.4 Anche l’unico motivo di ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOME deduce violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante soggettiva di cui all’art. 416 bis.1 co. 1 c.p. in quanto giustificata attraverso l’inconferente valorizzazione di elementi quali la presenza di legami associativi tra alcuni dei concorrenti e il clan COGNOME e l’asserita consapevolezza, da parte del ricorrente, del contesto criminale di perpetrazione del delitto, con conseguente equiparazione del dolo specifico richiesto per l’integrazione di detta circostanza alla mera consapevolezza degli eventuali e non individuati benefici che l’associazione camorristica avrebbe potuto trarre dal reato. Ancora, le argomentazioni adottate dalla Corte territoriale risulterebbero altresì illogiche ove, nell’individuare, sotto il profilo probatorio, gli indici consapevolezza del COGNOME circa la finalità agevolatrice dei concorrenti, avrebbe tenuto conto, da un lato, dei contatti intrattenuti dall’imputato con alcuni esponenti del clan COGNOME, pur se successivi la data di commissione dei reati contestatigli e, dall’altro, dell dichiarazioni del collaboratore di giustizia COGNOME, tuttavia riferite ad un episodi estorsivo/corruttivo non solo risalente nel tempo, ma per di più operato ai danni dell’odierno imputato, risultando insomma tale dato ulteriormente inconferente rispetto all’accusa in oggetto.
2.5 Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME Vincenzo articola sei motivi.
2.5.1 Con il primo motivo si eccepisce, ai sensi dell’art. 606 co. 1 lett. b), c) ed e) c.p. l’inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali – dalle quali sarebbero poi emerse alcun delle conversazioni utilizzate quali riscontri probatori alle dichiarazioni del collaborator
Lamino ai fini dell’affermazione di responsabilità dell’imputato – autorizzate con decreto di convalida n. 4004/2017 RIT in quanto tale provvedimento, pur se adottato con riferimento al delitto di cui all’art. 319 c.p., sarebbe stato esclusivamente motivat secondo quanto previsto dall’art. 13 d.l. 152/1991, ossia sulla base della sussistenza di sufficienti indizi di reato, non potendosi tuttavia ritenere idonea, ai fini dell’applicaz di tale disciplina derogatoria del disposto dell’art. 266 c.p.p., la mera contestazion dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 c.p., invero da sola non suscettibile di qualificare la fattispecie per cui si procede quale “delitto di criminalità organizzata” per come richiesto dalla norma, anche interpretata alla stregua della consolidata giurisprudenza di legittimità sul punto.
2.5.2 Con il secondo motivo si lamentano violazione di legge – sostanziale e processuale – e vizi di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato per essere quest dipesa dall’illogica valutazione del compendio probatorio e, nella specie, delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia e coimputato COGNOME le quali non solo risulterebbero prive di attendibilità intrinseca, ma nemmeno troverebbero riscontri esterni individualizzanti relativamente alla posizione del ricorrente, secondo quanto prescritto dall’art. 192 co. 3 c.p.p. Nel dettaglio, sotto il primo profilo, ritiene il ricorrente ravvisare un travisamento per invenzione ove la Corte territoriale attribuisce al COGNOME, quale presidente del consiglio comunale, un ruolo determinante nell’assunzione del Valentino a dirigente del settore lavori pubblici del Comune di Sant’Antimo a tempo indeterminato, tuttavia non tenendo in considerazione che, all’epoca di tale determinazione, l’imputato non avrebbe più rivestito alcuna carica politica, né la decisione di anntillare un precedente concorso al fine di nominare il Valentino potrebbe farsi risalire nel tempo, come invece affermato dalla sentenza impugnata, non essendosi invero il Lamino mai espresso in tal senso, ma avendo questi semplicemente sovrapposto vicende temporalmente distinte. Sempre in questo senso, nemmeno vi sarebbe prova che il COGNOME avesse coltivato i propri rapporti con il clan successivamente alle proprie dimissioni dall’incarico politico, avendo i giudici territoriali illogicamente fondato la pro convinzione circa la persistenza di tali legami sulla base di una conversazione intrattenuta dal ricorrente proprio all’epoca in cui ancora rivestiva detta carica. Per quanto attiene invece, alla sussistenza di riscontri individualizzanti rispetto a tali dichiarazioni, ness degli elementi individuati dalla Corte territoriale sarebbe idoneo a confermarne l’attendibilità in quanto, seppure questi possano astrattamente dimostrare l’esistenza di una vicinanza tra il COGNOME e il COGNOME, essi non si confronterebbero con l’effettiv thema probandum, invero da individuarsi nella partecipazione del ricorrente al clan COGNOME e, più in dettaglio, nel ruolo di “rappresentante” di COGNOME NOME dallo stesso svolto. In alcuna delle conversazioni indicate dai giudici dell’appello, infatti, il nome del COGNOME verrebbe associato a quello dell’esponente del clan camorristico, senza contare poi che nessuna di queste vedrebbe come interlocutore l’odierno imputato – invero risultando Corte di Cassazione – copia non ufficiale
apodittica la motivazione con cui la Corte territoriale pretende di individuare il ricorren in uno dei partecipanti alla conversazione dell’8 aprile 2017 – e che, tra l’altro, in que del 20 febbraio 2018 non si leggerebbero che i commenti, da parte di alcun esponenti del clan, relativi ai fatti già descritti dal Lamino, tuttavia non oggetto di conoscenza dire da parte dei discorrenti; in quella del 8 novembre 2018 si parlerebbe di circostanze addirittura diverse da quelle emergenti dalla ricostruzione fornita dal collaboratore; in quella del 19 aprile 2017 ci si limiterebbe a riportare la vox populi. Allo stesso modo, irrilevanti e non individualizzanti sarebbero sia le dichiarazioni rese dal NOME – rispet alle quali nemmeno sarebbe stato effettuato il dovuto vaglio di credibilità e attendibilit pur trattandosi di coimputato nel medesimo procedimento – sia le sommarie informazioni rese dal NOME NOME e la documentazione riferita alle concessioni ottenute dalla società RAGIONE_SOCIALE
2.5.3 Con il terzo motivo si deducono violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla ritenuta configurabilità, nel caso di specie, della fattispecie associativa per non ave la Corte territoriale tenuto in considerazione che la condotta del ricorrente – da inquadrare quale imprenditore colluso con l’associazione camorristica sulla base di un rapporto di reciproci vantaggi – non potrebbe che integrare la diversa ipotesi del concorso esterno in associazione di stampo mafioso, pena la violazione, a fronte delle costanti pronunce in tal senso di cui alla giurisprudenza di legittimità, del principio di prevedibilità d qualificazione giuridica del fatto per come sancito dall’art. 7 CEDU. Né potrebbero in tal senso condividersi le argomentazioni utilizzate dai giudici dell’appello nel ritenere sussistente, in capo al COGNOME, l’affectio societatis richiesta per l’integrazione del delitto contestatogli, in quanto legate alla valorizzazione di indici del tutto privi di pregnanza tal senso, quali la pluralità dei sodali con i quali l’imputato avrebbe avuto rapporti cointeressenza – per di più non meglio definiti – e la durata prolungata nel tempo dei benefici goduti dallo stesso. Infine, la motivazione sarebbe altresì apodittica ove, nell’affermare la non sovrapponibilità tra la condotta del COGNOME e quella dei fratell COGNOME – qualificata per l’appunto ai sensi degli artt. 110 e 416-bis c.p. -, non terrebbe in considerazione di come, proprio a fronte di tale diversità, risulti illogico configurar delitto di concorso esterno in associazione mafiosa solo in capo ai soci occulti dell’esponente della consorteria e non anche in relazione all’imprenditore che, dai rapporti con il gruppo criminale, avesse tratto dei vantaggi personali.
2.5.4 Analoghi vizi vengono dedotti con il quarto e il quinto motivo in relazione alla commisurazione del trattamento sanzionatorio in quanto la Corte territoriale, pur affermando di dover applicare, nel caso di specie, una pena corrispondente al minimo edittale previsto per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p , avrebbe erroneamente fondato il proprio calcolo sulla base della cornice sanzionatoria maggiormente afflittiva introdotta a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 69 del 2015 – in epoca successiva alla consumazione del delitto, invero da collocarsi, secondo quanto affermato dagli stessi
giudici del merito, fino al 2015, con conseguente violazione del principio di irretroattivit della norma penale sfavorevole. Ancora, il ricorrente lamenta la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza sulle ritenute aggravanti. 2.5.5 Con il sesto motivo si eccepisce, ai sensi dell’art. 606 co. 1 lett. c) c.p.p l’inutilizzabilità, nel procedimento in oggetto, delle intercettazioni ambientali disposte altro procedimento (nr. 28501/16 R.G.N.R.) – da cui sarebbero emerse alcune delle conversazioni utilizzate quali indici di riscontro alle dichiarazioni del collaboratore COGNOME – in ragione della insussistenza degli elementi richiesti dall’art. 270 co. 1 c.p.p., nel te applicabile ratione temporis. In questo senso, infatti, in alcun modo i due procedimenti, aventi ad oggetto fatti diversi e legati alle attività di clan camorristici distinti, potre dirsi connessi, né tali intercettazioni sarebbero indispensabili nel procedimento in oggetto a fronte dell’elevata mole di atti di cui si compone il relativo fascicolo processuale.
2.6 Con il ricorso proposto nell’interesse del Di Domenico Giuseppe si lamenta vizio di motivazione in ordine alla determinazione del trattamento sanzionatorio. In particolare, viene contestata l’apodittica motivazione con la quale la sentenza d’appello ha giustificato il discostamento dal minimo edittale di pena, la sussistenza delle contestate circostanze aggravanti e il riconoscimento della loro equivalenza rispetto alle circostanze attenuanti generiche, nonché la determinazione dell’aumento a titolo di continuazione non contenuta nel minimo. Con riguardo alla commisurazione della pena e della mancata prevalenza delle attenuanti generiche, si evidenzia la mancata valorizzazione della rinuncia espressa dell’imputato ai motivi di merito davanti al giudice di secondo grado, limitandosi alle censure attinenti ai soli profili sanzionatori. Inoltre, si riporta che il collaborato giustizia COGNOME non avrebbe mai riconosciuto, né menzionato il COGNOME tra gli organizzatori degli attentati ai danni dei politici locali e dei dipendenti comunali. aggiunta, il ricorrente lamenta che il motivo ostativo individuato dai giudici del merit all’accoglimento delle doglianze già proposte in appello concerne l’asserita lunga durata dell’affiliazione del Di Domenico al clan COGNOME. In realtà, si tratterebbe di un elemento privo di veridicità, in quanto la Corte non fornisce alcun riscontro investigativo a sostegno della sua affermazione, né questa troverebbe conferma nelle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, né tantonneno terrebbe conto dell’apprezzabile comportamento processuale tenuto dall’imputato, indicativo del suo sicuro ravvedimento. Peraltro, con specifico riferimento alla negata prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle aggravanti, si lamenta la genericità e l’insufficienza motivazionale, basata unicamente sulla presunta capacità a delinquere dell’indagato dovuta alla sua affiliazione al clan e priva di riferimenti a circostanze di fatto specifiche che giustificherebbe il giudizio di equivalenza. Ancora, sotto il profilo degli aumenti inflitti a titolo di continuazione a titolo di continuazi ricorso lamenta il difetto di adeguata motivazione e la loro sproporzione rispetto ai fatti di reato contestati all’imputato, invocando a sostegno della propria pretesa i criteri coniati dalla giurisprudenza di legittimità per valutare l’esistenza di un vizio di motivazione.
2.7 II ricorso proposto nell’interesse di COGNOME Stefano articola due motivi con i quali lamentano violazione di legge, erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione, per avere la Corte territoriale negato all’imputato la concessione delle attenuanti generiche e la loro prevalenza nel giudizio di bilanciamento con le ritenute circostanze aggravanti. In particolare, la sentenza non avrebbe adeguatamente esplicitato il percorso logico seguito ed i criteri utilizzati, basando la decisione unicament sulla gravità dei fatti contestati all’imputato, tralasciando ingiustificatamente di valut il comportamento processuale dell’imputato, il quale non solo aveva chiesto il rito abbreviato, ma in sede di gravame aveva anche deciso di rinunciare ai motivi di merito, concentrandosi esclusivamente sul trattamento sanzionatorio.
2.8 Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME articola quattro motivi. 2.8.1 Con riferimento al tentato omicidio del COGNOME di cui ai capi 13 e 14 dell’imputazione, nel primo motivo si osserva che il giudice di primo grado, condividendo le conclusioni del Tribunale del Riesame che aveva annullato la misura cautelare nei confronti dell’imputato per carenza della gravità indiziaria, ha assolto il COGNOME valorizzando l’assenza di un adeguato riscontro delle dichiarazioni rese dal collaboratore, ravvisando una discrasia tra il suo narrato e una conversazione intercettata tra il COGNOME e COGNOME COGNOME in merito all’effettivo oggetto dell’incarico che sarebbe stato conferito dall’imputato. La difesa lamenta poi che la Corte avrebbe considerato come veritiere le dichiarazioni del COGNOME in merito a quanto riferitogli dal COGNOME circa l’ della riunione in cui sarebbe stata assunta la decisione di colpirlo al solo fine di dargli u avvertimento e in merito alle confidenze avute dal COGNOME NOME circa, invece, un proposito omicidiario del COGNOME ai suoi danni, senza tuttavia fornire riscontri sul punt e senza confutare l’obiezione difensiva sull’inverosimiglianza del narrato del collaboratore, nonché omettendo di considerare che in realtà la fonte delle informazioni veicolate dal COGNOME sarebbe individuabile nello stesso COGNOME. Sul punto, peraltro, i giudici del merit avrebbero travisato il contenuto delle stesse dichiarazioni del collaboratore rese nel 2017, dalle quali si evincerebbe che il COGNOME aveva ricevuto un monito dalla famiglia COGNOME di non eliminarlo e che, quindi, una violazione di questo ordine lo avrebbe esposto alla reazione dei membri del clan. In secondo luogo, il ricorso si sofferma sull’episodio dello schiaffo reso dal COGNOME al COGNOME alla presenza dei familiari di quest’ultimo e che la Corte evoca per spiegare l’origine dell’astio del secondo nei confronti del primo. Nel rispondere ad una precisa obiezione difensiva, la sentenza avrebbe escluso che il collaboratore si sarebbe contraddetto nel collocare temporalmente il fatto, senza però considerare quanto dallo stesso riferito durante la sua deposizione nel dibattimento d’appello, nel corso della quale avrebbe invece confermato che l’episodio risalirebbe al 2012. Sotto altro profilo il ricorrente lamenta un travisamento del dato processuale da parte della sentenza impugnata in riferimento alla contraddittorietà e inattendibilità delle dichiarazioni rese dal COGNOME rispetto all’attribuzione della volontà onnicidiaria al sol Corte di Cassazione – copia non ufficiale
COGNOME. In particolare, dal confronto tra due diverse dichiarazioni- rese, rispettivamente nel 2017 e nel 2022 – la difesa assume che il collaboratore, dapprima, aveva indicato che la decisione di punirlo espressa dai clan era stata adottata anche per fare un favore a NOME COGNOME, con il quale aveva motivi di contrasto e, successivamente, avrebbe invece attribuito la paternità dell’attentato al solo COGNOME. In tal senso il ricorso richia conversazione n. 1695 tra COGNOME e COGNOME, valutata dalla Corte d’appello quale unico riscontro esterno individualizzante alle dichiarazioni del COGNOME. Nel ricorso la difesa tratteggia come, in realtà, il contenuto della captazione e le dichiarazioni del COGNOME presentino una serie di incongruenze idonee ad escludere che la prima possa costituire un valido riscontro alle seconde. Ed in proposito la Corte non avrebbe correttamente compreso le doglianze difensive svolte con la memoria presentata a contrasto dell’impugnazione del pubblico ministero e mirate ad evidenziare la scarsa affidabilità non già del collaboratore, ma delle informazioni che il COGNOME ed il COGNOME si sono scambiati, riportando all’evidenza mere voci correnti.
2.8.2 Sempre con il primo motivo e in riferimento alla medesima imputazione il ricorrente lamenta che la Corte territoriale, per superare la contraddittorietà del compendio probatorio di riferimento rilevata dal giudice di primo grado, si sarebbe prodotta in una fantasiosa ricostruzione dei fatti, ipotizzando che in realtà l’attentato ai danni del Lamin sarebbe stato eseguito con intento omicidiario e su mandato dell’imputato prima della riunione nel corso della quale i clan Verde e Puca avrebbero assunto la decisione – cui non sarebbe stato dato però seguito – di punire il collaboratore, senza però ucciderlo. Ricostruzione questa priva di riscontro alcuno e frutto di un travisamento delle dichiarazioni del COGNOME, il quale avrebbe sempre sostenuto che l’agguato ai suoi danni del 12 agosto 2016 sia avvenuto successivamente alla menzionata riunione. Non di meno, la Corte avrebbe ingiustificatamente trascurato le ripetute incongruenze del narrato del collaboratore ed i suoi tentativi di aggiustare nel tempo le proprie dichiarazioni comportamento sintomatico della sua inattendibilità. In tal senso viene rilevata la contraddizione tra quanto affermato dallo stesso nella fase delle indagini preliminari e quanto sostenuto invece nel corso dell’istruttoria appello, posto che nella prima occasione egli aveva riferito che all’esito della riunione era stato deciso di punirlo con gambizzazione; al contrario, successivamente, egli ha dichiarato che l’ordine congiunto dei clan fosse quello di “fargli la pelle”, per poi precisare, con contorte spiegazioni, c tale locuzione indicherebbe genericamente un intento punitivo e non necessariamente omicida. Altra contraddizione non rilevata dalla Corte atterrebbe il luogo della riunione tra i clan che, in un primo momento, il collaboratore avrebbe indicato nell’abitazione di Verde Antonio e, in seguito, avrebbe invece collocato presso il mobilificio del Di Lorenzo Francesco.
2.8.3 Ancora con il primo motivo il ricorrente, a proposito dell’inaffidabilità de conversazione intercettata tra il COGNOME e il COGNOME, il ricorrente evidenzia come
circostanza dagli stessi riportata secondo cui il COGNOME, a seguito di un litig ordinato l’omicidio di una non menzionata persona – quel “qualcuno” che la Corte avreb apoditticamente individuato nel Lamino – non sarebbe un elemento sufficiente p dimostrare la riconducibilità logica di questo presunto scontro, pur ammettendo che ab avuto come protagonisti il COGNOME e il COGNOME, al mandato omicidiario del collabora ma soltanto un elemento estremamente generico e non adeguatamente circostanziato dal punto di vista spaziale e temporale, in contrasto anche con quanto riferito dal L sull’intenzione dei Clan di “gambizzarlo” e non di ucciderlo. Infine viene eccepita er applicazione della legge penale in merito alla qualificazione del fatto come te omicidio, sciogliendo il dubbio formulato in proposito dal giudice di primo g sull’effettivo intento dell’agguato del 12 agosto 2016 esclusivamente sulla base modalità di esecuzione dell’attentato e sulle dichiarazioni del collaboratore, smentite dagli accertamenti effettuati dalla polizia giudiziaria all’epoca in m numero dei colpi che vennero effettivamente esplosi e comunque ancora una volt contraddittorie nel tempo. In realtà egli, nell’interrogatorio reso nel 2017, aveva p che lo sparatore aveva mirato alle gambe, affermazione compatibile con l’esito della c riunione in cui era stata decisa l’azione e invece incompatibile con il supposto ma omicidiario che la Corte ritiene aver conferito l’imputato, senza però conoscere qu ciò sarebbe avvenuto.
2.8.4 Con il secondo motivo vengono dedotti violazione di legge e vizi di motivazion merito all’affermazione della responsabilità dell’imputato per il reato di est aggravata di cui al capo 19. Il ricorrente lamenta anzitutto la denegata derubric del fatto nel meno grave reato di cui all’art. 513-bis c.p., come richiesto con d’appello. In proposito la difesa rileva come dalle stesse dichiarazioni del COGNOME e il rapporto sinallagmatico instauratosi tra i presunti estorsori ed il NOME, im sull’impegno dei primi di impedire l’apertura di nuove imprese di pompe funebri o evitare al secondo di perdere il monopolio che aveva acquisito nel settore. In se luogo la Corte avrebbe apoditticamente negato sussistere l’eccepito contrasto t dichiarazioni dello stesso COGNOME e quelle di COGNOME NOME in merito all’effettiva n dell’intervento operato dal sodalizio a tutela del COGNOME, ipotizzando che collaboratori avessero inteso evocare episodi diversi, quando invece dal confronto t dichiarazioni rese nel dibattimento d’appello dal COGNOME e quelle del COGNOME risult entrambi – come del resto ritenuto dal giudice di primo grado – avessero inteso rif allo stesso fatto ossia l’apertura di una nuova agenzia di pompe funebri a Grumo Neva 2.8.5 Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e vizi di motivaz merito alle imputazioni di turbativa d’asta e corruzione aggravate di cui ai capi 3 In proposito lamenta l’illogicità della motivazione in ordine alla valutazion “i dichiarazioni del COGNOME e del presunto riscontro esterno costituito dalle conversa intercettate nel 2017 tra Vergara NOME e COGNOME NOME. In pa ricorrente,
riprendendo le censure già enunciate in sede d’appello delle quali eccepisce l’omessa sostanziale confutazione, rileva come la asserita imposizione da parte del COGNOME all’ufficio tecnico di far vincere le gare all’azienda del cugino si scontrerebbe con il da oggettivo costituito dal fatto che all’epoca della gara d’appalto il consorzio RAGIONE_SOCIALE era di proprietà della famiglia COGNOME e non del suo congiunto e che la società di quest’ultimo, la RAGIONE_SOCIALE aveva rilevato le quote del suddetto consorzio solo un anno dopo l’aggiudicazione. Illogicamente poi la Corte avrebbe ritenuto decisivo il fatto che l’amministratrice del consorzio fosse all’epoca la moglie di NOME NOME, ignorando che la stessa era contestualmente anche la nipote di quelli che erano all’epoca gli effettivi titolari di RAGIONE_SOCIALE. Inoltre, viene contestato che la sentenza impugnata, nel valutare le conversazioni intercettate come riscontro esterno, non si confronterebbe con il dato testuale rappresentato dal fatto che i conversanti COGNOME e COGNOME avrebbero espresso mere supposizioni sugli importi delle tangenti e sulle circostanze relative ai possibili appalti pilotati da altri. Non di meno la Corte avrebbe immotivatamente negato la rilevante discrasia tra l’importo della tangente riferito dal COGNOME e quello evocato nel corso dell’intercettazione.
2.8.6 Con riferimento agli analoghi reati contestati ai capi 32) e 33), nel quarto motivo vengono nuovamente dedotti violazione di legge e vizi di motivazione. In tal senso il ricorrente lamenta l’illogicità della motivazione sul concorso di COGNOME nei suddetti reati fondata sul contenuto delle conversazioni oggetto delle intercettazioni n. 5531 del 2017 e n. 19778 nel 2018 ed intercorse, rispettivamente, tra COGNOME NOME e COGNOME e tra COGNOME e il Valentino. In particolare, il ricorso osserva che dalle due intercettazioni non emergono informazioni sufficienti a desumere un coinvolgimento dell’imputato nel sistema corruttivo, mentre tantonneno la sua responsabilità potrebbe presumersi semplicemente per il fatto che il COGNOME era il reggente del sodalizio al tempo dell’aggiudicazione. In ordine all’attitudine delle conversazioni a costituire la fonte del prova di responsabilità, la difesa contesta l’affidabilità delle conversazioni captate, post che il COGNOME avrebbe riferito mere supposizioni al COGNOME ed avrebbe avuto un interesse personale ad attribuire al COGNOME un ruolo nella vicenda. In secondo luogo, viene evidenziata la contraddittorietà della interpretazione operata dalla Corte d’Appello del contenuto della conversazione di cui all’intercettazione n. 3351, nel corso della quale si farebbe riferimento al ruolo di COGNOME nell’ottenimento della gara a favore dei fratel COGNOME NOME e NOME, soprannominati i “Vuttari”, ed alla protesta del figlio dell’imputato per il mancato versamento di alcuna somma da parte degli imprenditori a favore del padre. Sul punto, il ricorrente eccepisce che dal dialogo non si comprende chi sarebbe stato il soggetto con cui avrebbe parlato il COGNOME e che avrebbe ottenuto l’aggiudicazione della gara. Inoltre, l’assenza della prova del coinvolgimento del COGNOME si evincerebbe anche dal confronto con l’altra conversazione valorizzata dalla Corte, nella quale il COGNOME, recriminando contro i fratelli COGNOME per non aver pagato il dovuto
nonostante l’ampio favore di cui avevano goduto nella gara, non avrebbe mai fatto riferimento all’interessamento dell’imputato nella vicenda. Il ricorso evidenzia un ulteriore travisamento del contenuto della conversazione del 2018 da parte della sentenza d’appello nella parte in cui questa assume la responsabilità del COGNOME – e conseguentemente del COGNOME – sulla base del rimprovero mosso dallo stesso nei confronti di COGNOME NOME per aver rivelato a soggetti terzi l’accordo criminale che gli aveva consentito l’aggiudicazione. In realtà, il ricorrente osserva che dal testo della conversazione emerge che il COGNOME avrebbe redarguito il Petito non per aver svelato l’accordo, ma per aver mentito, in quanto l’aggiudicazione a suo favore era dipesa dai rapporti di parentela del COGNOME con uno storico affiliato del clan e non già da una propria azione diretta o dall’intervento dell’imputato.
2.9. Il ricorso relativo alla posizione di COGNOME NOME articola due motivi.
2.9.1 Con il primo motivo si denunziano violazione di legge e vizi di motivazione sotto il profilo della pertinenza delle prove raccolte rispetto al thema probandum per come individuato nel capo di imputazione. In questo senso, infatti, a fronte della ritenut integrazione, nel caso di specie, del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. per avere il COGNOME svolto il ruolo di “veicolatore di messaggi in favore dell’organizzazione”, rimarrebbero del tutto estranee all’accusa quelle condotte che, consistendo nella riscossione di denaro per conto dell’associazione camorristica, solo erroneamente la Corte territoriale avrebbe preteso di utilizzare ai fini della propria decisione, senza contare che, comunque, i giudici dell’appello nemmeno avrebbero collocato temporalmente tali episodi, non potendosi quindi affermare con certezza che questi rientrino nel periodo per cui è contestazione.
2.9.2 Con il secondo motivo si deducono violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla ritenuta sussunnibilità della fattispecie concreta in quella di partecipazione all’associazione camorristica in quanto dipesa dal travisamento degli elementi di prova, specie perchè la Corte territoriale non avrebbe tenuto in considerazione le dichiarazioni rese dal COGNOME circa i rapporti sussistenti tra il clan COGNOME e COGNOME COGNOME all’epoca della latitanza di quest’ultimo. Ove correttamente valutate, infatti, queste avrebbero permesso di comprendere come, in tale periodo, il padre dell’imputato fosse stato definitivamente allontanato dal sodalizio, ragione per cui appare del tutto illogico che, nonostante tale evenienza, si contesti al COGNOME NOME di essersi messo a disposizione dell’associazione comunicando ai suoi membri in quello stesso lasso temporale informazioni indispensabili per la sua sopravvivenza e provenienti dal proprio genitore.
Tenuto conto di tale circostanza, al contrario, le conversazioni utilizzate dalla Corte territoriale ai fini della dichiarazione di responsabilità del ricorrente risultereb inconferenti, evidenziando semmai un eventuale contributo prestato dall’imputato alla latitanza del padre, ma non certo la sua messa a disposizione nei confronti del clan, anzi esplicitamente negata nell’ambito della conversazione n. 5331 del 2017, ove il COGNOME NOME avrebbe affermato di non volersi interessare delle questioni attinenti alla
consorteria criminale. D’altra parte, tale distacco da parte dell’imputato rispetto a sodalizio, sarebbe ulteriormente evidenziato dallo stile di vita dello stesso, nonché dalla circostanza per cui, a fronte del tentativo da parte di alcuni sodali di contattare il COGNOME mentre era latitante, gli stessi, pur avendo ipotizzato un intervento del figlio, non avrebbero poi avuto modo di concretizzare tale intento. D’altra parte, il ricorrente evidenzia come, in ogni caso, le condotte ascritte al COGNOME NOME non sarebbero certo suscettibili di integrare quei parametri minimi di offensività e collegamento con la realtà criminale che, come da costante giurisprudenza di legittimità sul punto, sono richiesti per la configurabilità, in capo ad un soggetto, del ruolo di veicolatore di notizie nei confront di sodalizio di stampo mafioso. Infine, si contesta l’apoditticità della motivazione con cui i giudici dell’appello hanno negato la configurabilità, nel caso di specie, della diversa ipotesi del concorso esterno in associazione di stampo mafioso, pur ancorando la tesi della condotta partecipativa a due soli episodi di contatto tra l’imputato e la consorteria.
2.10 Ricorre per cassazione, nell’interesse di COGNOME NOME, l’avv. NOME COGNOME articolando tre motivi.
2.10.1 Con il primo motivo si denunciano violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata in riferimento alla prova dell’affiliazione dell’imputato al clan COGNOME in qualità di sodale e uomo di fiducia di COGNOME NOME e di COGNOME COGNOME, succeduto al primo nella direzione della consorteria. Il ricorrente osserva che la Corte d’appello ha fondato la prova della stabile adesione dell’imputato alla struttura organizzativa dell’associazione sulle base delle propalazioni rese dal collaboratore COGNOME, il quale, con riferimento allo specifico episodio dell’attentato al centro clinico IGEA, ha accusato il COGNOME di essere un falso confidente dei carabinieri, incaricato dal COGNOME di incolpare falsamente dell’attentato lo stesso COGNOME e altri soggetti, in modo da sviare le indagini e qualsiasi sospetto circa la paternità del fatto al COGNOME. Il COGNOME ha anche dichiarato di aver appreso dell’esistenza di un’informativa dei carabinieri – nella quale sono riportate le accuse ai falsi responsabili de relato da COGNOME il quale a sua volta non ne aveva una conoscenza diretta, ma ne aveva ricevuto sicuramente notizie da COGNOME. In proposito, il ricorrente censura la valutazione che il giudice di merito ha effettuato della dichiarazione del COGNOME, non avendo considerato che la sua conoscenza dell’informativa si fonda su un “doppio de relato” e che, di conseguenza, le affermazioni rese non possono trattarsi alla stregua di un episodio di cui il collaboratore abbia avuto diretta conoscenza, dovendosi, al contrario, valutare come sue mere congetture e deduzioni. Sul punto viene altresì rilevato che i nominativi di cui è venuto a conoscenza il COGNOME divergono in larga parte da quelli indicati nell’informativa dei carabinieri, seguito della “notizia confidenziale” ricevuta, coincidendo di fatto solamente quello dello stesso COGNOME. Ancora in merito all’informativa, si lamenta che la sentenza impugnata ha fondato la responsabilità del ricorrente sull’indimostrato assunto che la “fonte attendibile” indicata nell’atto si identificherebbe sicuramente con il Garofalo, mentre, in realtà, una
tale asserzione non troverebbe riscontro alcuno in atti, né sarebbero stati eseguiti ulterior approfondimenti sul punto, quali, ad esempio, l’audizione del militare autore della nota, volti a dimostrare che la fonte confidenziale fosse proprio l’imputato su mandato del COGNOME. Ed in tal senso la Corte avrebbe trascurato l’intercettazione ambientale dell’Il gennaio 2018 intercorsa tra il COGNOME e il COGNOME, durante la quale il primo esclude il suo ruolo di confidente per conto del COGNOME. Altresì, il ricorso osserva che, pur volend accogliere le dichiarazioni del COGNOME circa l’incarico di falso confidente dell’imputato questa affermazione sconterebbe una grave contraddizione logica, dal momento che sia il collaboratore, sia la nota informativa indicano come responsabili dell’attentato membri del clan Puca, sodali dell’imputato. Pertanto, la sentenza non spiega le ragioni per cui l’imputato, ritenuto dalla Corte affiliato al clan Puca, avrebbe dovuto rendere dichiarazioni nocive per altri appartenenti alla propria consorteria. Viene poi sottolineato che la sentenza non avrebbe correttamente valutato il fatto che il COGNOME non ha mai definito il COGNOME come intraneo all’associazione, né come un percettore di stipendio da parte del sodalizio. Con riferimento al rapporto di pregressa fedeltà nei confronti di COGNOME Pasquale, il ricorrente osserva, innanzitutto, che è la stessa sentenza d’appello ad escludere che la società costituita tra il Garofalo e il COGNOME Pasquale in epoca risalente possa elevarsi ad elemento sintomatico al fine di dimostrare lo stretto legame dell’imputato al vertice apicale della cosca. Con riferimento, invece, al rapporto tra il ricorrente e NOME COGNOME, la sentenza impugnata evidenzia il ruolo di braccio operativo ricoperto dal primo a favore del secondo, osservando che egli ha agito non solo per favorire il COGNOME, ma anche per veicolargli messaggi di rilievo per la vita dell’intera compagine durante il suo periodo d latitanza. Tuttavia, secondo la difesa, l’esistenza di un contatto diretto tra i due no troverebbe riscontro né nel colloquio intercorso tra il COGNOME e il COGNOME, né nelle conversazioni tra il COGNOME e COGNOME COGNOME, i quali, al contrario, parlano dell difficoltà del COGNOME nell’entrare in contatto con latitante, e nemmeno nella circostanza che pochi giorni dopo COGNOME NOME, figlio di COGNOME, ha consegnato al COGNOME una missiva del padre. Peraltro, quest’ultimo episodio rimarca l’assenza di rapporti diretti tra il COGNOME e il COGNOME COGNOME, dimostrando, invece, che i colloqui avvenivano direttamente tra suo figlio e il COGNOME, senza alcuna intermediazione dell’imputato. Ad ogni modo, secondo la difesa, pur volendo affermare che il COGNOME abbia fatto da tramite tra il COGNOME e il figlio, si tratterebbe comunque di una singola condotta, inidonea a integrare la tipicità della fattispecie contestata. Un ulteriore elemento di illogicità d motivazione in merito al rapporto tra il COGNOME e il COGNOME è rinvenibile, per il rico nella contrapposizione tra quest’ultimo e NOME COGNOME, ritenuto in quel momento capo del clan. Secondo la difesa, la sentenza non spiegherebbe come l’imputato possa contemporaneamente essere membro del sodalizio e prestare fedeltà ad un soggetto in contrasto con i vertici dello stesso. Da ultimo, con riferimento all’addebitato episodio dell “cancellazione” delle telecamere in un autolavaggio al fine di aiutare gli autori Corte di Cassazione – copia non ufficiale
dell’attentato ai danni di COGNOME COGNOME – asseritamente comprovato dall’intercettazione di una conversazione intrattenuta con COGNOME e COGNOME ed oggetto di intercettazione presso il mobilificio di quest’ultimo – non potrebbe essere interpretato come ha fatto la Corte, nel senso per cui l’imputato avrebbe provveduto alla materiale rimozione delle suddette telecamere, ma per l’appunto solo alla cancellazione delle immagini riprese. Posto che le forze dell’ordine, intervenute a seguito della segnalazione dell’attentato, non hanno rinvenuto sul luogo alcuna telecamera, sarebbe allora evidente che quella dell’imputato è stata una mera millanteria. Ad ogni modo, pur volendo riconoscere la responsabilità dell’imputato per questo episodio, l’unicità del comportamento non permetterebbe di ritenere provata la stabile partecipaizone all’associazione, dovendo la sua condotta qualificarsi più propriamente come mero favoreggiamento.
2.10.2 Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416 bis, comma 6, c.p. In particolare, ricorrente denuncia che tanto la sentenza di primo grado, quanto quella impugnata non avrebbero fornito adeguati e sufficienti elementi al fine di dimostrare che le attività condizionamento nell’ambito politico e amministrativo abbiano avuto dei riflessi anche sul tessuto economico dai quali il clan avrebbe tratto beneficio; né la sentenza impugnata avrebbe enucleato le attività economiche finanziate o avviate grazie all’attività illecit dell’associazione.
2.10.3 Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche ed alla commisurazione della pena. Nello specifico, si lamenta che, ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio, la Corte non avrebbe valutato l’assenza di precedenti penali dell’imputato e la sua volontaria costituzione. Inoltre, si osserva che la volontà dell’imputato di negare le accuse e di mostrare segni di pentimento, non inficia necessariamente la possibilità di beneficiare delle attenuanti generiche, anche in ragione del fatto che tanto il giudice di primo grado quanto quello d’appello hanno inteso concedere le circostanze in esame anche a soggetti raggiunti dalle medesime imputazioni del COGNOME e che ugualmente non hanno mostrato segni di ravvedimento.
2.11 Sempre nell’interesse di COGNOME NOME, ha proposto ricorso anche l’avv. COGNOME COGNOME articolando tre motivi. Con il primo motivo lamenta violazione di legge e vizi di motivazione della sentenza in ordine alle dichiarazioni rese dal COGNOME NOME in merito all’affiliazione del COGNOME ed al suo rapporto con NOME COGNOME.
Analoghi vizi vengono dedotti con il secondo motivo in ordine all’episodio dell’attentato ai danni di Cesaro Aniello e alla prova della rimozione delle telecamere da parte dell’imputato. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta vizi di motivazione in ordine al sussistenza della prova dell’appartenenza del COGNOME al clan COGNOME, affermando come,
alla luce dei criteri e dei principi enunciati dalla giurisprudenza delle Sezioni Unit tuttalpiù la sua condotta sia qualificabile come concorso esterno in associazione mafiosa. 2.12 Il ricorso proposto nell’interesse di NOME NOME articola due motivi con cui lamentano violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla mancata concessione, in favore dell’imputato, dell’attenuante di cui all’art. 416 bis co. 3 c.p., invero negata esclusivamente in ragione della collocazione temporale della scelta collaborativa del ricorrente – successiva alla celebrazione del primo grado di giudizio -, senza tuttavia valorizzare l’utilità dell’apporto fornito dallo COGNOME il quale infatti, pur non es intervenuto nella fase di formazione della prova, ne avrebbe rinforzato la capacità dimostrativa, a fronte della ritenuta credibilità e attendibilità delle sue dichiarazioni, ta da consentire, tra l’altro, l’assoluzione del coimputato COGNOME non potendosi quindi inquadrare il contributo offerto in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale appello quale mera reiterazione delle affermazioni già rese in prime cure, stanti i diversi oneri e responsabilità connessi al ruolo di collaboratore ricoperto in secondo grado. Ancora, il ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto il delitt di detenzione di materiale esplodente non assorbito in quello di porto dello stesso in luogo pubblico pur in assenza di prova circa la precedente disponibilità del materiale da parte dell’imputato.
2.13 II ricorso relativo alla posizione di COGNOME Claudio articola due motivi con i quali s denunziano violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla dichiarazione di responsabilità dell’imputato per non avere la Corte territoriale effettuato un esame approfondito della confessione resa dallo stesso, specie avendo questa evocato, quale riscontro, un’intercettazione ambientale non solo collocata in epoca di molto successiva ai fatti, ma nella quale per di più non emergerebbe alcun riferimento al ricorrente. Ancora, il ricorso censura l’apoditticità della motivazione utilizzata dalla Corte territoriale n determinazione del trattamento sanzionatorio, anche con riferimento all’evocata sussistenza, nel caso di specie, dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 co. 1 c.p., tuttavia automaticamente esclusa a fronte del riconoscimento dell’attenuante di cui al comma 3 del medesimo articolo.
2.14 II ricorso proposto nell’interesse di Puca Antimo articola di due motivi.
2.14.1 Con il primo motivo si eccepisce violazione di legge e vizi di motivazione in ordine alla conferma della confisca ex art. 240-bis c.p. dei terreni e degli immobili su di esso edificati situati nel comune di Sant’Antimo. Ad avviso della difesa, la decisione della Corte territoriale sarebbe viziata per una pluralità di ragioni. In primo luogo, si contesta correlazione temporale tra l’epoca di formazione del patrimonio immobiliare dell’imputato ed il momento in cui emergono indizi di partecipazione alla consorteria criminale. Secondo la ricostruzione della sentenza impugnata, la provenienza reddituale illecita si spiegherebbe in forza della risalente affiliazione dell’imputato al clan COGNOME, asseritamente avvenuta ben prima del periodo in cui sono stati collocati i fatti a lui ascritti. Pertanto
sua appartenenza alla consorteria dimostrerebbe l’origine degli introiti usati per l’acquisto e la costruzione dei beni oggetto della misura ablatoria. Tuttavia, secondo la difesa, mancano elementi sufficienti per giustificare la retrodatazione dell’appartenenza del Puca alla compagine malavitosa ad un momento antecedente ai fatti ascritti. Di conseguenza, nulla giustificherebbe un legame tra le attività legate ai beni confiscati e gli introiti sua partecipazione criminosa, anche alla luce del fatto che l’acquisto e la costruzione sono avvenuti in un momento ben lontano rispetto alla contestazione in oggetto. Inoltre, si evidenzia che la prova di una sproporzione tra il valore dei beni e il reddito dichiarat deve essere accertato sulla base dei profili reddituali esistenti al momento di acquisto del bene; una tale comparazione nel caso di specie non sarebbe possibile, dal momento che gli accertamenti reddituali esperiti in capo all’imputato sono limitati all’arco tempora compreso tra gli inizi degli anni 2000 fino al 2019 e non si riferiscono, pertanto, alla dat di ingresso del bene nel patrimonio dell’imputato. Ancora, il ricorrente lamenta che la Corte, riportando quanto già dedotto in sede cautelare, nutra dei dubbi circa la coincidenza tra il terreno acquistato nel 1985 e quello oggetto di confisca, affermando così l’inesistenza di prove sulla circostanza che i beni in esame fossero stati acquistati nell’epoca indicata dal ricorrente. In realtà, il dubbio insinuato dai giudici di me sarebbe smentito dalla documentazione allegata dalla difesa. Ulteriormente, la difesa contesta la sentenza nella parte in cui ha escluso l’esistenza di documenti che consentano di affermare che il COGNOME abbia assunto la guida delle imprese paterne – RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE – già alla morte del padre. Sul punto, consulente tecnico di parte, in sede di gravame, aveva allegato alla sua relazione alcuni documenti idonei a dimostrare la successione del COGNOME agli affari paterni e la titolarità delle società, che i giudici del merito non avrebbero immotivatamente considerato. Ancora, il ricorso eccepisce la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di secondo grado ha addebitato all’imputato l’onere di dimostrare la sua capacità economica negli anni ’80 e ’90, ritenendo, invece, che l’onere di dimostrare la provenienza illecita dei beni gravi sull’organo procedente e che sia compito del giudice individuare gli elementi da cui risulta la sproporzione tra determinati beni e il reddito dichiarato o l’attività economica svolta. Sotto il profilo della corr individuazione dell’epoca di costruzione dei capannoni confiscati, la difesa contesta il giudizio a cui è pervenuta la Corte d’Appello, secondo la quale non sarebbe stata allegata alcuna documentazione che consenta di affermare con precisione questo dato e che le fotografie satellitari rappresentanti l’urbanizzazione dell’area non risulterebber attendibili per dimostrare che il terreno, già a partire dal 1993, fosse interessato dall presenza di costruzioni identificabili con quelle confiscate. In realtà, osserva la difesa ch la perizia eseguita dall’architetto COGNOME aveva già dato atto della coincidenza tra gli immobili fotografati e i capannoni del Puca, in quanto gli immobili sono stati costruiti tr il 1985 e il 2003, successivamente all’acquisto del Puca del terreno. Queste allegazioni, Corte di Cassazione – copia non ufficiale
secondo la difesa, priverebbero di fondamento la tesi dei giudici di merito volta a sostenere che la costruzione degli immobili è intervenuta solo in epoca recente e che esista una relazione tra i beni del Puca e il reato contestato. Le evidenze fornite dalle immagini satellitari non sarebbero disattese nemmeno dalla circostanza che l’accatastamento degli immobili è stato dichiarato nel 2019, in quanto la tardività di questa operazione sarebbe stata determinata da motivi fiscali. Da ultimo, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata avrebbe omesso di motivare sulla specifica doglianza d’appello con la quale, analizzando le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, si sostenuto che l’appartenenza del Puca al sodalizio non trova riscontro nelle suddette dichiarazioni, nelle quali l’imputato non viene mai citato tra i soggetti affiliati. Inol ricorrente rileva l’errore compiuto dalla Corte nel richiamare e valutare le lucide e non contradditorie dichiarazioni rilasciate dalla collaboratrice NOME Rosa – e non dal di le marito COGNOME Pasquale, come sostenuto nella sentenza – la quale, al fine di sottolineare la carenza di interesse dell’imputato ad appartenere alla compagine criminale, ha ricordato gli episodi estorsivi perpetrati dal clan a danno del Puca.
2.14.2 Con il secondo motivo si eccepisce vizio di motivazione in ordine alla determinazione del trattamento sanzionatorio. In particolare, viene contestata l’apodittica motivazione con la quale la sentenza d’appello avrebbe giustificato il discostamento della pena dal minimo edittale, la sussistenza delle contestate circostanze aggravanti e il riconoscimento della loro equivalenza rispetto alle circostanze attenuanti generiche e, infine, la determinazione degli aumenti per la continuazione non contenuti nel minimo. Quanto alla commisurazione della pena e alla mancata concessione della prevalenza delle circostanze ex art. 62-bis c.p., la Corte non avrebbe tenuto conto della rinuncia ai motivi di merito operata dall’imputato. Al riguardo, si riporta poi che collaboratore di giustizia NOME NOME ha sempre disconosciuto il Puca tra gli organizzatori degli atti intimidatori ai danni dei politici locali e dei dipendenti comunali. Tuttavia, qu elementi non sono stati considerati dai giudici d’appello, i quali non avrebbero tenuto conto del compendio probatorio e avrebbero applicato una pena sproporzionata, anche alla luce di una evocata valutazione comparativa con la pena inflitta agli altri coimputati, le cui posizioni sono aggravate da ulteriori circostanze. In aggiunta, il ricorrente lamenta che i giudici avrebbero individuato come unico motivo ostativo all’accoglimento delle doglianze già proposte in appello la lunga durata dell’affiliazione del Puca al sodalizio. I realtà, si tratta di un elemento privo di veridicità, in quanto la Corte non fornisce alc riscontro investigativo a sostegno della sua affermazione, né questo trova conferma nelle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, né tantomeno tiene conto dell’apprezzabile comportamento processuale tenuto dall’imputato, indicativo del suo sicuro ravvedimento. Peraltro, con ulteriore riferimento alla negata prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle aggravanti, si lamenta la genericità e l’insufficienza motivazionale, basato unicamente sulla presunta capacità a delinquere dell’indagato dovuta alla sua affiliazione
al clan e priva di riferimenti a circostanze di fatto specifiche che giustifichino il giudizi equivalenza. Quanto alla conferma degli aumenti per la continuazione la relativa statuizione sarebbe invece priva di motivazione.
2.15 Il ricorso presentato nell’interesse di Petito Antinno articola cinque motivi.
2.15.1 Con i primi due motivi il ricorrente lamenta violazione di legge e vizi di motivazione anche per carenza di motivazione rafforzata a seguito della riqualificazione in peius del reato di cui al capo 10) di imputazione nel delitto di cui all’art. 416-ter commi 1 e 2 c. In particolare, si contesta che il giudice d’appello, in forza dell’accoglimento dell’appel del pubblico ministero, avrebbe omesso di disporre la rinnovazione delle prove dichiarative ai sensi dell’art. 603, comma 3-bis c.p.p. In soccorso delle proprie ragioni, la difesa richiama la recente giurisprudenza di legittimità, secondo la quale sussiste l’obbligo di rinnovare l’esame dei dichiaranti – oltre a quello di motivazione rafforzata – anche nel caso di diversa qualificazione giuridica del fatto in senso peggiorativo, conseguente alla difforme valutazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva, non valendo ad escludere un tale obbligo il fatto che, in tal caso, la sentenza riformata contenesse un giudizio di colpevolezza dell’imputato.
2.15.2 Con il terzo motivo il ricorrente eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla condanna del Petito per il delitto di cui all’art. 416-ter c.p. originariam contestato, anziché per il delitto di cui all’art. 86 del d.p.r. 570 del 1960 ritenuto giudice di primo grado. Nello specifico, ammettendo l’eventualità che il ricorrente fosse a conoscenza del meccanismo di compravendita dei voti, il ricorrente rileva che questo elemento non potrebbe condurre ad integrare gli estremi del delitto più grave ritenuto dal giudice dell’appello, in quanto il COGNOME, durante le elezioni del 2017, ricopriva il ruolo segretario e rappresentante di lista del Nuovo Partito Socialista Italiano, non riuscendo tuttavia ad ottenere preferenze sufficienti. Pertanto, afferma la difesa, è illogico ritene che l’imputato abbia favorito, con la sostituzione ai reali intestatari delle tessere, al compagini elettorali, quali quelle del COGNOME, del COGNOME o del COGNOME, a discapito del proprio interesse personale e politico ad ottenere un seggio con la sua lista. Ancora, il ricorso, richiamando la giurisprudenza di legittimità in materia di scambio elettoral politico mafioso, evidenzia come l’appartenenza alla consorteria criminale del soggetto che si impegna a reclutare i voti non sia una prova sufficiente ai fini della configurabili del delitto di cui al 416-ter c.p., essendo necessaria anche la prova della stipulazione di un accordo che contempli l’utilizzo del metodo mafioso nell’attività di procacciamento dei voti, mentre la Corte territoriale non avrebbe fornito alcuna prova di tale accordo. In aggiunta, la difesa ritiene che la Corte non avrebbe articolato argomentazioni sufficienti per motivare la consapevolezza dell’imputato di favorire, con la sua condotta, gli interessi della compagine mafiosa. Infatti la sentenza si affiderebbe unicamente alle risultanze di alcune intercettazioni che, tuttavia, non hanno mai visto il Petito come interlocutore diretto e non trovano riscontro nemmeno nelle due conversazioni telefoniche intercors
tra il COGNOME e il COGNOME nel luglio 2017, durante le quali non si fa mai menzione ad esponenti dei clan locali.
2.15.3 Con il quarto motivo vengono dedotti violazione di legge e vizi di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 c.p. in riferimen alla condotta corruttiva e perturbativa delle gare d’appalto indette dal Comune di Sant’Antimo contestatagli. In particolare, il ricorso lamenta la carenza di motivazione in relazione sia al dolo specifico di agevolazione mafiosa, sia all’individuazione delle condotte dell’imputato con le quali egli avrebbe effettivamente agevolato gli interessi della consorteria criminale.
2.15.4 Con il quinto motivo si deduce erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, al mancato contenimento della pena nei minimi edittali e, infine, alla determinazione degli aumenti a titolo di continuazione. Nello specifico, si lamenta che la Corte, ai fini dell determinazione del trattamento sanzionatorio, non avrebbe valutato il carattere occasionale e la scarsa offensività della condotta dell’imputato.
2.16 II ricorso relativo alla posizione di COGNOME NOME articola due motivi.
2.16.1 Con il primo motivo si deducono vizi di motivazione in relazione alla dichiarazione di responsabilità dell’imputato – identificato quale amministratore di fatto della societ RAGIONE_SOCIALE coinvolta nel sistema di illecito affidamento degli appalti oggetto contestazione – in quanto determinata da una illogica valutazione del compendio probatorio, specie dovendosi dare atto che, se dalle dichiarazioni ammissive dei coimputati non emerge alcun riferimento allo COGNOME, nemmeno le conversazioni intercorse tra quest’ultimo e il COGNOME dimostrerebbero, oltre ogni ragionevole dubbio, il diretto coinvolgimento del ricorrente nel delitto, specie in assenza di alcuna verific circa l’effettiva capacità reddituale dello stesso ai fini del contestato pagamento della tangente, essendosi in definitiva tale affermazione basata su mere supposizioni.
2.16.2 Con il secondo motivo si lamenta l’erronea applicazione della norma di cui all’art. 416-bis.1 comma 1 c.p. per avere la Corte territoriale ritenuto sussistente l’aggravante della finalità agevolativa della consorteria camorristica in capo a tutti i concorrenti n delitto, alla stregua di una circostanza oggettiva, in assenza quindi di congrua verifica circa le intenzioni che avrebbero animato ciascuno dei coimputati e, in particolare, non tenendo conto della condotta del COGNOME successiva alla mancata aggiudicazione dell’appalto, invero consistita nel tentativo di ottenere la restituzione della tangen pagata, la quale si spiegherebbe solo in relazione al previo intento non tanto di favorire il clan COGNOME, bensì i propri interessi.
3. Nell’interesse di COGNOME NOME sono stati depositati motivi nuovi dall’avv. NOME
COGNOME a sostegno delle censure proposte con il secondo motivo del ricorso principale, e
nell’interesse di COGNOME a sostegno delle censure proposte con il primo motivo di ricorso.
Ha proposto motivi nuovi nell’interesse di COGNOME e di COGNOME Antonio anche l’avv. NOME COGNOME lamentando, con riferimento alla posizione del primo, il difetto di motivazione rafforzata in merito alla condanna dell’imputato per i reati di cui ai capi 13) e 14) e, quanto alla posizione del secondo, il difetto della prova della natura partecipativa della condotta contestata e accertata.
Il difensore di COGNOME NOME ha depositato memoria con la quale ha ribadito le argomentazioni poste a fondamento del quarto motivo di ricorso.
Il difensore di COGNOME NOME ha depositato articolata memoria a confutazione del ricorso proposto dal Procuratore Generale.
4. Il difensore delle parti civili NOMECOGNOME COGNOME NOME e COGNOME NOME ha trasmesso conclusioni scritte, chiedendo la conferma della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Napoli avverso l’assoluzione di COGNOME NOME è inammissibile.
Il ricorrente si limita infatti ad evocare in maniera sommaria il contenuto delle prove che avevano portato il giudice di primo grado ad affermare la responsabilità dell’imputata e ad una critica meramente contestativa della decisione impugnata, omettendo però l’analitico confronto con la motivazione articolata dal giudice dell’appello a sostegno della stessa.
La Corte territoriale ha infatti preso in esame ognuno degli elementi fondanti l’accusa, evidenziando le ragioni della loro ambivalenza ovvero quelle per cui gli stessi non possono effettivamente assurgere a prova della effettiva partecipazione della Puca all’associazione. In particolare, la sentenza ha evidenziato come alcune delle dichiarazioni dei collaboratori evocate dal giudice di primo grado si rivelino eccessivamente generiche, non individuando i comportamenti concretamente tenuti dall’imputata in grado di rappresentare effettivi sintomi dell’organicità della stessa al sodalizio, ovvero risultino prive di riscon individualizzanti. Sotto altro profilo la Corte ha sottolineato come altre delle vicend ritenute in primo grado rivelatrici dell’intraneità della COGNOME, tenuto conto dei vinco familiari che la legano ai vertici del clan camorristico, non hanno una univoca chiave di lettura sulla base della evidenza disponibile, consentendo plausibili interpretazioni alternative a quella ipotizzata dall’accusa in merito al movente dei comportamenti tenuti dall’imputata.
Con tale articolato apparato argomentativo, come detto, il ricorrente non si è compiutamente confrontato, non evidenziando perché il materiale probatorio valutato sarebbe stato illogicamente interpretato, né eventuali elementi eventualmente trascurati dal giudicante ed invece decisivi ai fini del riconoscimento della fondatezza dell’accusa.
Nemmeno ha pregio l’obiezione per cui il giudice dell’appello avrebbe esaminato in maniera parcellizzata il compendio probatorio di riferimento, posto che la mancata contestazione dei vizi rilevati dalla Corte in merito alla stessa attitudine di alcune prove fondare la giustificazione della condanna rendono intrinsecamente generico il rilievo, posto che è la stessa legittima ricostruzione di tale compendio ad essere stata messa in dubbio dalla sentenza impugnata. Né peraltro il ricorso rivela – limitandosi per l’appunto ad asserirlo, nel tentativo di trasferire sul giudice di legittimità l’indebito compi procedere alla valutazione delle prove evocate – in che termini e per quali ragioni una lettura coordinata di tutti gli elementi disponibili sarebbe in grado di evidenziare manifesta illogicità della motivazione della sentenza.
È inammissibile anche il ricorso di COGNOME NOME, che si rivela intrinsecamente generico e privo di qualsivoglia confronto con la motivazione della sentenza, che ha legittimamente giustificato il diniego delle attenuanti generiche in riferimento al numero e alla gravità dei fatti contestati (ex multis Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, COGNOME, Rv. 249163), motivando altresì in maniera tutt’altro che illogica sulla svalutazione delle tardive ammissioni dell’imputato.
Parimenti inammissibile è il ricorso di COGNOME, con il quale viene contestato il riconoscimento delle aggravanti, il giudizio di mera equivalenza delle stesse con le attenuanti generiche, nonché la dosimetria della pena e di quella applicata a titolo di aumento per la continuazione per i reati satellite. Il ricorrente ha invero rinunciato a motivi d’appello sul merito che però di fatto riesuma nel censurare l’esito del giudizio di bilanciamento fondato dalla Corte territoriale sulla lunga militanza dell’imputato, nonché, del tutto legittimamente, sul numero e sulla gravità dei reati e sui precedenti da cui risulta gravato, valutazione quest’ultima contrastata in maniera meramente contestativa con il ricorso. Quanto alla pena base (che è stata ridotta in appello), agli aumenti per la continuazione ed alle contestate aggravanti è presente nella sentenza ampia e logica motivazione con la quale le doglianze difensive non si confrontano in alcun modo.
Ed ancora inammissibile è anche il ricorso di NOME COGNOME il quale contesta l’attendibilità delle dichiarazioni eteroaccusatorie rese nei suoi confronti dal collaborator NOME Antonio in relazione al capo 44). Il ricorrente ripropone infatti le censure g sottoposte al giudice dell’appello e da questi confutate con motivazione con la quale non si confronta compiutamente. In particolare, la Corte ha ampiamente confutato la versione dell’imputato e giustificato in maniera logica le evidenziate discrasie tra il racconto res
dallo brio prima del suo pentimento e le dichiarazioni successivamente rese nel dibattimento di secondo grado, sottolineando invece i punti in cui i due narrati corrispondono nel contenuto essenziale. Inoltre, la sentenza, contrariamente a quanto eccepito, ha affrontato il tema relativo alla genesi della collaborazione dello brio, mentre il ricorso sostanzialmente omette di considerarla nella parte in cui la stessa individua i riscontri esterni alle dichiarazioni del collaboratore e ne apprezza la rilevanza, talché l sue doglianze si rivelano irrimediabilmente aspecifiche. Generici e versati in fatto sono infine i rilievi sulla presunta acrimonia nutrita dallo brio nei confronti dell’imputato e lo avrebbe determinato ad accusarlo, posto che la doglianza si fonda sul contenuto di alcune missive asseritamente trascurate dai giudici del merito e che vengono riportate in maniera incompleta, a tacere del fatto che il ricorrente omette di spiegare le ragioni della ritenuta decisività della circostanza.
3. Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME Claudio è nel suo complesso infondato. Il primo motivo, con il quale il ricorrente contesta, sotto il profilo della violazione di le la valutazione dell’attendibilità della confessione dell’imputato, è in realtà generico manifestamente infondato nella parte relativa all’affermazione di responsabilità. È lo stesso ricorso ad ammettere l’autosufficienza, correttamente ritenuta dalla Corte territoriale, ai fini probatori della confessione resa dal COGNOME, mentre generiche sono le censure del ricorrente relative ad un non meglio definito approfondimento della valutazione di tale confessione che il giudice del merito avrebbe omesso di operare. Quanto all’intercettazione ambientale citata dalla sentenza, è evidente come la stessa sia stata evocata al solo fine di illustrare il compendio probatorio assunto ai fini dell dimostrazione della consumazione del reato, ma è la stessa Corte ad escludere che la stessa abbia un qualche rilievo di riscontro individualizzante nei confronti dell’imputato laddove, per l’appunto, ritiene sufficiente ad integrare la prova della sua responsabilità le dichiarazioni autoaccusatorie rilasciate dal medesimo nel corso dei suoi interrogatori.
Con riguardo alla determinazione del trattamento sanzionatorio effettivamente il giudice dell’appello ha operato un improprio riferimento all’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 comma 1 c.p., che, pur originariamente contestata, non ha trovato applicazione perché all’imputato è stata riconosciuta l’attenuante della collaborazione di cui al terzo comma dello stesso articolo da ultimo citato. Sebbene espresso in maniera sintetica ed ambigua, dal tenore della motivazione emerge però in maniera chiara come il concetto che i giudici del merito hanno voluto esprimere sia quello della congruità dell’aumento per la continuazione disposto in riferimento ad un fatto che era stato commesso al fine di agevolare il sodalizio mafioso, indipendentemente, per l’appunto, dal fatto che la circostanza non dovesse poi essere formalmente considerata nel calcolo della pena. La censura dunque deve ritenersi infondata. Del tutto generica è, infine, la prospettazione
di presunti vizi di motivazione della sentenza impugnata svolta con il secondo motivo di ricorso.
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME NOME è fondato nei limiti e nei termin seguito esposti.
4.1 Quanto al mancato riconoscimento dell’attenuante speciale di cui all’art. 416-bis.1 comma 3 c.p., quella censurata è la valutazione fattuale operata dalla Corte in merito all’integrazione dei presupposti per il riconoscimento della citata norma di favore. E’ dunque escluso ricorrano gli estremi del dedotto vizio di cui all’art. 606 lett. b) c.p.p., riguarda l’erronea interpretazione della legge penale sostanziale (ossia, la sua inosservanza), ovvero l’erronea applicazione della stessa al caso concreto (e, dunque, l’erronea qualificazione giuridica del fatto o la sussunzione del caso concreto sotto fattispecie astratta), e va tenuto distinto dalla deduzione di un’erronea applicazione della legge in ragione di una carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, denunciabile esclusivamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, COGNOME, Rv. 268404).
4.2 Colgono invece nel segno le critiche svolte dal ricorrente alla motivazione della sentenza impugnata in merito al medesimo punto della decisione.
In proposito va anzitutto rammentato il consolidato insegnamento di questa Corte per cui il riconoscimento dell’attenuante in questione non può essere legata ad un mero atteggiamento di resipiscenza, ad una confessione delle proprie responsabilità o alla descrizione di circostanze di secondaria importanza, ma richiede una concreta e fattiva attività di collaborazione dell’imputato, volta ad evitare che l’attività delittuosa sia port a conseguenze ulteriori e a coadiuvare gli organi inquirenti nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e la cattura degli autori dei delitti (ex multis Sez. 1, n. 52513 del 14/06/2018, L., Rv. 274190). Non di meno è stato altresì precisato che la suddetta attenuante si fonda sul mero presupposto dell’utilità obiettiva della collaborazione prestata dall’imputato, prescindendo dalla qualità degli elementi probatori già emersi e dalla spontaneità da parte del collaborante della revisione critica del proprio operato (Sez. 2, n. 18875 del 30/04/2021, NOME, Rv. 281287; Sez. 1, Sentenza n. 31413 del 19/06/2015, Ponticelli, Rv. 264756; Sez. 1, n. 48646 del 19/06/2015, Marti, Rv. 265851).
4.3 La linea argomentativa seguita dai giudici del merito per negare l’attenuante si fonda essenzialmente sul fatto che la scelta collaborativa dell’imputato sarebbe recente e che quindi sarebbe prematura ogni valutazione sull’effettività della dissociazione dal contesto camorristico di riferimento. Rileva poi la Corte che già prima dell’inizio della formale collaborazione lo COGNOME aveva reso dichiarazioni utili alla ricostruzione dei fatti per cui imputato e che successivamente si sarebbe limitato soltanto a precisazioni marginali del
precedente narrato, mentre la responsabilità dei correi accusati già era comprovata da altri elementi.
Il giudizio della Corte sullo spessore del contributo collaborativo dello COGNOME si rivela realtà contraddittorio alla luce dell’apprezzamento sulla decisività delle sue dichiarazioni svolto in occasione della trattazione della posizione di altri imputati (ad esempio quelle dell’COGNOME e del COGNOME). Non è poi discriminante il fatto che in parte le dichiarazioni dello brio, dopo la formalizzazione della scelta collaborativa, abbiano confermato o solo precisato quelle rese dallo stesso precedentemente, ma nel corso del medesimo procedimento. Peraltro, la Corte ha omesso di chiarire quale sia stato l’effettivo spessore di tali precisazioni e quale il loro impatto sul consolidamento del compendio probatorio, ammantando di una certa apoditticità la propria affermazione. Quanto, infine, al fatto che la scelta collaborativa dello Iorio sarebbe troppo recente per essere valutata, la sentenza sembra dimenticare che la valenza dissociativa di tale scelta deve essere vagliata, come già ricordato, sulla base dell’effettivo spessore e utilità del contributo collaborativo.
4.4. Sono invece infondate le censure relative al mancato assorbimento del reato di detenzione di materiale esplodente in quello di porto dello stesso. La Corte territoriale ha correttamente escluso tale eventualità facendo buon governo dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità per cui, in tema di reati concernenti le armi, il delitto di p illegale assorbe per continenza quello di detenzione, escludendone il concorso materiale, solo quando la detenzione dell’arma inizi contestualmente al porto della medesima in luogo pubblico e sussista altresì la prova che l’arma o l’esplosivo non siano stati in precedenza detenuti (ex multis Sez. 1, n. 27343 del 04/03/2021, COGNOME, Rv. 281668). In particolare la sentenza ha escluso sia stata acquisita la prova della contestualità tra le due condotte, peraltro ancorata dal ricorrente ad un brano delle dichiarazioni dell’imputato tutt’altro che inequivocabile nel senso preteso quanto al suo significante talché l’obiezione si traduce in una mera censura di merito – mentre il ricorso non si è nemmeno compiutamente confrontato con le argomentazioni svolte dalla Corte per giustificare la conclusione circa l’anteriorità della detenzione rispetto al porto che h portato alla collocazione degli ordigni esplosivi.
4.5 In conclusione limitatamente al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 416-bis.1 comma 3 c.p. la sentenza deve essere annullata, mentre nel resto il ricorso deve essere rigettato.
Il ricorso di COGNOME risulta nel suo complesso infondato e deve conseguentemente essere rigettato.
5.1 In particolare sono infondati i primi due motivi di ricorso.
5.1.1 Anzitutto deve rilevarsi come l’orientamento giurisprudenziale evocato dal ricorrente a sostegno dell’eccepita violazione dell’art. 603 comma 3-bis c.p.p. è in realtà minoritario nella giurisprudenza della Corte, nella quale prevale il diverso indirizzo,
condiviso dal Collegio, per cui il giudice d’appello che riqualifichi in peius il fatto contestato all’imputato in base ad una differente valutazione della prova dichiarativa, non contestata nel suo contenuto, non è tenuto, ai sensi della norma processuale menzionata, alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (ex multis Sez. 2, n. 3129 del 30/11/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285826; Sez. 5, n. 2493 del 21/11/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285782; Sez. 5 – , Sentenza n. 36824 del 13/07/2023, C., Rv. 284913; Sez. 6, n. 5769 del 27/11/2019, dep. 2020, COGNOME Rv. 278210),
5.1.2 Ma anche a prescindere da tale aspetto, il ricorso omette di considerare come nel caso di specie il giudizio di primo grado sia stato celebrato nelle forme del rito abbreviato non condizionato. Ed in tal senso va allora ribadito il principio per cui la regola processual sulla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale di cui all’art. 603, comma 3-bis, c.p. come modificato dall’art. 34, comma 1, lett. i), n. 1), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, vigore a far data dal 30 dicembre 2022, trova immediata applicazione nel giudizio di appello, in assenza di disposizioni transitorie e in base al principio tempus regit actum (ex multis Sez. 3, n. 10691 del 10/01/2024, S., Rv. 286089; Sez. 5, n. 49667 del 10/11/2023, COGNOME, Rv. 285490; Sez. 1, n. 48565 del 11/10/2023, COGNOME, Rv. 285672).
5.1.3 Non è in dubbio, infatti, che il testo originario della norma (introdotta dalla I. n. del 2017) comportava l’obbligo di rinnovare le prove dichiarative decisive oggetto di diversa valutazione in caso di riforma in appello della sentenza di primo grado, anche se pronunziata a seguito di giudizio abbreviato e che la violazione di tale obbligo determinava una nullità di ordine generale a regime intermedio della sentenza d’appello, denunciabile in sede di giudizio di legittimità (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785; Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267488).
Non di meno il citato d.lgs. n. 150 del 2022 ha rinnodulato l’ambito di applicazione della suddetta disposizione, circoscrivendo espressamente l’obbligo di rinnovazione alle prove dichiarative assunte nel corso del dibattimento di primo grado ovvero a seguito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato ai sensi degli artt. 438 comma 5 e 441 comma 5 c.p.p. È dunque escluso che il giudice dell’appello, il quale intenda riformare la sentenza di primo grado pronunziata a seguito di giudizio abbreviato, sia tenuto ad assumere l’esame delle fonti le cui dichiarazioni hanno costituito oggetto di una diversa valutazione.
5.1.4 Nè rileva che la modifica normativa sia entrata in vigore solo successivamente all’impugnazione della sentenza di primo grado ovvero all’avvio del giudizio d’appello, conclusosi, invece, nel caso di specie successivamente al 30 dicembre 2022.
Come noto, in tema di successione di leggi processuali nel tempo, con riferimento alla materia delle impugnazioni, le Sez. U n. 27614 del 29/03/2007, Lista, Rv. 236537, hanno stabilito che ai fini dell’individuazione del regime applicabile, in assenza di disposizio transitorie, deve farsi riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato
e non già a quello della proposizione dell’impugnazione. Per superare il conflitto tra disposizioni processuali che si succedono nel tempo, la sentenza suindicata ha evidenziato la necessità che si individui correttamente l’actus cui fare riferimento per fissare il corretto parametro intertemporale, parametro che, con specifico riferimento al campo processuale, è costituito dall’art. 11, primo comma, preleggi. Si è così precisato che l’atto «va considerato nel suo porsi in termini di autonomia rispetto agli altri atti dello stes processo», non potendosi accogliere una nozione indifferenziata di atto processuale. Ed infatti la citata pronunzia ha, in via esemplificativa, individuato alcune specie di a rispetto ai quali il parametro intertemporale finisce per essere diversamente modulato: «l’atto con effetti istantanei, che si esaurisce nel suo puntuale compimento»; l’atto ad esecuzione istantanea che però «presuppone una fase di preparazione e di deliberazione più o meno lunga», ancorato ad un altro atto che definisce la catena procedimentale divenendone centrale; l’atto «strumentale e preparatorio rispetto ad una successiva attività del procedimento», che realizza una fattispecie processuale complessa. In tal senso il Supremo Collegio ha inteso sottolineare come la tipologia cui è riconducibile il singolo atto processuale finisca necessariamente per condizionare la regola tempus regit actum nella sua concreta applicazione.
Successivamente Sez. Unite, n. 11586 del 30/09/2021, dep. 2022, D., Rv. 282808, in motivazione, hanno avuto modo di chiarire che il principio affermato dalla sentenza Lista si riferisce all’atto di impugnazione in senso stretto, che consente il passaggio al successivo grado di giudizio, ricompreso nella tipologia degli atti con effetti istantanei. E in tal senso la medesima pronunzia da ultima evocata ha invece escluso che lo stesso principio possa essere applicato alla disciplina introdotta nel 2017 nel comma 3-bis dell’art. 603 c.p.p., la quale «non è intervenuta a regolamentare in modo innovativo l’atto di impugnazione in quanto tale ovvero il regime stesso dell’impugnazione, ma ha introdotto una nuova regola processuale sulla istruttoria in appello». Nella necessità, dunque, di individuare l’actus per definire il corretto parametro intertemporale, le Sezioni Unite hanno riconosciuto che la regola posta dalla disposizione citata riguarda una regola procedimentale del giudizio di appello, che viene ad operare nel caso di ribaltamento della precedente decisione assolutoria, escludendo che in tal caso sussista alcun atto processuale già perfezionatosi e idoneo a produrre i propri effetti prima dell’entrata in vigore della legge n. 103 del 2017.
5.1.5 I principi affermati dalla sentenza da ultima menzionata non possono non trovare applicazione anche in riferimento all’ulteriore fenomeno successorio che ha interessato l’art. 603 comma 3-bis c.p.p., ossia quello dovuto alle già illustrate modifiche che la norma ha subito ad opera del d.lgs. n. 150 del 2022, atteso che, anche in questo caso, la questione di diritto intertemporale non riguarda un singolo atto che abbia esaurito i propri effetti, quale quello di impugnazione, bensì un procedimento riconnpreso nel giudizio di impugnazione, ancora non esaurito al momento dell’entrata in vigore della novella che ha
modificato la citata disposizione, rispetto al quale il principio tempus regit actum deve essere riferito al momento in cui l’atto complesso del procedimento stesso viene ad essere compiuto.
Ne consegue che, contrariamente a quanto eccepito dal ricorrente, legittimamente il giudice dell’appello non ha proceduto alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale i accordo con quanto previsto dal vigente testo del comma 3-bis dell’art. 603 c.p.p.
5.1.6 Quanto invece all’eccepito difetto di motivazione rafforzata, la censura è manifestamente infondata, atteso che la Corte territoriale ha ampiamente argomentato la propria decisione attraverso il necessario confronto con la motivazione della sentenza appellata, spiegando analiticamente le ragioni della rivalutazione del significato probatorio del compendio dichiarativo.
5.2 Anche il terzo motivo è infondato.
5.2.1 Va infatti ribadito che il patto elettorale integra il reato di cui all’art. 416anche quando viene concluso con soggetti appartenenti ad un sodalizio mafioso e non solo attraverso l’accettazione della promessa di procacciamento di voti tramite il metodo mafioso, atteso che le due ipotesi sono espressamente poste in rapporto di alternatività, giacché il legislatore ha ritenuto implicita nella conclusione del negozio illecito con soggetto appartenente alla consorteria criminale l’accettazione del ricorso al metodo tipizzato dall’art. 416-bis comma 3 c.p. proprio della medesima (Sez. 6, n. 25302 del 19/05/2015, COGNOME, Rv. 263845; Sez. 6, 16397 del 03/03/2016, La Rupa, Rv. 266738). Ed in tal senso le modifiche apportate dalla I. n. 43 del 2019 hanno reso esplicito un contenuto della norma incriminatrice già ritenuto implicito nella sua precedente formulazione dovuta alla I. n. 62 del 2014. Solo qualora sia comprovato, dunque, che il soggetto che si impegna a reclutare i suffragi, pur essendo intraneo ad una consorteria mafiosa, operi uti singulus, è necessaria la prova che l’accordo contempli l’attuazione, o la programmazione, di un’attività di procacciamento di voti con metodo mafioso (Sez. 6, n. 15425 del 12/12/2022, dep. 2023, Lombardo, Rv. 284583).
5.2.2 Nel caso di specie la Corte territoriale, con motivazione non manifestamente illogica e coerente alle risultanze esposte, ha affermato l’esistenza di un consolidato accordo tra gli esponenti delle organizzazioni mafiose territoriali e uomini politici o loro intermedi in forza del quale i clan mettevano a disposizione dei candidati di volta in volta indicati proprio “bacino” di voti, ricevendo in cambio dai secondi denaro e altre utilità. In quest contesto, la sentenza ha riconosciuto il ruolo svolto dal Petito, il quale, durante le elezio comunali del 2017 al Comune di Sant’Antinno, avrebbe manipolato la campagna elettorale, servendosi anche del ruolo di presidente ricoperto dalla figlia in uno dei seggi elettoral comunali. Quanto alla consapevolezza dell’imputato di negoziare il consenso elettorale con il sodalizio e non con un suo singolo componente che agiva in proprio, la sentenza ha fornito ampia motivazione alle p. 68 e 123, con la quale il ricorso sostanzialmente non si è confrontato. Nel resto quelle del ricorrente si rivelano mere censure in fatto tese a
sollecitare questa Corte ad una rivalutazione del compendio probatorio aggirando nuovamente il necessario confronto con la motivazione della sentenza impugnata, che ha, in maniera articolata e logicamente argomentata, giustificato le conclusioni assunte in merito al significato delle evidenze che hanno costituito la piattaforma cognitiva sulla base della quale i giudici del merito hanno assunto la decisione censurata.
5.3. Infondato è ancora il quarto motivo. In proposito va anzitutto ribadito l’insegnamento delle Sezioni Unite per cui la circostanza aggravante dell’aver agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso ha natura soggettiva inerendo ai motivi a delinquere, e che la stessa si comunica al concorrente nel reato che, pur non animato da tale scopo, sia consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal compartecipe (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278734). Ed in tal senso deve ritenersi più che adeguata la motivazione resa dalla Corte a p. 123 della sentenza circa la consapevolezza dell’imputato di agevolare la perpetrazione del c.d. “sistema Valentino” attraverso le condotte corruttive e perturbative contestategli, nonché dell’interesse del locale sodalizio mafioso alla gestione del medesimo.
5.4 Inammissibili in quanto mere censure in fatto sono infine le doglianze proposte con il quinto motivo in merito alla commisurazione del trattamento sanzionatorio, posto che la Corte ha giustificato, anche in relazione agli aumenti disposti per la continuazione, le proprie scelte. Il motivo si rivela altresì manifestamente infondato nella parte in cu lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche, invero riconosciute all’imputato sin dal primo grado di giudizio.
Devono essere rigettati perché nel loro complesso infondati anche i ricorsi di COGNOME NOME, NOME e COGNOME NOME.
6.1 Entrambi i primi due ricorrenti, condannati per corruzione e turbata libertà degli incanti, contestano esclusivamente la sussistenza dell’aggravante mafiosa, riconosciuta dai giudici del merito con riferimento all’ipotesi dell’agevolazione dell’attività del sodali camorristico operante in Sant’Antinno.
In proposito le doglianze comuni ai due ricorsi sono, come detto, infondate, posto che la circostanza aggravante dell’aver agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni d tipo mafioso ha sì natura soggettiva, inerendo ai motivi a delinquere, ma come già ricordato in precedenza, per consolidato insegnamento di questa Corte si comunica al concorrente nel reato che, pur non animato da tale scopo, sia consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal compartecipe (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, cit.). In tal senso è dunque irrilevante che gli imputati non perseguissero intenzionalmente lo scopo agevolativo o che comunque siano stati animati da moventi egoistici, rimanendo sufficiente per la configurabilità della suddetta aggravante il fatto che essi siano stati conoscenza che altri concorrenti intendessero, attraverso i reati contestati, agevolare il clan camorristico. Circostanza la cui dimostrazione trova puntuale e logica dimostrazione
nella motivazione della sentenza impugnata, che, contrariamente a quanto eccepito, ha individuato nel COGNOME il soggetto dedito al perseguimento della specifica finalità che ha caratterizzato i fatti contestati. Né colgono nel segno le censure relative al argomentazioni articolate dalla Corte per comprovare la consapevolezza da parte degli imputati del consolidato interesse del sodalizio alla gestione nel territorio di riferime degli appalti. Infatti, sia il coinvolgimento del COGNOME in una pregressa analoga vicend – caratterizzata significativamente dalla corruzione del medesimo pubblico funzionario -, che l’intervento di uno dei vertici del sodalizio per soddisfare le pretese risarcitorie de stesso, una volta che all’azione corruttiva non era seguita l’aggiudicazione dell’appalto, sono circostanze tutt’altro che illogicamente valorizzate dai giudici del merito al fine ritenere che l’imputato fosse consapevole del coinvolgimento del sodalizio nell’operazione corruttiva e della finalità agevolativa dello stesso cui la medesima mirava. Non di meno entrambi i ricorsi non si confrontano compiutamente con la valutazione complessiva della dinamica della vicenda operata dai giudici del merito.
Mere censure di fatto sono quelle formulate dal Battista in relazione al fallimento dell’operazione corruttiva, da cui il ricorrente, ricorrendo ad un paralogismo, pretende di inferire l’estraneità della stessa al sistema di controllo operato dal sodalizio sulla gesti degli appalti del comune di Sant’Antimo. Contrariamente a quanto eccepito dal ricorrente, invece, la sentenza non ha per nulla travisato l’intercettazione evocata dal ricorrente, né l’episodio relativo al versamento di tangenti in occasione della pregressa aggiudicazione di un altro appalto. La Corte territoriale non ha infatti affermato che l’imputato sia sta protagonista diretto dei due episodi in questione, menzionati al solo fine di evidenziare la consapevolezza del COGNOME di rapportarsi con i clan e la loro gestione degli appalt attraverso il c.d. “sistema Valentino”. Una volta stabilito questo punto i giudici del meri hanno, in maniera tutt’altro che illogica, desunto la pari consapevolezza del Battista di agevolare, accedendo al suddetto meccanismo di distribuzione degli appalti, gli interessi del sodalizio camorristico da un ragionamento tutt’altro che manifestamente illogico incentrato sui rapporti dell’imputato con il genero e dal suo coinvolgimento nella gestione dell’impresa, conclusione altrettanto logicamente ritenuta avvalorata dal contenuto della conversazione intercettata tra il COGNOME e il COGNOME parimenti citata nel provvedimento impugnato e sostanzialmente ignorata dal ricorrente.
6.2 n ricorso dello COGNOME è in realtà infondato al limite dell’inammissibilità. ricorrente è imputato dei medesimi fatti contestati al COGNOME ed al COGNOME nei qual stato ritenuto concorrere avendo contribuito alla formazione della provvista necessaria per il pagamento della tangente versata al fine dell’aggiudicazione dell’appalto, poi non conseguito. In proposito il primo motivo di ricorso si rivela assertivo e meramente contestativo, privo di un effettivo confronto con la motivazione della sentenza, che ha tratto dal compendio intercettivo in maniera tutt’altro che illogica la prova del concors dell’imputato nei reati per i quali è stato condannato, mentre mere censure in fatto si
rivelano quelle relative all’interpretazione delle conversazioni intercettate. Il second motivo risulta intrinsecamente generico, nella misura in cui, invero, le doglianze articolate riguardano la motivazione della sentenza di primo grado, senza nemmeno prendere in considerazione il contenuto di quella impugnata e senza argomentare perché quest’ultima non avrebbe validamente confutato i rilievi svolti con il gravame di merito.
Il ricorso e i motivi nuovi di Puca Antimo sono fondati nei limiti e nei termini di segu esposti.
7.1 L’imputato ha rinunciato ai motivi d’appello sul merito delle accuse, salvo quelli sull riqualificazione del reato associativo in quello di concorso esterno ed alla circoscrizione temporale della condotta partecipativa, nonché a quelli relativi alla revisione del giudizio di equivalenza delle attenuanti generiche con le contestate aggravanti ed alla commisurazione degli aumenti per la continuazione.
In realtà, sia con il motivo relativo alla confisca che con quello ad oggetto il trattament sanzionatorio il ricorrente ripropone alcune delle argomentazioni poste a fondamento delle doglianze rinunciate, nel tentativo di accreditare la sua sostanziale estraneità ai fat contestati o quantomeno il difetto della prova della sua colpevolezza, ma si tratta ovviamente di impostazione inammissibile, atteso che, una volta rinunciato al gravame in merito alla propria responsabilità per i medesimi fatti, sul loro accertamento e sull’attribuzione degli stessi al Puca si è formato il giudicato, con conseguente preclusione alla ulteriore trattazione in questa sede di questioni che tali punti attengono e che non può essere aggirata contestando il riferimento alla configurazione dei suddetti fatti posta dal giudice dell’appello a fondamento della propria decisione in merito al trattamento sanzionatorio (Sez. 1, n. 49341 del 19/09/2023, COGNOME, Rv. 285610; Sez. 2, n. 47698 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 278006).
Va altresì precisato che le censure proposte in tal senso nemmeno riguardano gli unici profili di doglianza concernenti il merito delle contestazioni cui l’imputato non ha intes rinunziare nel giudizio d’appello, ossia quelli attinenti la derubricazione della condotta d partecipazione all’associazione in concorso esterno e la delimitazione temporale della medesima condotta.
Ciò premesso i rilievi proposti con il secondo motivo si rivelano essere mere censure in fatto, tese a sollecitare una rivalutazione da parte del giudice di legittimità del meri delle statuizioni sanzionatorie adottate dal giudice dell’appello (che peraltro ha riconosciuto all’imputato le attenuanti generiche in precedenza negate e diminuito la pena base del reato ritenuto più grave tra quelli contestati) e da quest’ultimo ampiamente giustificate in riferimento ai punti oggetto di doglianza con motivazione che il ricorso d fatto non ha confutato, risultando dunque del tutto generico.
7.2 A diverse conclusioni deve invece pervenirsi con riguardo alle restanti censure proposte con il primo motivo in riferimento alla confisca “allargata” disposta con le pronunzie di merito e ad oggetto un terreno e gli immobili costruiti sul medesimo.
Anche tenuto conto dei rilievi difensivi appare certo che almeno tre dei capannoni edificati sul terreno acquistato dall’imputato nel 1985 sono stati costruiti o completati nel periodo di partecipazione dell’imputato al sodalizio camorristico. Periodo che la Corte ha motivatamente individuato nell’intervallo compreso tra il 2000 ed il 2019, confutando comunque in maniera esaustiva le obiezioni del ricorrente volte a ridimensionare l’arco temporale della suddetta partecipazione, che, come già si è sottolineato, risultano in realtà in larga parte inammissibili.
La data di edificazione degli altri capannoni non appare altrettanto certa e sul punto la sentenza impugnata si rivela invero alquanto genericamente motivata. Con il gravame di merito l’imputato aveva però evidenziato una serie di elementi (rilievi aerofotogramnnetrici, risultanze cartografiche e così via) apparentemente idonei a dimostrare l’avvenuta edificazione di alcuni degli immobili in epoca anche significativamente antecedente a quella alla quale è stato fatto risalire l’inizio del partecipazione del Puca all’associazione o è accertato essere stati consumati gli ulteriori reati contestatigli ed eventualmente rilevanti ai fini dell’applicazione della misura ablativ E nel medesimo senso era stato perfino eccepito come alcuni dei beni oggetto di ablazione già esistevano al momento dell’acquisto del terreno, avvenuto, come detto, addirittura nel 1985. In proposito la Corte territoriale si è limitata sostanzialmente a porre l’accento sul recente accatastamento dei manufatti ed alla generica affermazione circa l’insufficiente valenza probatoria degli elementi allegati dalla difesa, pur non escludendo che alcune delle opere edificate sul terreno oggetto di confisca possano essere effettivamente essere state realizzate in epoca anteriore alla consumazione della condotta partecipativa.
7.3 Va allora ribadito che l’operatività della presunzione di illecito accumulo di cui all’a 240-bis c.p. non è indipendente dall’accertamento del tempo del commesso reato. Come questa Corte ha già avuto modo di sottolineare, è infatti necessario applicare un criterio di ragionevolezza temporale tra il momento di consumazione del reato-spia e quello di formazione dell’accumulo patrimoniale ritenuto sproporzionato al fine di non estendere retrospettivamente in maniera indiscriminata la misura ablativa a beni estranei al reato perché acquistati in un periodo di tempo eccessivamente antecedente alla sua commissione (ex multis Sez. 2, n. 52626 del 26/10/2018, COGNOME, Rv. 274468; cfr. sul punto anche Sez. U, n. 27421 del 25/02/2021, Crostella, Rv. 281561). In altri termini va ribadito che, se il valore del bene risulta sproporzionato rispetto al reddito dichiarato all’attività economica esercitata al momento del suo acquisto, ciò non è sufficiente a legittimare la sua ablazione qualora sussista una rilevante discrasia temporale tra il momento di tale acquisto e quello di consumazione del reato- spia.
A fronte delle specifiche allegazioni difensive, era dunque onere del giudice dell’appello spiegare le ragioni per cui effettivamente l’acquisto, l’edificazione o la trasformazione di tutti i beni immobili sottoposti a confisca sono da ritenersi connessi, secondo il citat criterio di ragionevolezza, al periodo di consumazione del reato-spia, senza che ciò ovviamente implicasse la necessità di dimostrare che i proventi eventualmente ricavati dalla realizzazione di quest’ultimo avesse fornito la provvista necessaria all’acquisizione o all’implementazione dei suddetti beni (Sez. 2, n. 3854 del 30/11/2021, dep. 2022, Aprovitola, Rv. 282687).
Onere che, come già detto, la sentenza non può ritenersi abbia assolto. Ed in proposito deve ritenersi altresì meramente congetturale ed anche ambigua l’evocazione della lunga militanza nel sodalizio dell’imputato, quasi a sostenere che la stessa travalichi il periodo cui pure i giudici del merito hanno fatto riferimento, atteso che la stessa sentenza precisa come i collaboratori che hanno accusato il COGNOME abbiano narrato di fatti accaduti in momenti che ricadono nell’intervallo temporale compreso tra il 2000 e il 2019. Irrilevante è poi l’argomento relativo all’insussistenza della prova certa dell’origine della provvist utilizzata prima del 2000 per l’acquisto del terreno e per l’edificazione dei primi capannoni, posto che se l’acquisizione del bene è anteriore alla consumazione del reato è anche anteriore al periodo che per definizione rientra nel fuoco della presunzione di illecito accumulo ed era dunque compito della Corte individuare quali elementi consentano sempre, si ripete, nei limiti del principio di ragionevolezza temporale – di estenderne validamente l’operatività.
Quanto al terreno acquistato nel 1985, certamente vale il principio giurisprudenziale per cui il sedime accede all’opera che è stata edificata su di esso di cui diviene parte inscindibile e della quale segue la sorte, poiché i due beni, sul piano economico e funzionale, devono essere valutati unitariamente, non potendo essere suscettibili di un’utilizzazione separata (ex multis Sez. 2, n. 40778 del 02/11/2021, Fasciani, Rv. 282195). Ma deve escludersi al contempo che il suddetto principio possa espandersi al punto da comportare l’ablazione di tutte le opere che insistono sul medesimo terreno e che presentino una effettiva autonomia strutturale e funzionale rispetto a quella legittimamente assoggettata a confisca e che, invece, non siano interessati dalla presunzione di illecito accumulo, poiché, altrimenti, la misura di sicurezza patrimoniale assumerebbe in definitiva i caratteri di una vera e propria sanzione.
7.4 Con riguardo alla conferma della confisca, dunque, la sentenza deve essere annullata, mentre nel resto il ricorso di Puca Antimo deve essere dichiarato inammissibile.
Il ricorso e i motivi nuovi proposti nell’interesse di COGNOME NOME sono fondati n limiti e nei termini di seguito esposti.
8.1 Invero il primo motivo è inammissibile. Deve infatti osservarsi come il ricorrente evochi la violazione della legge sostanziale e vizi di motivazione per giungere
sostanzialmente a prospettare una sorta di violazione del principio di correlazione, accusando i giudici del merito di aver fondato la prova della partecipazione del COGNOME all’associazione anche su fatti eccentrici rispetto a quelli cui si riferisce la condo specificamente contestatagli nell’imputazione. In tal modo la difesa ha cercato di aggirare l’intempestività dell’eccezione di fatto formulata, non avendo la nullità effettivamente dedotta costituito oggetto di devoluzione con il gravame di merito, il che impedisce che la stessa venga sollevata per la prima volta in questa sede (ex multis Sez. 4, n. 19043 del 29/03/2017, Privitera, Rv. 269886).
Ma anche volendo prescindere da tale aspetto, le doglianze difensive si rivelano comunque manifestamente infondate. L’oggetto della contestazione mossa all’imputato era, infatti, ben più ampio di quello presupposto nel ricorso, atteso che il passaggio dell’imputazione evocato dal ricorrente e concernente l’attività di collegamento tra il padre latitante ed alt componenti del sodalizio svolta dal COGNOME è solo una specificazione della più ampia condotta di partecipazione alla associazione descritta nella prima parte dell’imputazione e comunque contestata allo stesso, con la conseguenza che per nulla inconferenti sono gli ulteriori comportamenti valorizzati dai giudici del merito al fine di ritenere provata t condotta.
8.2 Quanto alle censure articolate con il secondo motivo, anzitutto versata in fatto e comunque infondata deve ritenersi l’obiezione per cui, nel periodo in cui si sarebbe manifestata l’operatività dell’imputato, il padre NOME COGNOME sarebbe stato invero già “espulso” dal sodalizio. In realtà dalla sentenza impugnata – e non solo dal paragrafo dedicato al ricorrente – si ricava come nel clan COGNOME si erano registrate importanti fibrillazioni a causa dei contrasti insorti tra i suoi esponenti apicali e che era in corso vero e proprio scontro che vedeva contrapposto il COGNOME COGNOME ed i figli di COGNOME NOME, nel cui ambito si inserisce, tra l’altro, proprio l’episodio del recapito al NOME da parte dell’imputato di una missiva proveniente dal padre, dal cui contenuto i giudici del merito hanno logicamente desunto come egli cercasse di rinsaldare le fila degli affiliati a lui fedeli e di avere l’appoggio dello storico alleato clan COGNOME. Tutto ciò significa necessariamente, come invece preteso con il ricorso, che il NOME COGNOME non fosse più intraneo all’associazione, né che al suo interno fosse isolato, avendo logicamente la sentenza ritenuto semplicemente che egli stesse lottando insieme ad altri componenti del sodalizio contro chi stava cercando di prendere il suo posto alla guida del medesimo. Quanto all’eccepito travisamento delle intercettazioni menzionate nella sentenza e poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, invano la difesa ha cercato di riferire la doglianza al significante di alcuni brani estrapolati dalle medesime, no risultando che la Corte abbia effettivamente travisato gli stessi, nel senso di affermare l’esistenza di parole o frasi invero mai pronunziate dai conversanti o viceversa ovvero di attribuire alle stesse significati che tracimano dal loro riconosciuto perimetro semantico. La doglianza attiene dunque all’interpretazione ed alla valutazione del significato
probatorio di tali captazioni e impropriamente viene correlata dal ricorrente al vizio di travisamento (ex multis Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos Santos, Rv. 283370). Va allora ribadito che l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715) e che costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, i cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (ex multis Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, COGNOME, Rv. 268389). Ed in tal senso va rilevato che il ricorrente non ha saputo evidenziare profili di effettiva e manifesta illogicità ne lettura del compendio intercettivo fornito dai giudici del merito al fine di ricostruir senso e il valore dimostrativo delle suddette captazioni in funzione della prova della natura dei contatti intrattenuti dall’imputato con il COGNOME. Le censure del ricorrente esauriscono dunque nel tentativo di sottoporre al giudice di legittimità una lettura alternativa del significato probatorio dei brani delle intercettazioni evocati nel ricorso cui cognizione esula dai compiti che allo stesso sono assegnati.
8.3 Colgono invece nel segno le residue doglianze del ricorrente. La Corte territoriale ha fondato la prova della organicità del COGNOME al sodalizio su quattro autonomi elementi, considerati convergenti nella dimostrazione dell’oggetto della contestazione. I primi tre concernono fatti (la consegna di una missiva affidatagli dal padre latitante, quella del supporto contenente le dichiarazioni rese dal COGNOME in altro procedimento, la discussione intrattenuta con il COGNOME in merito al mancato versamento dei proventi di un appalto) che sono stati ritenuti provati nella loro storicità – come detto, tutt’altro che illogicame – in forza delle risultanze del compendio intercettivo a cui si è fatto cenno in precedenza. Il quarto indizio dell’intraneità del COGNOME al sodalizio riguarda invece il ruolo di esat dei proventi derivanti dalla gestione del parcheggio di una discoteca che l’imputato avrebbe svolto su incarico del padre. In questo caso la prova del fatto è affidata alle dichiarazioni del collaboratore COGNOME il quale, secondo quanto esposto in sentenza, avrebbe riferito la circostanza per averne acquisito notizia de relato da altro affiliato al clan COGNOME. Anche al di là della mancata esplicitazione delle ragioni che hanno portato i giudici del merito ad identificare la fonte diretta dell’informazione con un soggetto determinato, non può che convenirsi con il ricorrente circa l’assertività della sentenza impugnata in merito all’esistenza di riscontri individualizzanti in grado di garantir l’attendibilità estrinseca delle suddette dichiarazioni. Riscontri che per l’appunto la Corte afferma sussistere, senza però individuarli, e che risultano invece necessari nella misura in cui, sempre sulla base di quanto esposto in sentenza, l’COGNOME non avrebbe indicato l’imputato quale appartenente al sodalizio, ma si sarebbe limitato a riferire la circostanza
descritta, che solo nella valutazione dei giudici del merito ha assunto valenza indiziante di tale appartenenza. In altri termini, non è in dubbio che il narrato dell’Esposit necessitasse di autonomi riscontri in ordine al suo specifico contenuto e che questi non sono stati per l’appunto identificati dalla Corte territoriale, dovendo escludersi che tal possa essere considerato il narrato del collaboratore COGNOME avendo egli confermato sempre secondo quanto riportato in sentenza – soltanto che la gestione del menzionato parcheggio era stata effettivamente affidata al NOME COGNOME dichiarazione che non assume alcun rilievo individualizzante in riferimento alla posizione dell’imputato.
8.4 Gli evidenziati vizi della motivazione relativa alla valutazione probatoria dell dichiarazioni dell’COGNOME si riflettono anche sulla generale tenuta del discorso giustificativo della sentenza impugnata. Come illustrato in precedenza, infatti, i primi tr episodi valorizzati dalla sentenza, pur dimostrati dalla Corte nella loro oggettività, rivelan che effettivamente l’imputato ha intrattenuto dei rapporti con il sodalizio, ma in un arco temporale circoscritto ad otto mesi circa ed in costanza della latitanza del padre, mentre l’unico fatto in grado di comprovare il coinvolgimento del COGNOME nella gestione degli affari della cosca in epoca precedente, ancorché imprecisata, rimane quello ricavato dal narrato dal citato COGNOME con tutte le criticità che lo stesso comporta.
E’ allora necessario ricordare i consolidati approdi raggiunti dalla giurisprudenza legittimità nell’elaborazione della condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, secondo cui la stessa si caratterizza per lo stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione, idoneo, per le specifiche caratteristiche del caso concreto, ad attestare la sua ‘messa a disposizione’ in favore del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi (ex multis Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, COGNOME, Rv. 281889). In tal senso deve allora osservarsi che, nel giustificare l’affermata stabilità dell’inserimento dell’imputato nel sodalizio e la sua adesione al medesimo, la motivazione della sentenza si rivela quantomai assertiva, riducendosi sostanzialmente alla valutazione dello spessore del contributo prestato dal COGNOME al soddisfacimento dei contingenti interessi dell’associazione. A parte il fatto che tale argomentazione si attaglia logicamente soltanto all’episodio in cui l’imputato si è fatto latore degli atti relati procedimento intentato nei confronti del padre per omicidio, la stessa non appare decisiva, come invece preteso dai giudici del merito, risultando compatibile anche con la diversa qualificazione giuridica del fatto invocata dalla difesa, ossia quella di concorso esterno in associazione mafiosa. Ma soprattutto non si confronta compiutamente con il contesto nel quale sono state realizzate le condotte contestate e che pure il provvedimento impugnato ha ricostruito: la latitanza di NOME COGNOME e il già ricordato conflitto interno al sodalizio che questi stava fronteggiando; la circostanza, per l’appunto, che nelle due altre occasioni in cui l’imputato ha avuto un contatto con esponenti dell’associazione abbia agito, all’evidenza, per conto e comunque nell’interesse del padre;
l’esiguità dei contatti intrattenuti con gli esponenti della cosca; l’assenza di ulter elementi indicativi di un concreto coinvolgimento dell’imputato nella vita associativa. 8.5 In definitiva la motivazione appare dunque carente nella ricostruzione della fattispecie concreta e nella conseguente valutazione della sua qualificazione giuridica, sia con riferimento alla ritenuta intraneità dell’imputato al sodalizio, che all’eventua sussumibilità della sua complessiva condotta nel paradigma del concorso esterno. Conseguentemente la sentenza deve essere annullata.
Il ricorso e i motivi nuovi di NOME COGNOME sono parzialmente fondati.
9.1 In realtà è nel suo complesso infondato il secondo motivo con il quale viene censurata la conferma della condanna dell’imputato per l’estorsione aggravata ai danni dell’impresa di pompe funebri di NOME COGNOME, contestata al capo 19) dell’imputazione. La decisione della Corte si fonda sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia COGNOME NOME e COGNOME NOME, i quali hanno riferito degli episodi estorsivi perpetrati nei confronti del COGNOME e delle violente azioni realizzate ai danni di coloro che avevano cercato di avviare nel territorio di riferimento attività concorrenziali nel medesimo settore in cui operava il citato imprenditore.
Anzitutto risultano per l’appunto infondate e sostanzialmente meramente reiterative le obiezioni attraverso le quali il ricorrente ha cercato di accreditare il sostanzia travisamento del narrato dei due collaboratori in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel tentativo di negare la discordanza delle rispettive dichiarazioni eccepito dalla difesa. Il giudice del merito, infatti, ha sottolineato come il COGNOME ed il COGNOME collochino gli episod oggetto delle rispettive narrazioni in anni diversi, desumendone logicamente che si tratti di fatti diversi, ancorché riconducibili alla medesima vicenda estorsiva, ed ha altresì evidenziato, con motivazione coerente alle risultanze esposte e di fatto non compiutamente confutata dal ricorrente, come in realtà le rilevate discrasie risultino più apparenti che reali.
Quanto alla denegata derubricazione del fatto nel meno grave reato di cui all’art. 513-bis c.p., le doglianze difensive sono in definitiva inammissibili, perché prive di un effettivo compiuto confronto con la motivazione della sentenza sul punto. In proposito va anzitutto ribadito che il dedotto vizio di cui all’art. 606, comma primo, lett. b) c.p.p. riguar l’erronea interpretazione della legge penale sostanziale (ossia, la sua inosservanza), ovvero l’erronea applicazione della stessa al caso concreto (e, dunque, l’erronea qualificazione giuridica del fatto o la sussunzione del caso concreto sotto fattispecie astratta), e va tenuto distinto dalla deduzione di un’erronea applicazione della legge in ragione di una carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, denunciabile esclusivamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione. (Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, COGNOME, Rv. 268404). E le doglianze del ricorrente attengono per l’appunto alla ricostruzione della fattispecie concreta, rilevando dunque esclusivamente sotto il
profilo degli eventuali vizi della motivazione del provvedimento impugnato. In tal senso, come accennato, deve ritenersi che la Corte abbia però logicamente ed efficacemente confutato le obiezioni difensive, evidenziando come il COGNOME sia stato indubbiamente vittima di una estorsione, non essendo la posizione di monopolista da lui assunta nell’ambito locale frutto di una sua libera scelta imprenditoriale, bensì dell’imposizione del sodalizio che aveva concordato con gli altri clan la spartizione del territorio in zone esclusiva influenza al fine di garantire ad ognuno di essi la massima reddittività del “pizzo” imposto alle imprese di riferimento. Ed in tal senso l’attività intimidatoria svol dall’imputato e dai suoi sodali nei confronti di coloro che cercavano di penetrare il proprio mercato “protetto” correttamente è stata ritenuta funzionale a tutelare l’interesse del clan alla massimizzazione dell’illecito profitto derivante dalla “tassa” imposta al NOME e non tanto di quello di quest’ultimo.
9.2 Nel loro complesso infondate e invero in larga parte inammissibili sono anche le censure articolate nel terzo e quarto motivo di ricorso con riguardo ai reati di corruzione e di turbata libertà degli incanti contestati ai capi da 30) a 33).
Le doglianze relative al significato probatorio dei dialoghi oggetto delle intercettazion evocate dalla sentenza si riducono invero a mere censure di fatto fondate su una interpretazione soggettivamente orientata degli stessi, senza che peraltro il ricorrente abbia saputo evidenziare effettivi profili di manifesta illogicità nella lettura che ne hann fatto i giudici del merito. E ciò vale anche per l’intercettazione della conversazione tra COGNOME e COGNOME, di cui il ricorrente assume il travisamento, mentre in realtà quello che mette in discussione non è, come asseritamente sostenuto, il significante del dialogo
La Corte territoriale, contrariamente a quanto eccepito, ha in realtà risposto alle sollecitazioni difensive ed ha valutato il compendio probatorio di riferimento in relazione ad entrambe le vicende oggetto delle imputazioni sopra richiamate in maniera coerente alle risultanze esposte. Così è stato per i rapporti tra il consorzio RAGIONE_SOCIALE nonché al ruolo ricoperto nel primo dalla moglie del COGNOME, come anche per l’apparente discrasia tra le dichiarazioni del COGNOME e il contenuto della conversazione intercettata tra Vergara e COGNOME.
9.3 Sono invece fondate alcune delle censure proposte con il primo motivo con riguardo alla condanna del COGNOME per il tentato omicidio del COGNOME e per i connessi reati in armi. 9.3.1 Come già accennato per tali reati la Corte territoriale, accogliendo l’appello del pubblico ministero, ha riformato la sentenza invece assolutoria pronunziata in primo grado (peraltro sintonica con la decisione favorevole all’imputato assunta precedentemente dal tribunale del riesame nel corso dell’incidente cautelare). La principale prova posta a fondamento della decisione dai giudici di merito è rappresentata dalle dichiarazioni dello stesso COGNOME il quale ha narrato che, già prima della consumazione dell’agguato ai suoi danni, era stato informato da COGNOME NOME circa il fatto che il COGNOME aveva maturato propositi omicidiari nei suoi confronti a causa di contrasti
intervenuti tra i due in ordine alla gestione economica del sodalizio, circostanza che successivamente all’attentato gli fu confermata anche da COGNOME NOME. In particolare, secondo quanto riportato dalla sentenza, il collaboratore ha riferito che, secondo quanto confidatogli dalle citate fonti, la decisione di colpirlo era stata assunta congiuntamente dal clan COGNOME e dal clan COGNOME nel corso di una riunione, all’esito della quale si era però deciso di limitare l’azione punitiva alla mera gambizzazione del collaboratore. L’ulteriore prova valorizzata dalla Corte, anche come riscontro al narrato del COGNOME, è costituita invece dall’intercettazione di una conversazione intervenuta tra il COGNOME ed il COGNOME nel corso del quale era stata esplicitamente evocata la volontà del COGNOME di uccidere il COGNOME.
9.3.2 Nel giudizio d’appello la Corte territoriale ha disposto la rinnovazione dell’istruttor dibattimentale, procedendo anzitutto all’audizione del COGNOME, al fine di superare i dubbi evidenziati dal giudice di primo grado in merito alla tenuta probatoria delle dichiarazioni rilasciate dal medesimo nel 2017 nell’interrogatorio reso nel corso delle indagini preliminari. In secondo luogo, è stata disposta, su richiesta della difesa, l’audizione del COGNOME e del COGNOME in quanto fonti di riferimento di quanto riportato de relato dal COGNOME. Mentre il primo si è avvalso della facoltà di non rispondere, il secondo ha invece sostanzialmente negato di aver mai rivelato al collaboratore le circostanze da quest’ultimo riferite.
All’esito di tali audizioni il giudice dell’appello ha ritenuto che le precisazioni offerte COGNOME consentirebbero di superare le perplessità manifestate dal primo giudice ed in particolare ha sostenuto che la supposta contraddizione tra il progetto omicidiario maturato dal COGNOME e quanto deliberato nella riunione nella quale venne conferito il mandato per il mero ferimento del collaboratore in realtà non sussisterebbe. Infatti, secondo la Corte, dal compendio probatorio emergerebbe come l’attentato subito dal COGNOME nell’agosto del 2016 altro non sarebbe che la concreta traduzione del disegno originariamente coltivato dal COGNOME, posto che le concrete modalità esecutive dell’azione rivelerebbero, per l’appunto, l’intenzione di uccidere il collaboratore. Per converso la successiva deliberazione assunta nel corso della citata riunione (alla quale peraltro il COGNOME avrebbe partecipato) non avrebbe avuto alcun seguito.
Non è dubbio che, come rilevato dalla difesa, tale ricostruzione sia del tutto inedita. I dubbi proposti dalla sentenza di primo grado riguardavano, infatti, l’effettiva riconducibilità dell’attentato subito dal COGNOME – e che egli stesso aveva originariamente descritto come un tentativo di gambizzarlo, peraltro fallito – al progetto omicidiario COGNOME evocato nell’intercettazione di cui si è detto, incertezza ritenuta tradursi nel sostanziale assenza di riscontri realmente individualizzanti al narrato del collaboratore.
9.3.3 Venendo alle censure proposte dal ricorrente, certamente inammissibili si rivelano quelle relative all’attendibilità del COGNOME, in quanto versate in fatto o generiche. In t senso il ricorso non chiarisce la decisività dell’eventuale incertezza dimostrata dal COGNOME
nella datazione (2012 o 2013) dell’episodio che avrebbe dato origine alle tensioni con l’imputato. Il ricorrente invece non si è sostanzialmente confrontato con la risposta fornita dalla sentenza ai dubbi sulla attendibilità intrinseca del narrato del Lamino avanzati con il gravame di merito, nonché ai rilievi relativi alla presunta contraddittorietà tra le dichiarazioni del 2017 e quelle rese in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in merito alle ragioni della decisione assunta nel corso della riunione tra il clan COGNOME ed i clan Verde.
Può convenirsi con la difesa sul fatto che i giudici dell’appello non avrebbero colto l’effettivo senso della doglianza sollevata con la memoria difensiva depositata nel giudizio d’appello in merito al contenuto dell’intercettazione tra il COGNOME ed il COGNOME, ma brano della conversazione di cui si contesta l’attendibilità non rileva ai fini del fatto di si tratta e comunque riguarda un profilo marginale dell’omicidio COGNOME e dunque è meramente congetturale ricavarne, come fa il ricorso, l’inattendibilità di tutte l informazioni emergenti dalla conversazione captata.
Sempre con riguardo al contenuto della menzionata intercettazione, infine, il ricorrente omette nuovamente di confrontarsi compiutamente con la motivazione della sentenza, la quale ha già confutato in maniera logica e coerente con le risultanze processuali esposte l’obiezione difensiva relativa alla presunta genericità del contenuto della conversazione e, dunque, all’impossibilità di affermare con certezza che i conversanti avessero effettivamente fatto riferimento al COGNOME ed alla sua volontà di eliminare il Lamino.
9.3.4 Ciò premesso, il ricorso coglie invece nel segno, come accennato, nell’individuare il punto critico del discorso giustificativo sviluppato dai giudici del merito nell’affermazion per cui l’attentato subito dal Lamino non avrebbe alcun legame con la riunione tra il clan COGNOME e il clan Verde convocata per deliberare la sua punizione. La Corte territoriale, infatti, si è limitata a formulare questa, come detto, inedita ipotesi, senza però precisare in che modo la stessa debba ritenersi dimostrata sulla base del compendio probatorio di riferimento. La sentenza assume, in maniera del tutto apodittica, che la citata riunione si sarebbe tenuta successivamente alla consumazione dell’attentato subito dal collaboratore nell’agosto del 2016, ma non chiarisce da quale elemento sia stato ricavato tale dato, non poco decisivo per suffragare la tesi formulata dai giudici del merito. Per converso la Corte territoriale non ha manifestato dubbi sull’attendibilità del racconto del COGNOME, dal quale, per come riportato o sintetizzato nel provvedimento impugnato, apparentemente risulta invece che una sequenza degli eventi esattamente opposta.
Non è in dubbio che il COGNOME intendesse assassinare il COGNOME, atteso che tale intenzione è stata adeguatamente provata dai giudici del merito sulla base della sinergia realizzata dalle dichiarazioni del collaboratore e dal dialogo intercorso tra il COGNOME ed il COGNOME
Ma in maniera sostanzialmente congetturale la sentenza è giunta a ritenere che tale disegno omicidiario sia stato autonomamente realizzato dall’imputato. Né ha chiarito per
quale ragione allora sarebbe stato necessario convocare la riunione di cui si è detto e, soprattutto, perché vi avrebbe partecipato anche il COGNOME.
Invero la conclusione cui è pervenuta la Corte sembra fondarsi sulla convinzione che l’attentato perpetrato ai danni del collaboratore sia stato effettivamente un tentativo di omicidio e non già un’azione dimostrativa finalizzata al più a ferirlo. Ma anche su questo punto la valutazione dei giudici del merito risulta carente, non essendosi gli stessi confrontati con l’intero compendio probatorio acquisito. Che gli attentatori abbiano esploso più colpi è un fatto – anche se la Corte, come eccepito dal ricorrente, non si è confrontata compiutamente con gli accertamenti compiuti dalle forze dell’ordine in merito al numero di colpi – ma lo sono altrettanto, per come esposto in sentenza, che nessuno è andato a segno e che il COGNOME nel suo interrogatorio del 2017 aveva riferito come essi avessero apparentemente mirato alle sue gambe. Peraltro, le stesse modalità esecutive dell’azione criminale sono state a loro volta apprezzate, in una sorta di cortocircuito logico, al fine di sostenere la tesi del tentativo di omicidio proprio perché è risulta comprovata la volontà dell’imputato di sopprimere il COGNOME.
9.4 In conclusione, gli evidenziati vizi motivazionali comportano l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente ai capi 13) e 14), mentre nel resto il ricorso dell’imputato deve essere rigettato.
10. Il ricorso di COGNOME Vincenzo è nel suo complesso infondato e va dunque rigettato. 10.1 Quanto all’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni valorizzate a riscont delle dichiarazioni eteroaccusatorie del Lamino formulata con il primo motivo, il ricorrente fa leva sul principio affermato da Sez. 1, n. 34895 del 30/03/2022, COGNOME, Rv. 283499, per cui ai sensi ed agli effetti dell’art. 13 I. n. 203 del 1991, per delit “criminalità organizzata” devono intendersi tutti i reati di tipo associativo, anche comuni, correlati ad attività criminose più diverse, ai quali è riferito il richiamo ai delitti e nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p., con esclusione delle ipotesi di mero concorso nei delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero al fin di agevolarne l’attività.
Il ricorrente non considera però come, successivamente, il d.l. 10 agosto 2023, n. 105 (convertito con modificazioni nella I. 9 ottobre 2023, n. 137) il cui art. 1 ha superato g effetti della menzionata pronunzia, prevedendo al comma 1 che «Le disposizioni di cui all’articolo 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, si applicano anche nei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 452-quaterdecies e 630 del codice penale, ovvero commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale o al fine di agevolare l’attività delle associazio previste dallo stesso articolo» e al successivo comma 2 che «la disposizione del comma 1 si applica anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente
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decreto». In proposito questa Corte ha peraltro già avuto modo di chiarire che la disposizione introdotta dalla novella ha natura di norma interpretativa ed in quanto tale comunque deve ritenersi applicabile retroattivamente (Sez. 2, n. 47643 del 28/09/2023, Putignano, Rv. 285524).
Il motivo in esame sarebbe comunque, per altro verso, aspecifico nella misura in cui, nel lamentare l’inutilizzabilità delle menzionate intercettazioni, il ricorrente non provveduto ad illustrare la effettiva incidenza dell’eventuale eliminazione dei predetti elementi ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prov acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la lo espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimen (ex multis Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, Gumina, Rv. 269218). È infatti consolidato insegnamento di questa Corte che è onere della parte che eccepisce l’inutilizzabilità di atti processuali chiarirne la incidenza sul complessivo compendio indiziario già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvediment impugnato (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, COGNOME, Rv. 243416). Ed in tal senso deve per l’appunto osservarsi che il ricorrente si è limitato ad affermare la decisiva rilevanza esplicata dalle suddette intercettazioni nella valutazione compiuta dalla Corte territoriale dell’attendibilità estrinseca delle dichiarazioni del collaboratore COGNOME ma non ha spiegato perché gli altri riscontri evocati dal giudice del merito non sarebbero sufficient a garantire la tenuta dell’apparato argomentativo posto a giustificazione di tale valutazione.
Considerazioni analoghe possono essere svolte con riguardo all’ulteriore eccezione di inutilizzabilità sollevata con il sesto motivo di ricorso, che deve ritenersi inammissibile atteso che è lo stesso ricorrente a sottolineare come le intercettazioni disposte in un diverso procedimento non sarebbero indispensabili ai fini della prova del fatto contestato all’imputato.
10.2 Con il secondo motivo il ricorrente ripropone una serie di doglianze già sottoposte al giudice dell’appello e da quest’ultimo confutate con motivazione con la quale il ricorso non si confronta compiutamente, limitandosi a contestare in maniera assertiva le argomentazioni dalla Corte territoriale, senza individuare profili di manifesta illogicità n discorso giustificativo articolato in sentenza ovvero prospettando letture alternative del compendio probatorio valorizzato dai giudici del merito.
La Corte non è poi incorsa in alcun travisamento delle dichiarazioni del COGNOME in ordine alla dinamica ed alla tempistica dell’ascesa del NOME nell’Ufficio tecnico del Comune di Sant’Antinno, avendone fornito una interpretazione tutt’altro che contrastante con il significante del narrato del collaboratore, tanto più che è lo stesso ricorrente ad ammettere che l’assunzione a tempo indeterminato del suddetto NOME sia stata preceduta da una assunzione a tempo determinato (alla quale per il collaboratore avrebbe materialmente contribuito proprio l’imputato), circostanza che conferma l’affermazione
dei giudici del merito per cui l’assunzione definitiva, avvenuta quando il COGNOME già non era più consigliere comunale, era stata preparata tempo prima. Né la sentenza ha inteso attribuire direttamente allo stesso COGNOME la decisione relativa all’illecito annullamento del precedente concorso, ma piuttosto sottolineare come l’azione dell’imputato, sintonica alle decisioni assunte da COGNOME NOME, si sia inserita in un articolato disegno mirato a garantire alla cosca il controllo dell’ufficio amministrativo deputato a svolgere un ruolo determinante nell’assegnazione degli appalti.
Alcuna illogicità si rinviene nel passaggio argomentativo funzionale a dimostrare la costanza nel tempo dei rapporti tra l’imputato e il COGNOME, atteso che in proposito la sentenza si è limitata a trarre dall’intercettazione del 2010 soltanto la prova del fatto che i due erano ripromessi di coltivare i loro contatti con maggiore prudenza.
Manifestamente infondata è poi l’obiezione relativa al difetto di valore individualizzante dei riscontri individuati dai giudici del merito alle dichiarazioni del COGNOME perché no riferibili al thema probandum. In proposito va ricordato che i riscontri esterni evocati dall’art. 192 comma 3 c.p.p., ma, non predeterminati nella specie e qualità, possono essere costituiti da elementi di qualsiasi tipo e natura, tratti sia da dati obiettivi, fatti e documenti, sia da dichiarazioni di altri soggetti, purché siano idonei a convalidare aliunde l’attendibilità del dichiarante, fermo restando che oggetto di riscontro è la complessiva dichiarazione concernente un determinato episodio criminoso e non ciascuno dei particolari riferiti dallo stesso dichiarante. È invece escluso che il riscontro, per esse considerato tale, debba essere in grado di dimostrare autonomamente il fatto oggetto della propalazione. In tal senso, dunque, è irrilevante che le dichiarazioni del NOME e del teste NOME non attengano direttamente l’appartenenza del COGNOME al sodalizio mafioso, ma è sufficiente, come correttamente ritenuto dai giudici del merito, che le stesse confermino con valenza individualizzante l’attendibilità della dichiarazione del COGNOME circa il ruolo svolto dall’imputato nell’assunzione del primo, dalla quale la sentenza ha logicamente desunto la partecipazione al clan COGNOME.
Come già accennato, mere censure in fatto, peraltro in larga parte meramente assertive e generiche, sono quelle relative all’interpretazione delle intercettazioni valorizzate a riscontro delle dichiarazioni del collaboratore, essendo sufficiente in proposito richiamare i principi illustrati in precedenza al punto 8.2 nella trattazione del ricorso di COGNOME NOME. Inedite sono invece le doglianze relative all’omessa valutazione dell’attendibilità del NOME, atteso che il tema non aveva costituito oggetto di specifica devoluzione al giudice dell’appello, nonostante le dichiarazioni del coimputato fossero state poste anche dal giudice di primo grado a riscontro di quelle del Lamino. Conseguentemente da alcun onere motivazionale sul punto era gravata la Corte d’appello e il ricorrente non può lamentarsi in questa sede perché il profilo non è stato affrontato nella sentenza impugnata.
Quanto, infine, alla vicenda della RAGIONE_SOCIALE, la prova della percezione della tangente è stata ricavata dalla Corte dalle dichiarazioni del COGNOME, mentre la documentazione comprovante l’anomala gestione della relativa pratica è stata tutt’altro che illogicamente un valido riscontro a tali dichiarazioni.
10.3 Anche le censure proposte con il terzo motivo si rivelano nel loro complesso inammissibili, traducendosi in una rilettura alternativa e soggettivamente orientata del compendio probatorio finalizzata a negare l’intraneità del COGNOME al sodalizio camorristico. In realtà l’interpretazione fornita dalla Corte territoriale delle prove espos non presenta profili di evidente illogicità, mentre la sentenza ha ampiamente evidenziato le ragioni che l’hanno condotta ad escludere che il ruolo attribuibile all’imputato sia quello dell’imprenditore colluso con l’ambiente mafioso e comunque del concorrente esterno. Tutt’altro che apodittica è poi la motivazione della sentenza nel distinguere la posizione del COGNOME da quella dei fratelli COGNOME ed in proposito ad essere meramente assertive si rivelano in realtà le obiezioni del ricorrente.
10.4 Sono infine inammissibili anche il quarto ed il quinto motivo.
Anzitutto le censure del ricorrente non considerano il fatto che la Corte territoriale h ritenuto il trattamento sanzionatorio irrogato all’imputato proporzionato alla gravità del fatto sulla base della valutazione dello spessore del suo contributo alla vita del sodalizio. Rimane dunque generica la critica dell’ulteriore argomentazione articolata dal giudice dell’appello in riferimento all’applicazione dei minimi edittali di pena. In proposito v infatti ribadito che è inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione c si limiti alla critica di una sola delle rationes decidendi poste a fondamento della decisione, ove siano entrambe autonome ed autosufficienti, in quanto da una pronuncia favorevole su di esse non potrebbe derivare all’impugnante quella modificazione della sua situazione processuale in cui si sostanzia l’interesse che, per espresso dettato normativo, deve sottostare ad ogni impugnazione (Sez. 3, n. 30021 del 14/07/2011, F., Rv. 250972; Sez. 3, n. 27119 del 05/03/2015, P.G. in proc. COGNOME, Rv. 264267; Sez. 3, n. 2754 del 06/12/2017, Bimonte, Rv. 272448).
Non di meno il quarto motivo è anche manifestamente infondato, atteso che la sentenza ha motivatamente ritenuto che la partecipazione dell’imputato al sodalizio si sia esaurita non prima del 2016 e dunque successivamente all’entrata in vigore della legge n. 69 del 2015 che ha elevato le pene edittali previste dall’art. 416-bis c.p. Correttamente dunque il giudice dell’appello ha evidenziato come la pena irrogata in primo grado non fosse in ogni caso riducibile nella sua commisurazione in quanto già determinata nel minimo edittale. Inammissibili sono poi i rilievi svolti dalla difesa con i motivi nuovi in me proprio alla determinazione della data di cessazione della permanenza del reato in riferimento alla posizione dell’imputato. Non solo, infatti, la questione non aveva costituito oggetto di specifica deduzione con il ricorso principale, ma, soprattutto, il punto non era stato nemmeno devoluto al giudice dell’appello con il gravame di merito.
Generica e versata in fatto è infine la censura sulla mancata revisione del giudizio di bilanciamento tra le contestate aggravanti e le riconosciute attenuanti generiche, che mira esclusivamente a sollecitare questa Corte ad una rivalutazione del merito della decisione che non le compete, atteso che i giudici territoriali hanno sul punto argomentato in maniera più che adeguata.
11. I ricorsi proposti nell’interesse di COGNOME NOME, sostanzialmente sovrapponibili, sono nel loro complesso infondati.
La Corte territoriale ha fornito spiegazione tutt’altro che manifestamente illogica della discrasia tra il narrato del COGNOME e le risultanze della relazione di servizio relati all’attentato al centro clinico IGEA. Non è dubbio che dell’episodio della falsa confidenza il COGNOME abbia avuto conoscenza doppiamente indiretta ed infatti la Corte, al di là dello specifico episodio, ha valorizzato soprattutto la dichiarazione del collaboratore relativa alla natura del rapporto intercorrente tra l’imputato ed il COGNOME COGNOME che ha trovato specifico riscontro nel contenuto delle intercettazioni evocate dalla sentenza. Contenuto che entrambi i ricorsi affermano di non voler rivalutare nel merito, ma la cui interpretazione, soprattutto il ricorso dell’avv. COGNOME finisce per contestare attravers una lettura alternativa, senza però individuare, ancora una volta, profili di effetti illogicità in quanto ricostruito dai giudici del merito.
Non colgono nel segno nemmeno le doglianze relative alla qualificazione dei comportamenti attribuiti al COGNOME. La sentenza ripetutamente, anche trattando le posizioni di altri imputati, ha evidenziato come all’interno del clan COGNOME siano insorte delle tensioni, avendo una fazione messo in discussione la leadership del COGNOME COGNOME. I conseguenti tentativi del COGNOME di conservare la propria posizione di vertice rinserrando i ranghi dei soggetti a lui ritenuti più fedeli e cercando di trovare, sia all’interno all’esterno del clan, alleati in grado di favorire la sua resistenza devono considerarsi fisiologiche fibrillazioni che non mettono in discussione né l’esistenza, né l’unitariet dell’organizzazione criminale. Deve dunque ritenersi infondata la pretesa di escludere l’appartenenza associativa dell’imputato in ragione del fatto che l’evidenza disponibile abbia fotografato i comportamenti tenuti dal medesimo soprattutto in questa fase per agevolare l’azione del citato COGNOME. Deve invece ritenersi che la Corte territoriale abbia coerentemente ritenuto tali comportamenti rivelatori dell’organicità del COGNOME al sodalizio. Priva di profili di illogicità è altresì la spiegazione fornita dal giudice dell’a circa l’irrilevanza del fatto che il COGNOME non abbia specificamente definito l’imputato come intraneo al sodalizio, né peraltro con la motivazione sul punto resa dalla Corte territoriale i ricorsi si sono puntualmente confrontati.
Quanto infine all’episodio dell’autolavaggio, il provvedimento impugnato ha tutt’altro che illogicamente interpretato le frasi oggetto di captazione proprio alla luce degli esi compiuti dalla polizia giudiziaria. Ma anche volendo ritenere che quelle del Garofalo sian
state mere millanterie finalizzate ad accreditare con gli altri sodali il proprio ruolo salvif nella vicenda, comunque la circostanza assumerebbe una valenza indiziaria rispetto al fatto da provare, ossia e per l’appunto la sua appartenenza all’associazione.
Con riguardo alla configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 416-bis comma 6 c.p. le doglianze proposte nell’interesse del ricorrente sono del tutto aspecifiche, omettendo di confrontarsi con la motivazione della sentenza nel suo complesso, dalla quale emerge in maniera prorompente come la consorteria abbia profondamente condizionato la gestione degli appalti del comune di Sant’Antimo, favorendo e arricchendo le imprese sotto il loro controllo o comunque vicine al sodalizio, nonché si sia infiltrata nel mercato delle pompe funebri instaurando un monopolio nel territorio di riferimento.
Mere censure in fatto sono quelle relative al trattamento sanzionatorio, tanto più che, con riguardo al diniego delle attenuanti generiche il ricorrente lamenta l’omessa valorizzazione della sua incensuratezza, senza essere in grado di evidenziare ulteriori elementi eventualmente trascurati dalla Corte e rivelatori della meritevolezza di una rimodulazione della pena irrogata.
12. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di COGNOME NOME, nonché nei confronti di COGNOME, limitatamente alla confisca, di COGNOME NOME, limitatamente alla attenuante di cui all’art. 416-bis.1, comma 3, c.p., di COGNOME COGNOME, limitatamente ai capi 13) e 14) delle imputazioni, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. Nel resto il ricorso di COGNOME va dichiarato inammissibile, mentre quelli dello brio e del COGNOME COGNOME devono essere rigettati. Vanno rigettati altresì i ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME, COGNOME Claudio, COGNOME Michele, COGNOME NOME, COGNOME Luigi e COGNOME Vincenzo, che conseguentemente devono essere condannati al pagamento delle spese processuali. Vanno infine dichiarati inammissibili il ricorso del Procuratore Generale e quelli di COGNOME NOME, COGNOME Giuseppe e COGNOME; questi ultimi devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Nulla deve disporsi in favore delle parti civili che non hanno presentato le proprie conclusioni, né ha altrimenti esplicato, anche solo attraverso memorie scritte, un’attività diretta a contrastare l’avversa pretesa a tutela dei propri interessi di natura civil risarcitoria, fornendo un utile contributo alla decisione (Sez. U, n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 283886).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOMECOGNOME con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. Annulla, altresì, la sentenza
impugnata nei confronti di COGNOME limitatamente alla confisca, con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. Dichiara inammissibile
nel resto il ricorso di COGNOME Annulla la medesima sentenza nei confronti di NOME
NOME limitatamente alla attenuante di cui all’art. 416-bis.1, comma 3, cod. pen., con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. Rigetta
nel resto il ricorso di NOMECOGNOME Annulla, inoltre, la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME limitatamente ai capi 13) e 14) delle imputazioni, con rinvio per nuovo
esame sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. Rigetta nel resto il ricorso di COGNOME. Rigetta i ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME, COGNOME
NOME, NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME NOME, che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibile il ricorso del
Procuratore Generale. Dichiara, altresì, inammissibili i ricorsi di COGNOME Stefano, COGNOME
NOME e NOMECOGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Nulla per
le spese di parte civile.
Così deciso il 24/04/2024