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Associazione di tipo mafioso: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione, con la sentenza 14403 del 2024, ha esaminato i ricorsi di diversi imputati condannati per associazione di tipo mafioso e altri reati. Il caso riguardava una cellula criminale, considerata un’emanazione della ‘ndrangheta, operante nel nord Italia. La Corte ha confermato le condanne per la maggior parte degli imputati, chiarendo che per provare l’esistenza di una ‘mafia delocalizzata’ non è sempre necessario dimostrare nuovi e specifici atti di intimidazione nel territorio di insediamento, potendosi fare riferimento alla ‘fama criminale’ ereditata dall’organizzazione madre. Ha inoltre specificato i criteri di valutazione delle prove, come le sentenze definitive e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. La sentenza è stata parzialmente annullata con rinvio solo per un imputato, limitatamente a specifici aggravanti di un reato di estorsione, per difetto di motivazione.

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Pubblicato il 9 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Associazione di tipo mafioso ‘delocalizzata’: Criteri di prova e valutazione della Cassazione

La Corte di Cassazione, con una recente e articolata sentenza, è tornata a pronunciarsi su un tema cruciale nella lotta alla criminalità organizzata: l’associazione di tipo mafioso e, in particolare, i criteri per accertarne l’esistenza quando questa opera lontano dai suoi territori storici. La pronuncia analizza in profondità le regole probatorie e procedurali, offrendo principi guida fondamentali per i processi di mafia.

I Fatti del Processo

La vicenda giudiziaria ha origine da un’indagine coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di una grande città del nord Italia, volta a smantellare un sodalizio criminale ritenuto una ‘ndrina, ovvero una cellula della ‘ndrangheta. Gli imputati erano accusati, a vario titolo, di partecipazione ad associazione mafiosa, estorsioni, usura, accesso abusivo a sistemi informatici e altri reati.

Dopo una condanna in primo grado per alcuni e un’assoluzione per altri dal reato associativo, la Corte d’Appello aveva riformato parzialmente la decisione, condannando anche coloro che erano stati precedentemente assolti per il reato di associazione di tipo mafioso. Avverso tale sentenza, gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione, sollevando numerose questioni di legittimità.

L’analisi della Cassazione sull’associazione di tipo mafioso

La Suprema Corte ha rigettato la maggior parte dei ricorsi, confermando l’impianto accusatorio e la solidità della sentenza d’appello. Le motivazioni della Corte offrono chiarimenti essenziali su diversi profili giuridici.

Prova dell’associazione e metodo mafioso ‘delocalizzato’

Uno dei punti centrali del dibattito riguardava come si possa provare l’esistenza di una forza di intimidazione tipica della mafia in un territorio (come il Piemonte nel caso di specie) diverso da quello di origine (la Calabria). I ricorrenti sostenevano che mancasse la prova di un concreto esercizio del metodo mafioso.

La Cassazione ha ribadito un principio consolidato e di estrema importanza: la forza intimidatrice di una cellula ‘delocalizzata’ può desumersi dal semplice collegamento con l’organizzazione ‘madre’. La ‘storicità’ e la ‘fama criminale’ della ‘ndrangheta sono elementi talmente noti che la nuova struttura territoriale ne eredita la capacità di intimidazione, senza che sia necessario dimostrare in ogni occasione specifici atti violenti. La percezione della pericolosità del gruppo sul territorio è sufficiente a integrare il requisito del metodo mafioso.

La valutazione delle prove: sentenze definitive e collaboratori

La difesa aveva contestato l’utilizzo, da parte della Corte d’Appello, di una precedente sentenza di Cassazione che aveva già accertato l’esistenza di quella specifica ‘ndrina. I giudici hanno chiarito che, ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p., una sentenza irrevocabile non costituisce prova piena, ma una probatio semiplena, ovvero un elemento probatorio significativo che deve essere corroborato da altri elementi. Nel caso di specie, tale sentenza era stata correttamente inserita in un quadro probatorio più ampio, che includeva le dichiarazioni convergenti di diversi collaboratori di giustizia, intercettazioni e servizi di osservazione.

L’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria in appello

Un altro motivo di ricorso verteva sulla presunta violazione dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p. Questa norma impone al giudice d’appello di rinnovare l’esame dei testimoni le cui dichiarazioni sono state valutate diversamente per ribaltare una sentenza di assoluzione. La Corte ha precisato che tale obbligo non è assoluto. In questo caso, la Corte d’Appello aveva effettivamente disposto il nuovo esame del collaboratore di giustizia chiave. La difesa, pur avendo la possibilità di porre nuove domande, non lo aveva fatto, rinunciando implicitamente a un più approfondito esame. Pertanto, secondo la Cassazione, non vi è stata alcuna violazione del diritto di difesa.

L’aggravante delle armi

Infine, è stata confermata l’aggravante della disponibilità di armi. Anche in assenza di un loro ritrovamento materiale, la Corte ha ritenuto che tale disponibilità fosse desumibile dalla natura stessa della ‘ndrangheta, notoriamente un’organizzazione armata, e da altre prove come le dichiarazioni di un collaboratore. Lo ‘stato di allerta’ degli imputati, consapevoli di essere sotto indagine, giustificava logicamente il mancato rinvenimento delle armi al momento delle misure cautelari.

Le Motivazioni

Il nucleo delle motivazioni della Suprema Corte risiede nella continuità strutturale e ‘ideologica’ tra l’organizzazione mafiosa madre e le sue proiezioni territoriali. La decisione si fonda sull’idea che una cellula distaccata non è un’entità nuova e sconosciuta, ma porta con sé il ‘marchio’ intimidatorio dell’organizzazione di provenienza. Questo approccio ermeneutico permette di superare l’ostacolo probatorio di dover dimostrare ex novo, in ogni contesto territoriale, la capacità del gruppo di incutere timore e imporre l’omertà.

Dal punto di vista processuale, la Corte ha sottolineato la necessità di una valutazione globale e unitaria del materiale probatorio, respingendo le censure difensive che tentavano di parcellizzare gli elementi d’accusa per sminuirne la portata. La coerenza del quadro probatorio complessivo, formato da sentenze, testimonianze, intercettazioni e riscontri oggettivi, è stata ritenuta sufficiente a fondare la decisione di condanna.

Le Conclusioni

Questa sentenza rappresenta un’importante conferma dell’orientamento giurisprudenziale volto a contrastare efficacemente la pervasività delle mafie su tutto il territorio nazionale. Le conclusioni che se ne possono trarre sono molteplici:

1. Efficacia del contrasto alle mafie delocalizzate: Il principio della ‘fama criminale ereditata’ agevola l’accertamento del reato di associazione di tipo mafioso anche per gruppi di recente insediamento, a condizione che sia provato il loro legame strutturale con le organizzazioni storiche.
2. Valore del quadro probatorio composito: Nei processi di mafia, la condanna non si basa quasi mai su una singola prova, ma sulla convergenza di molteplici elementi (dichiarativi, logici, documentali) che, letti unitariamente, forniscono un quadro coerente e attendibile.
3. Rigore processuale: La Corte ribadisce le garanzie difensive, come la rinnovazione dell’istruttoria in appello, ma ne precisa i limiti, chiarendo che il diritto alla prova deve essere esercitato attivamente dalle parti e non può tradursi in un onere sproporzionato per l’organo giudicante.

Come si può provare un’associazione di tipo mafioso in un territorio diverso da quello di origine?
Secondo la Corte di Cassazione, non è sempre necessario dimostrare nuovi e specifici atti di intimidazione nel territorio ‘colonizzato’. La forza intimidatrice può essere desunta dal semplice collegamento strutturale con l’organizzazione ‘madre’ (es. la ‘ndrangheta in Calabria), la cui ‘fama criminale’ e pericolosità sono un fatto notorio e vengono ‘ereditate’ dalla cellula delocalizzata.

Quando un giudice d’appello ribalta un’assoluzione, è sempre obbligato a riesaminare i testimoni?
L’obbligo di rinnovare l’esame dei testimoni dichiarativi (previsto dall’art. 603, comma 3-bis, c.p.p.) sorge quando la riforma della sentenza si basa su un diverso apprezzamento della loro attendibilità. Tuttavia, questo diritto è disponibile per le parti. Se il giudice dispone il nuovo esame e la difesa, pur avendone facoltà, non pone domande, si considera che abbia implicitamente rinunciato a un esame più approfondito, e non vi è violazione del diritto di difesa.

Per contestare l’aggravante delle armi in un’associazione mafiosa è necessario trovare le armi?
No, non è strettamente necessario. La disponibilità di armi può essere desunta da altri elementi, come la natura stessa dell’organizzazione criminale (notoriamente armata), le dichiarazioni di collaboratori di giustizia o i contenuti delle intercettazioni. La Corte ha ritenuto che il mancato ritrovamento possa essere logicamente giustificato dal fatto che gli imputati, sentendosi sotto indagine, le avessero nascoste.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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