Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 1850 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 1850 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME nato a NEPI il 18/01/1957
avverso l’ordinanza del 25/07/2024 del TRIB. LIBERTA’ di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi per l’imputato l’avv. NOME COGNOME e l’avv. NOME COGNOME che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del riesame, ha confermato l’ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma ha applicato a NOME COGNOME la misura della custodia cautelare in carcere perché gravemente indiziato dei delitti aggravati di associazione di tipo mafioso, estorsione, ricettazione e violazione della disciplina per il controllo delle armi.
Avverso il provvedimento ha proposto ricorso l’indagato, articolando tre motivi. 2.1. Con il primo motivo vengono prospettati la violazione dell’art. 416-bis, comma 3, cod. pen. e vizi di motivazione in ordine alla caratterizzazione dell’ipotizzato sodalizio criminoso in relazione alla forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo ed alla determinazione di una condizione di assoggettamento e omertà. Il Tribunale avrebbe disatteso la doglianza prospettata sul punto dalla difesa sulla scorta di un travisamento degli atti di indagine, senza un compiuto accertamento nonché attribuendo erroneo rilievo al mero esercizio di violenza o minaccia non riferibili al sodalizio, bensì a singoli episodi e a singoli soggetti. In particolare, il carattere mafioso dell’associazione sarebbe stato desunto dall’inserimento di NOME COGNOME nel contesto delle infiltrazioni criminali di tipo mafioso nel tessuto economico di Aprilia e dal suo rapporto con NOME COGNOME, valorizzando la commissione, da parte loro, di un’estorsione commessa nel 2016. Nel resto difetterebbe l’esternazione della forza intimidatoria del vincolo associativo, non constando come e quando l’associazione in questione sarebbe sorta e si sarebbe affermata, acquisendo il prestigio mafioso tale da determinare assoggettamento e omertà nei consociati, secondo quanto chiarito da dottrina e giurisprudenza a proposito in particolare delle c.d. mafie autoctone, non essendo sufficiente a tal fine la affermata ed eventuale caratura criminale del capo dell’associazione. Piuttosto, sarebbero stati illogicamente valorizzati elementi insufficienti ed anzi dimostrativi del difetto di tale elemento costitutivo del delit contestato, come il fatto violento, commesso su input di NOME COGNOME, moglie del COGNOME, descritto nell’incolpazione di cui al capo 2 dell’incolpazione, che è risultato contrario al modus operandi che l’organizzazione intendeva impiegare. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.2. Con il secondo motivo sono stati prospettati la violazione dell’art. 416-bis, comma 3, cod. pen. e i vizi di motivazione in ordine all’effettivo esercizio della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo che, come ricordato in precedenza, è necessario per la configurabilità del delitto. Il Tribunale avrebbe confermato la qualificazione giuridica dei fatti operata dal G.i.p. valorizzando: il sistema clientelare emerso nella specie (che non sarebbe dimostrato abbia natura mafiosa) ed i rapporti
con altre consorterie mafiose (da cui sarebbe stata tratta in maniera congetturale la caratura mafiosa del sodalizio, constando peraltro al più l’impiego della forza di intimidazione nei confronti di altre consorterie, ma non nei confronti della popolazione di Aprilia), nonché la vicenda di cui al capo 2, oggetto invero di un travisamento e di un’argomentazione manifestamente illogica, in quanto essa deporrebbe in realtà in senso contrario e quella descritta al capo 9 di incolpazione, relativo all’intervento minaccioso di NOME COGNOME membro della consorteria, in favore di un imprenditore, che al più costituirebbe una vicenda isolata non espressiva di una capacità di sopraffazione riconducibile all’art. 416-bis cod. pen., a fortiori tenuto conto di quanto esposto dalla persona offesa.
2.3. Con il terzo motivo viene dedotta violazione di legge, in quanto il Tribunale avrebbe erroneamente escluso che nella valutazione della sussistenza del compendio probatorio, al fine dell’applicazione di una misura cautelare personale, sia necessario che gli indizi presentino i caratteri contemplati dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. Ad avviso della difesa, difatti, sarebbe preferibile il contrario orientamento pure espresso dalla giurisprudenza di legittimità, che nega portata decisiva al mancato richiamo da parte dell’art. 273 cod. proc. pen. del comma succitato, il quale affermerebbe un principio di valenza generale come desumibile anche dal disposto dell’art. 2729 cod. civ. Orientamento che appare per il ricorrente maggiormente conforme al dettato costituzionale e, in particolare, alla presunzione di non colpevolezza, nonché al legame indissolubile tra fase cautelare e giudizio di cognizione rivelato dal disposto dell’art. 275, comma 2-bis, cod. proc. pen., quantunque ciò non equivalga all’equiparazione dello standard probatorio delle due fasi.
Il P.G. ha depositato conclusioni scritte che valgono come memoria atteso che si procede con trattazione in presenza. I difensori dell’indagato hanno depositato memoria di replica alle condusioni del P.G.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, che censura la sussistenza dei gravi indizi relativi al solo reato associativo tra quelli contestati al COGNOME, è nel suo complesso infondato e deve pertanto essere rigettato.
Va preliminarmente ricordato che, in tema di misure cautelari personali, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità ed ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudic
di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie. In tal senso, premesso che la richiesta di riesame ha la specifica funzione, come mezzo di impugnazione, sia pure atipico, di sottoporre a controllo la validità dell’ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti formali elencati nell’art. 292 cod. proc. pen. ed ai presupposti ai quali è subordinata la legittimità del provvedimento coercitivo, va evidenziato che la motivazione della decisione del tribunale del riesame, dal punto di vista strutturale, deve essere conformata al modello delineato dal citato articolo, ispirato al modulo di cui all’art. 546 cod. proc. pen., con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente all’accertamento non della responsabilità, bensì di una qualificata probabilità di colpevolezza (ex multis Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828). Così ricostruito l’oggetto della cognizione del giudice del riesame e, di riflesso, del sindacato di quello di legittimità sulla motivazione posta a sostegno della decisione impugnata, va peraltro ribadito che, se il primo è comunque tenuto a confrontarsi con le osservazioni critiche articolate con l’istanza di riesame ovvero con eventuali memorie depositate nel corso del susseguente giudizio, ciò non si traduce nell’onere di specifica confutazione di ogni singola argomentazione formulata dalla difesa, ma in quello di esplicitare le ragioni poste a sostegno della conferma della valutazione compiuta nell’ordinanza genetica in merito alla sussistenza dei presupposti applicativa della misura cautelare, dimostrando di aver tenuto conto dei rilievi difensivi e delle circostanze di fatto sui quali gli stess fondano.
Ciò premesso, con riguardo alle censure proposte con il primo e secondo motivo motivo, deve rilevarsi che il Tribunale, contrariamente a quanto eccepito, ha ampiamente e logicamente motivato in merito alla sussistenza della contestata associazione alla quale l’indagato è accusato di partecipare, nonché al suo carattere mafioso.
3.1 In proposito va osservato che i giudici del riesame hanno sì posto in rilievo la caratura criminale di COGNOME NOME, ma hanno altresì evidenziato come attorno al succitato COGNOME si sia nel tempo coagulato un sodalizio, sopravvissuto alla sua incarcerazione e dimostratosi in grado di agire sul territorio con autonoma capacità di intimidazione in sua assenza, assumendo i caratteri propri dell’associazione mafiosa.
In tal senso il provvedimento impugnato ha valorizzato anzitutto una serie di conversazioni oggetto di intercettazione dal cui contenuto ha desunto in maniera tutt’altro che illogica l’esistenza del vincolo associativo e la coscienza dei conversanti tra cui l’odierno ricorrente – di appartenere ad un sodalizio dotato di una riconoscibile
identità e apparato organizzativo. Il ricorso invero non contesta tali risultanze nella lor oggettività, me nemmeno si confronta effettivamente con il ragionamento sviluppato dal giudice del merito per inferirne la fondatezza dell’accusa associativa, limitandosi in maniera sostanzialmente generica a contestarlo in maniera assertiva.
3.2 Analoghe considerazioni valgono per la contestata natura mafiosa del sodalizio. Va certamente ribadito che l’associazione di tipo mafioso si connota rispetto alla semplice associazione per delinquere per la sua capacità di proiettarsi verso l’esterno, per il suo radicamento nel territorio in cui alligna e si espande, pe l’assoggettamento e l’omertà che è in grado di determinare nella collettività insediata nell’area di operatività del sodalizio, collettività nella quale la presenza associativa deve possedere la capacità di diffondere un comune sentire caratterizzato da soggezione di fronte alla forza prevaricatrice ed intimidatrice del gruppo (ex multis Sez. 1, n. 35627 del 18/04/2012, P.G. in proc. COGNOME e altri, Rv. 253457; Sez. 2, n. 18773 del 31/03/2017, COGNOME e altri, Rv. 269747). In altri termini deve ritenersi elemento strutturale del reato di cui all’art. 416 bis c.p. il fatto che dall’associazione promani for intimidatrice, capace d’incutere timore e d’indurre assoggettamento e, conseguentemente, omertà. Perché si abbia un’associazione mafiosa è dunque necessario che il gruppo abbia conseguito nell’ambiente circostante una reale capacità di intimidazione e che si avvalga di tale forza, nella quale consiste il metodo mafioso di realizzazione del programma criminoso del sodalizio.
È pertanto necessario che l’associazione abbia conseguito in concreto, nell’ambiente circostante nel quale opera, sia pure limitatamente ad un determinato settore, un’effettiva capacità di intimidazione, sino ad estendere intorno a sè una generale percezione della sua efficienza nell’esercizio della forza, anche a prescindere da singoli atti di intimidazione concreti posti in essere da questo o quell’associato. Insomma, la capacità del sodalizio di sprigionare autonomamente, e per il solo fatto della sua esistenza, una carica intimidatrice capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con gli affiliati all’organismo criminale, per quanto potenziale, deve essere comunque percepibile e percepita all’esterno, anche in assenza del suo attuale esercizio. Principi questi che certamente valgono anche e soprattutto nell’ipotesi della costituzione di una nuova struttura criminale, che è poi la fattispecie oggetto del provvedi mento impugnato.
Non è poi in dubbio che sia consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato mezzo rispetto ai reati fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima (Sez. Un., n. 10 del 28/03/2001, COGNOME e altri, Rv. 218376). E’ peraltro necessario che tali reati, per la loro natura o per le peculiari modalità di consumazione
per l’appunto, si rivelino effettivamente sintomatici dell’attuazione del programma di una associazione mafiosa piuttosto che di una normale associazione a delinquere.
3.3 L’ordinanza impugnata ha dimostrato di aver fatto buon governo di questi consolidati principi, facendo nuovamente riferimento al compendio captativo acquisito nel corso dell’indagine e traendo argomenti tutt’altro che illogici dagli episodi estorsiv contestati ai capi 3) (questo contestato anche all’indagato) e 9) dell’incolpazione e dalla vicenda descritta nel capo 2) al fine della motivata dimostrazione della proiezione esterna della forza di intimidazione del sodalizio. Per contro le censure del ricorrente si rivelano anche in questo caso meramente contestative o si riducono ad una interpretazione alternativa delle risultanze valorizzate dai giudici del merito. Peraltro il ricorso si produ in una valutazione atomistica di tali risultanze, cercando di segmentare i singoli episodi evocati nell’ordinanza impugnata ed omettendo così di confrontarsi con la lettura complessiva delle stesse operate dal Tribunale. In tal senso privo di pregio risulta il tentativo del ricorrente di accreditare il carattere isolato delle condotte estorsive, ch invece si rivelano sintomatiche dello stato di soggezione in cui versano coloro che nel territorio di riferimento vengono in contatto con il sodalizio.
Il ricorrente ha poi sostanzialmente omesso di considerare l’intercettazione della conversazione tra ilo COGNOME e l’COGNOME in cui viene sottolineato come il sodalizio sia diventato un effettivo punto di riferimento per la soluzione delle controversie insorte nel territorio, circostanza logicamente valutata dai giudici del merito per evidenziare il generale assoggettamento generato dell’associaizone.
Né è illogica la valutazione della vicenda di cui al capo 2) che ha visto protagonista la moglie del COGNOME. È sì vero che l’intervento del sodalizio nell’occasione peraltro su precise disposizioni impartite dal carcere dal COGNOME e condivise dagli altr associati – è stato mirato a contenere la reattività della donna, ma i giudici del riesame hanno ampiamente spiegato come tale atteggiamento vada contestualizzato nella strategia più ampia dell’associazione di contenere nella fase attuale le reazioni violente non strettamente necessarie e idonee a turbare l’oramai consolidato controllo esercitato su Aprilia dall’associazione. Ciò che però rileva è la certificazione della tendenza dei suoi appartenenti al ricorso a metodi tipicamente mafiosi per riaffermare il proprio prestigio.
Correttamente il Tribunale ha preso in considerazione anche la conversazione tra l’COGNOME ed il COGNOME, apoditticamente svalutata nel ricorso, nel corso della quale primo ha rievocato la “difesa” del territorio operata dal COGNOME nei confronti delle mire di altre organizzazioni mafiose, con le quali il sodalizio dimostra dunque di essere in grado di confrontarsi in posizione paritaria, come peraltro dimostrato dall’ampia disponibilità di armi nemmeno contestata dal ricorrente. Né l’interpretazione dei due diversi episodi appare contraddittoria come sostenuto nel ricorso, atteso che i giudici del riesame hanno per l’appunto ritenuto che il sodalizio abbia semplicemente dimostrato di essere in grado di ricorrere alla violenza solo quando le circostanze non gli consentano
di appianare i contrasti con interlocutori esterni di qualsivoglia natura in maniera diversa, inferendone logicamente il ragguardevole livello di presa sul territorio di riferimento raggiunto.
Infine il ricorrente pretermette il confronto con i passaggi motivazionali dell’ordinanza impugnata dedicati all’infiltrazione da parte dell’associazione nell’amministrazione comunale di Aprilia, circostanza tutt’altro che irrilevante ai fini dell configurazione della sua natura. Ed in tal senso nemmeno considera altra circostanza ritenuta significativa dal Tribunale, ossia il fatto che una delle vittime delle estorsio destinate alla raccolta del danaro necessario a foraggiare i sodali incarcerati – primo fra tutti il COGNOME – si sia consigliato in proposito proprio con il COGNOME, cioè il sindaco grazie all’appoggio dell’associazione, intrattenendo con quest’ultimo una conversazione – oggetto di captazione – il cui contenuto, per come riportato dai giudici del riesame e per l’appunto non contestato, è stato logicamente interpretato come sintomatico dell’accettazione da parte della popolazione del governo criminale del territorio esercitato dal sodalizio.
4. Il terzo motivo di ricorso è parimenti infondato. Secondo il largamente maggioritario orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, i gravi indizi di colpevolezza, necessari per l’applicazione di una misura cautelare personale, e la prova indiziaria, di cui all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., operano su piani diversi, essendo sufficiente, nel primo caso, l’esistenza di una qualificata probabilità di colpevolezza, indipendentemente dal tipo di prova acquisita, e occorrendo, invece, nel secondo caso, la prova critica, logica e indiretta del fatto, contrapposta alla prova diretta acquisibile co i mezzi previsti dal codice di rito (ex multís Sez. 2, n. 48276 del 24/11/2022, COGNOME, Rv. 284299). Conseguentemente, ai fini dell’adozione di una misura cautelare personale, è sufficiente qualunque elemento probatorio idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell’indagato in ordine ai reati addebitatigli, perché e per l’appunto i necessari “gravi indizi di colpevolezza” non corrispondono agli “indizi” intesi quale elemento di prova idoneo a fondare un motivato giudizio finale di colpevolezza e non devono, pertanto, essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti, per il giudizio d merito, dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. – che, oltre alla gravità, richiede l precisione e la concordanza degli indizi – giacché il comma 1-bis dell’art. 273 cod. proc. pen. richiama espressamente i soli commi 3 e 4, ma non il comma 2 del suddetto art. 192 cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 16158 del 08/04/2021, COGNOME, Rv. 281019).
Principi questi che, non solo – come detto – sono ampiamente ricorrenti nella giurisprudenza di legittimità, ma che oramai devono ritenersi consolidati a tal punto che negli ultimi anni non è più stato coltivato il contrario principio evocato dal ricorrente pe cui nell’incidente cautelare troverebbero integrale applicazione le regole probatorie fissate nel secondo comma dell’art. 192 cod. proc. pen. e che pure era stato affermato
in passato da alcune pronunzie (Sez. 5, n. 55410 del 26/11/2018, COGNOME, Rv. 274690; Sez. 4, n. 25239 del 05/04/2016, COGNOME, Rv. 267424; Sez. 4, n. 40061 del 21/06/2012, COGNOME, Rv. 253723; Sez. 4, n. 31448 del 18/07/2013, COGNOME, Rv. 257781). Né rileva il riferimento operato dal ricorrente all’art. 275 comma 2-bis cod. proc. pen., atteso che il collegamento effettuato da tale disposizione tra giudizio cautelare e giudizio di cognizione è funzionale ad evitare limitazioni della libertà personale in procedimenti nei quali è preconizzabile l’applicazione di una pena che non dovrà essere eseguita perché all’imputato potrà ragionevolmente essere concesso la sospensione condizionale della medesima. All’evidenza, dunque, tale norma non sancisce alcuna relazione di interferenza tra le regole probatorie applicabili nei due diversi giudizi ai fi dell’accertamento della responsabilità del giudicando. Tanto meno può trarsi dall’art. 2729 cod. civ., come invece preteso dal ricorrente, un principio generale valido anche nell’incidente cautelare, posto che la disposizione da ultima citata stabilisce, certamente in termini analoghi all’alt. 192 comma 2 cod. proc. pen., le condizioni di utilizzabilit della prova indiretta di un fatto nel giudizio di cognizione, ma non per questo impone al legislatore di utilizzare le medesime regole anche nella fase cautelare. Ed in tal senso il ricorrente non considera che, come già ricordato, l’art. 273 cod. proc. pen. espressamente richiama solo alcuni commi del menzionato art. 192, ma non il secondo, evidenziandosi così l’espressa volontà del legislatore di attribuire all’accertamento dei gravi indizi di colpevolezza un autonomo statuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. co proc. pen.
Così deciso il 21/11/20