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Associazione criminale: rigetto ricorso in Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un individuo accusato di far parte di un’associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti, aggravata dal metodo mafioso. La Corte ha confermato la misura della custodia cautelare in carcere, ritenendo infondati tutti i motivi di ricorso, inclusa la presunta lieve entità dei fatti e la tesi di essere vittima di estorsione da parte di un clan. La decisione si basa su prove concrete come dichiarazioni di collaboratori, video-riprese e il cospicuo volume d’affari dell’attività di spaccio.

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Pubblicato il 27 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Associazione Criminale e Spaccio: La Cassazione Conferma la Custodia Cautelare

Con la sentenza n. 3675/2024, la Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso di associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti, confermando la custodia cautelare in carcere per uno degli indagati. La decisione sottolinea l’importanza di un’analisi complessiva del fenomeno criminale, che va oltre i singoli episodi di spaccio, e chiarisce i presupposti per l’applicazione dell’aggravante mafiosa.

I Fatti del Caso

Il Tribunale di Napoli aveva confermato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di un soggetto, indagato per essere partecipe di un’organizzazione dedita al traffico di droga. Le accuse includevano il reato associativo previsto dall’art. 74 del d.P.R. 309/1990, la detenzione illecita di armi e altri reati, il tutto aggravato dall’aver agevolato un’associazione di tipo mafioso (art. 416-bis.1 c.p.).

La difesa dell’indagato ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su cinque motivi principali:
1. Insussistenza dell’associazione: Mancanza di prova della cosiddetta affectio societatis, ovvero della volontà condivisa di far parte del sodalizio.
2. Partecipazione alla detenzione di armi: Contestazione del coinvolgimento nel reato per il solo fatto di aver accompagnato chi deteneva l’arma.
3. Errata qualificazione giuridica: Richiesta di considerare l’associazione di ‘lieve entità’ (art. 74, comma 6), sostenendo che i singoli episodi di spaccio fossero modesti.
4. Insussistenza dell’aggravante mafiosa: L’indagato sosteneva di essere vittima di estorsione da parte del clan e non un suo fiancheggiatore.
5. Mancanza di esigenze cautelari: Assenza di un pericolo concreto e attuale di reiterazione del reato.

L’Analisi della Cassazione sull’Associazione Criminale

La Corte Suprema ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato, respingendo tutte le argomentazioni difensive. L’ordinanza impugnata è stata giudicata logica e ben motivata.

In merito alla sussistenza dell’associazione criminale, la Cassazione ha evidenziato come il Tribunale avesse fondato la sua decisione su plurimi elementi: le dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, le video-riprese che mostravano la presenza costante dell’indagato sulla piazza di spaccio (intento anche a sorvegliare con un binocolo) e la sua partecipazione diretta ad azioni armate a difesa del territorio. Questi elementi, nel loro complesso, dimostravano ampiamente la sua piena partecipazione al sodalizio.

Anche il motivo relativo alla detenzione dell’arma è stato respinto. La Corte ha sottolineato che l’indagato non era stato un semplice spettatore, ma aveva avuto un ruolo attivo, guidando il ciclomotore su cui si trovava un altro soggetto che, durante un conflitto a fuoco, estraeva e utilizzava una pistola.

Il Volume d’Affari e l’Aggravante Mafiosa

Un punto centrale della decisione riguarda la qualificazione del reato. La difesa chiedeva di considerarlo di ‘lieve entità’, ma la Cassazione ha avallato la valutazione del Tribunale, che aveva stimato un volume di affari imponente: almeno 50 contatti al giorno tra spacciatori e clienti, per introiti giornalieri di circa 4000 euro. Un’entità economica e organizzativa del tutto incompatibile con l’ipotesi della lieve entità.

Per quanto riguarda l’aggravante mafiosa, la Corte ha smontato la tesi difensiva dell’estorsione. Non erano emerse prove di minacce o violenze per costringere gli indagati a versare denaro al clan. Al contrario, le indagini avevano rivelato una ‘condivisione di intenti’ tra i due gruppi criminali, provata dal fatto che il clan era intervenuto in armi per difendere la piazza di spaccio da un attacco di un gruppo rivale. Questo dimostrava un’alleanza e non una subordinazione estorsiva.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile in quanto i motivi presentati erano generici e non si confrontavano adeguatamente con le solide argomentazioni dell’ordinanza impugnata. La valutazione del Tribunale era stata ritenuta esente da vizi logici e basata su prove concrete.

Infine, riguardo alle esigenze cautelari, la Corte ha ribadito la validità della presunzione di pericolosità prevista dall’art. 275, comma 3, c.p.p. per reati di tale gravità. A ciò si aggiungevano i numerosi precedenti penali dell’indagato, la sua vicinanza ad altri criminali e il suo ruolo attivo nello scontro armato, elementi che rendevano la custodia in carcere l’unica misura adeguata a prevenire la reiterazione del reato.

Conclusioni

Questa sentenza ribadisce principi consolidati in materia di associazione criminale e reati connessi. In primo luogo, la valutazione della gravità di un’organizzazione dedita al narcotraffico non si basa sui singoli episodi di spaccio, ma sulla sua struttura, sul volume d’affari e sulla capacità di controllo del territorio. In secondo luogo, per escludere l’aggravante di agevolazione mafiosa, non è sufficiente addurre di essere vittima di estorsione, ma è necessario che tale circostanza sia provata; in caso contrario, la collaborazione e la condivisione di interessi con un clan configurano pienamente l’aggravante. La decisione conferma, infine, che un ricorso in Cassazione, per avere successo, deve contestare specificamente le falle logiche e giuridiche del provvedimento impugnato, e non limitarsi a una generica riproposizione delle tesi difensive.

Quando un’associazione per lo spaccio di droga non può essere considerata di ‘lieve entità’?
Secondo la Corte, un’associazione non è di lieve entità quando il volume d’affari è cospicuo, come nel caso di specie dove si stimavano circa 50 contatti giornalieri e introiti per 4000 euro al giorno, indicando un’organizzazione complessa e non marginale.

Per contestare l’aggravante di aver agevolato un’associazione mafiosa, è sufficiente affermare di essere stati vittima di estorsione?
No, non è sufficiente. La Corte ha stabilito che devono emergere prove di minacce o violenze. In assenza di tali prove e in presenza di elementi che indicano una condivisione di intenti e una collaborazione, come la difesa armata della piazza di spaccio da parte del clan, l’aggravante viene confermata.

La semplice presenza durante la commissione di un reato, come la detenzione di un’arma, comporta una responsabilità penale?
No, la semplice presenza di per sé non è sufficiente, ma in questo caso la Corte ha ritenuto che l’imputato non fosse un mero spettatore. Ha svolto un ruolo attivo, come guidare il ciclomotore per la persona che deteneva e usava l’arma durante un conflitto a fuoco, configurando così una piena partecipazione al reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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