LexCED: l'assistente legale basato sull'intelligenza artificiale AI. Chiedigli un parere, provalo adesso!

Associazione camorristica: prova e ruolo nel clan

La Corte di Cassazione ha confermato un’ordinanza di custodia cautelare per un soggetto accusato di associazione camorristica e traffico di droga. Il ricorso si basava sulla presunta mancanza di prove oggettive, come la mancata ricezione di uno stipendio dal clan, e su un’errata interpretazione di un’intercettazione. La Corte ha rigettato il ricorso, stabilendo che le dichiarazioni convergenti e dettagliate di più collaboratori di giustizia costituiscono gravi indizi di colpevolezza sufficienti a giustificare la misura, anche in assenza di altri riscontri esterni.

Prenota un appuntamento

Per una consulenza legale o per valutare una possibile strategia difensiva prenota un appuntamento.

La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)
Pubblicato il 8 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Associazione Camorristica: Quando le Dichiarazioni dei Collaboratori Bastano per la Custodia Cautelare

Una recente sentenza della Corte di Cassazione penale ha ribadito un principio fondamentale in materia di reati associativi, in particolare per l’associazione camorristica. La decisione chiarisce come le dichiarazioni incrociate e convergenti di più collaboratori di giustizia possano costituire un quadro indiziario sufficientemente grave da giustificare una misura cautelare in carcere, anche quando la difesa sollevi dubbi su singoli elementi probatori. Il caso analizzato offre spunti cruciali sul valore della prova dichiarativa nei processi di criminalità organizzata.

I Fatti del Caso: Il Ricorso Contro la Custodia Cautelare

Il Tribunale del Riesame di Napoli aveva confermato la misura della custodia cautelare in carcere per un indagato, accusato di far parte di un noto clan camorristico operante nella zona nord di Napoli e, contestualmente, di un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Secondo l’accusa, l’uomo agiva come un vero e proprio broker, gestendo l’acquisto di ingenti quantitativi di droga per conto del clan.

La difesa ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su due motivi principali:
1. Mancanza di prove sulla partecipazione all’associazione: Si sosteneva che il Tribunale avesse omesso di considerare circostanze oggettive che, a dire della difesa, smentivano l’appartenenza al clan. Tra queste, il fatto che l’indagato non risultasse tra i percettori delle “mesate” (stipendi mensili versati dal clan agli affiliati) e che, anzi, fosse lui a versare denaro ai vertici. Inoltre, si contestava l’interpretazione di un’intercettazione in cui l’indagato negava di aver mai usato armi, contraddicendo l’ipotesi di una sua partecipazione al “gruppo di fuoco” del clan.
2. Indeterminatezza del ruolo specifico: La difesa lamentava l’assenza di motivazione sul ruolo specifico dell’indagato, sottolineando come le dichiarazioni di alcuni collaboratori sembrassero indicare una sua volontà di tenere nascosti i propri affari al clan.

L’Analisi della Corte e il Peso dell’associazione camorristica

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, ritenendolo infondato. Il fulcro della decisione risiede nella valorizzazione del compendio probatorio costituito dalle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia. Questi ultimi, in modo convergente e non equivoco, avevano collocato l’indagato all’interno del contesto criminale facente capo alla famiglia egemone, delineandone un ruolo preciso e significativo.

La Corte ha applicato il principio consolidato secondo cui, ai fini della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, le dichiarazioni dei collaboratori possono fornire un adeguato supporto indiziario anche quando il riscontro avviene esclusivamente tramite l’incrocio delle dichiarazioni stesse, purché queste siano precise, definite e si prestino a una valutazione di conferma o smentita.

La Valutazione degli Elementi Difensivi

I giudici di legittimità hanno smontato le argomentazioni difensive punto per punto:
* L’intercettazione: La Corte ha ammesso che il Tribunale del Riesame potesse aver attribuito alla conversazione un significato non del tutto corrispondente al suo tenore letterale. Tuttavia, ha giudicato questo errore “irrilevante” ai fini della decisione. La mancanza di uno specifico riscontro esterno a una dichiarazione di un collaboratore (in questo caso, sulla partecipazione al gruppo di fuoco) non inficia la gravità indiziaria complessiva, che poggiava su un quadro ben più ampio.
* La mancata “mesata”: Allo stesso modo, circostanze come la mancata ricezione dello stipendio dal clan o il versamento di una quota sono state considerate non decisive per negare l’appartenenza, di fronte alla solidità e alla convergenza delle dichiarazioni accusatorie.

Le Motivazioni della Decisione

La motivazione della sentenza si incentra sulla cosiddetta “prova di resistenza”. Anche espungendo l’elemento probatorio potenzialmente viziato (l’interpretazione dell’intercettazione), le residue risultanze, costituite dalle dichiarazioni coerenti di più collaboratori (Annunziata, Giugliano, Riccio, Ambra e Rignano, nel caso di specie, nomi di fantasia), erano più che sufficienti a giustificare il convincimento sulla gravità degli indizi. L’indagato era stato descritto come un “vero e proprio broker” per conto del clan, una persona intranea e con un ruolo significativo nell’attività di spaccio. La struttura argomentativa del provvedimento impugnato è stata quindi ritenuta immune da censure di legittimità, logica e coerenza giuridica.

Conclusioni

Questa sentenza riafferma un caposaldo della giurisprudenza in materia di criminalità organizzata: la prova dichiarativa proveniente da più collaboratori di giustizia, quando caratterizzata da convergenza, precisione e coerenza interna ed esterna, assume un peso preponderante nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza. Per la difesa, non è sufficiente attaccare singoli e isolati elementi di prova o evidenziare circostanze neutre; è necessario, invece, scalfire la credibilità e l’affidabilità dell’intero impianto accusatorio costruito sulle dichiarazioni incrociate. La decisione dimostra come l’ordinamento dia fiducia a questo strumento investigativo, ritenendolo fondamentale per contrastare fenomeni complessi come l’associazione camorristica.

Le sole dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono sufficienti per una misura di custodia cautelare per associazione camorristica?
Sì, secondo la Corte, le dichiarazioni provenienti da più collaboratori di giustizia possono costituire un adeguato supporto indiziario per la custodia cautelare, a condizione che siano riscontrate attraverso il loro incrocio e che siano sufficientemente precise e definite da potersi prestare a conferma o smentita.

L’assenza di prove come la ricezione di uno stipendio (‘mesata’) dal clan esclude automaticamente la partecipazione all’associazione?
No. La sentenza chiarisce che circostanze come la mancata partecipazione alla distribuzione mensile di somme di denaro non sono di per sé decisive per escludere l’appartenenza al clan, se vi sono altri gravi indizi, come le dichiarazioni convergenti di più collaboratori di giustizia.

Un’intercettazione interpretata erroneamente dal tribunale del riesame può portare all’annullamento dell’ordinanza?
Non necessariamente. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che, sebbene il tribunale avesse attribuito all’intercettazione un significato non corrispondente al suo tenore letterale, tale errore era irrilevante. L’impianto accusatorio, basato sulle dichiarazioni dei collaboratori, era sufficientemente solido da reggere anche senza quell’elemento (la cosiddetta “prova di resistenza”).

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

Desideri approfondire l'argomento ed avere una consulenza legale?

Prenota un appuntamento. La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza / conference call e si svolge in tre fasi.

Prima dell'appuntamento: analisi del caso prospettato. Si tratta della fase più delicata, perché dalla esatta comprensione del caso sottoposto dipendono il corretto inquadramento giuridico dello stesso, la ricerca del materiale e la soluzione finale.

Durante l’appuntamento: disponibilità all’ascolto e capacità a tenere distinti i dati essenziali del caso dalle componenti psicologiche ed emozionali.

Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.

Il costo della consulenza legale è di € 150,00.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)

Articoli correlati