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Associazione a delinquere: spacciare non basta

La Corte di Cassazione ha annullato un’ordinanza di custodia cautelare per il reato di associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico. La Corte ha stabilito che la sola attività di spaccio, anche se svolta in un territorio controllato da un’organizzazione criminale, non è sufficiente a dimostrare la partecipazione stabile e consapevole al sodalizio. Secondo i giudici, è errato presumere che chiunque spacci in una determinata zona faccia automaticamente parte del gruppo criminale dominante; sono necessari elementi concreti che provino un inserimento stabile e un vincolo durevole con l’associazione.

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Pubblicato il 12 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Associazione a delinquere: spacciare non basta per provare l’appartenenza

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 47537 del 2024, ha tracciato una linea netta tra la semplice attività di spaccio e la partecipazione a un’associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico. Il principio affermato è cruciale: non si può presumere l’appartenenza a un sodalizio criminale solo perché si opera in un territorio da esso controllato. Serve la prova di un inserimento stabile e consapevole.

La vicenda processuale

Il caso nasce da un ricorso contro un’ordinanza del Tribunale del Riesame che aveva confermato la misura della custodia cautelare in carcere per un individuo, accusato di far parte di una vasta organizzazione dedita al narcotraffico e di singoli episodi di spaccio. Secondo l’accusa, l’indagato sarebbe stato un “pusher” stabile di uno dei gruppi operanti sul territorio.

Il Tribunale del Riesame aveva basato la sua decisione su un presupposto logico: chiunque eserciti l’attività di spaccio in quel determinato territorio deve necessariamente essere partecipe del sistema associativo che ne controlla il mercato in modo capillare. Secondo questa visione, non esisterebbe un’attività di narcotraffico “autonoma” al di fuori delle regole imposte dall’organizzazione.

Le motivazioni della Cassazione sulla prova dell’associazione a delinquere

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’indagato, smontando pezzo per pezzo il ragionamento del Tribunale. I giudici di legittimità hanno definito l’argomentazione del riesame come una “presunzione astratta” e “del tutto congetturale”.

Il rifiuto della presunzione automatica

Il punto centrale della decisione è che non si può dedurre automaticamente la partecipazione a un’associazione a delinquere dal solo fatto di commettere reati (in questo caso, lo spaccio) nell’area di influenza dell’associazione stessa. Questa logica trasformerebbe ogni spacciatore locale in un associato, senza la necessità di provare il requisito fondamentale del reato associativo: il vincolo stabile e la consapevolezza di contribuire al programma criminale del gruppo.

La necessità di un vincolo durevole

Perché si possa configurare il reato di cui all’art. 74 d.P.R. 309/1990, è necessario dimostrare che tra l’individuo e il sodalizio criminale si sia instaurato un legame che superi la soglia del singolo rapporto di compravendita di droga (il cosiddetto “rapporto sinallagmatico”). Occorre provare che l’acquirente/spacciatore abbia aderito consapevolmente al programma criminoso, mettendo la propria attività a disposizione stabile dell’organizzazione.

Nel caso di specie, gli elementi a carico (dichiarazioni di un collaboratore e intercettazioni) dimostravano che l’indagato si riforniva da un membro dell’organizzazione e svolgeva attività di spaccio. Tuttavia, mancava la prova che egli agisse avvalendosi delle risorse del gruppo o che avesse la coscienza e la volontà di farne parte per contribuire al suo mantenimento.

Le conclusioni

La sentenza ribadisce un principio di garanzia fondamentale: per condannare per associazione a delinquere, non basta provare che l’imputato commette reati-fine; è indispensabile dimostrare il suo stabile inserimento nella struttura organizzativa. Le prove devono delineare un quadro di gravità indiziaria concreto e specifico sulla partecipazione, non potendosi basare su congetture o presunzioni legate al contesto territoriale. La Corte ha quindi annullato l’ordinanza, rinviando il caso al Tribunale per un nuovo esame che dovrà attenersi a questi rigorosi principi, valutando se esistono elementi concreti che dimostrino un vincolo reciproco e durevole tra il ricorrente e il sodalizio criminale.

Svolgere attività di spaccio in un territorio controllato da un’organizzazione criminale significa automaticamente farne parte?
No. Secondo la Corte di Cassazione, questa è una presunzione astratta e congetturale. Per dimostrare la partecipazione all’associazione, sono necessari elementi concreti che provino un inserimento stabile e consapevole dell’individuo nel sodalizio criminale, non essendo sufficiente la sola attività di spaccio.

Quali prove sono necessarie per dimostrare la partecipazione a un’associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico?
È necessario dimostrare l’esistenza di un vincolo durevole e reciproco tra l’individuo e l’organizzazione, che superi il semplice rapporto acquirente-venditore di droga. Bisogna provare che la persona agisca avvalendosi delle risorse dell’organizzazione e che abbia la coscienza e la volontà di contribuire al mantenimento e alla realizzazione del programma criminale del gruppo.

Le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia sono sufficienti da sole a fondare una misura cautelare per associazione a delinquere?
No. Le dichiarazioni accusatorie di un coindagato o collaboratore integrano i gravi indizi di colpevolezza solo se, oltre a essere intrinsecamente attendibili, sono corroborate da riscontri estrinseci e individualizzanti, cioè da elementi di prova esterni che ne confermino la veridicità rispetto al fatto-reato attribuito alla persona accusata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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