Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 26262 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 26262 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 17/06/2025
SENTENZA
Sui ricorsi proposti da
1.COGNOME NOME nato a Levanto il 2/9/1943
2.NOME nato a Milano il 17/10/1971
3.COGNOME NOME nato a Minervino Murge il 5/3/1961
4.NOME COGNOME nato a Curio il 16/11/1962
avverso la sentenza resa l’11 luglio 2024 dalla Corte di appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
preso atto che è stata richiesta la trattazione orale del procedimento;
letta la memoria difensiva nell’interesse di COGNOME NOME del 03/06/2025 ; sentite le conclusioni del Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso di COGNOME e disporsi l’annullamento senza rinvio nei confronti di COGNOME per essere il reato prescritto, e l’annullamento con rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio nei confronti di COGNOME NOME e COGNOME NOME;
s entite le conclusioni dell’avv. NOME COGNOME per COGNOME NOME e COGNOME NOME e, in sostituzio ne dell’avv. NOME COGNOME per COGNOME che ha chiesto l’accoglimento dei rispettivi motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Milano, parzialmente riformando la sentenza resa dal Tribunale di Milano il 24 gennaio 2023:
ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di COGNOME NOME in ordine al reato associativo perché estinto per intervenuta prescrizione;
ha assolto COGNOME NOME e COGNOME NOME dal reato di riciclaggio contestato al capo 10 perché il fatto non sussiste e, per l’effetto, ha rideterminato la pena nei confronti di COGNOME NOME per i reati di riciclaggio, emissione di fatture per operazioni inesistenti e ricettazione contestati ai capi 3, 6 e 16 e nei confronti di COGNOME NOME per detti reati e anche per il reato associativo di cui al capo 1;
ha confermato il giudizio di responsabilità di COGNOME NOME per il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti contestato al capo 6 e ha convertito la pena inflitta nella corrispondente pena pecuniaria;
ha confermato il giudizio di responsabilità e il trattamento sanzionatorio nei confronti di NOME COGNOME per il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti contestato al capo 11.
Il procedimento scaturisce da una serie di intercettazioni telefoniche e ambientali nei confronti del commercialista NOME COGNOME, indiziato per reati finanziari e di riciclaggio, che facevano emergere l’operatività di un sodalizio criminoso che, attraverso un collaudato sistema, permetteva ai clienti dello studio COGNOME di fare rientrare occultamente i fondi che avevano depositato all’estero, non aderendo alla voluntary disclosure prevista dalla legge, bensì mediante la costituzione di società svizzere che consentivano ai clienti di mantenere la disponibilità occulta di somme di denaro. Risultava inoltre che lo studio COGNOME si era occupato del trasporto clandestino di pietre preziose, che veniva giustificato attraverso la redazione di atti falsi, e dell’emissione di fatture per operazioni inesistenti.
Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso gli imputati di cui in epigrafe.
COGNOME NOME deduce:
3.1. Vizio di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità per il reato associativo (capo 1) poiché la Corte di appello ha aderito alle motivazioni del Tribunale, limitandosi ad affermare che lo studio coordinato da COGNOME NOME ha interagito in un contesto associativo piegato alla realizzazione di fatti illeciti, al fine di consentire ai clienti di evadere il Fisco, attraverso la creazione e l’esecuzione di uno schema operativo collaudato. La Corte, tuttavia, non ha reso adeguata motivazion e in ordine all’esistenza di una vera e propria associazione, caratterizzata da un vincolo associativo stabile e da una struttura organizzativa, intesa come predisposizione di mezzi finalizzata ad un programma criminoso indeterminato.
Osserva il ricorrente che, nel caso in esame, non ricorre né l’elemento materiale, né l’elemento soggettivo del reato associativo, poiché non sussistono la coscienza e volontà di far parte di un sodalizio criminoso, in quanto la mole delle intercettazioni restituisce un quadro di professionisti che spesso millantavano e offrivano soluzioni impossibili e non operavano in un contesto organizzato finalizzato alla commissione di una serie indeterminata di reati.
3.2. Vizio di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità per i reati contestati ai capi 3, 6 e 16 dell’imputazione poiché:
il delitto di tentato riciclaggio contestato al capo 3 aveva per oggetto i proventi di reato fiscale addebitato ai fratelli COGNOME NOME e COGNOME NOME; il riciclaggio ricorre quando non vi è concorso dell’imputato nel reato presupposto, mentre la cifra non dichiarata e detenuta presso conti esteri dai COGNOME sarebbe stata sottratta al pagamento delle imposte sul reddito e sul valore aggiunto, attraverso lo ‘ schema COGNOME ‘ , il che comporta un concorso nel reato fiscale del professionista, il quale proponeva un sistema di operazioni coordinate per sottrarre somme di denaro all’imposizione fiscale;
in ordine al reato di cui al capo 6, emissione di una fattura per operazione inesistente, manca la prova del contributo causale di NOME COGNOME nell’operazione contestata nel capo di imputazione e, l’avere manifestato la piena consapevolezza della rilevanza penale dell’atto, non può comportare una sua responsabilità a titolo di concorso;
in ordine al delitto di ricettazione contestato al capo 16, la sentenza propone una descrizione lacunosa e illogica della vicenda, in quanto non è stato accertato che le pietre preziose appartenenti alla famiglia COGNOME, di cui ai fatti contestati, fossero provento di delitto, né può considerarsi probatoriamente rilevante quanto affermato dal teste COGNOME il quale ha dichiarato che i sospetti sull’identità del patrimonio derivavano dal fatto che lo stesso fosse consistente e che i preziosi erano menzionati in fogli manoscritti del Bavassano, peraltro difficili da decifrare. Dunque, la presunzione di colpevolezza si basa
sull’esistenza di un patrimonio accumulato negli anni ’90 di cui non è mai stato stabilito l’ammontare e di cui si sospetta la provenienza illecita, che non è stata accertata.
Inoltre: la procura a ritirare le pietre preziose era stata rilasciata dagli eredi di NOME COGNOME ai coimputati del COGNOME, che si erano personalmente recati in Svizzera a ritirare il contenuto di una cassetta di sicurezza; la prova della provenienza illecita delle pietre preziose e la consapevolezza della stessa da parte dei computati sarebbe da rinvenirsi nel reato di falso contestato al capo 17, e cioè la presentazione di false dichiarazioni fiscali al tribunale del riesame per riottenere quanto sequestrato. Ma, tale condotta, avvenuta a distanza di vent’anni dalla presunta accumulazione illecita del capitale non attribuisce alle pietre preziose natura illecita.
3.3. Vizio di motivazione in ordine alla quantificazione della pena poiché la sentenza non si pronunzia sulla invocata riduzione per la fattispecie tentata, che non è stata determinata nel suo massimo; inoltre, a COGNOME Giorgio andava concessa la diminuente prevista dall’art. 648bis , terzo comma, cod. pen., poiché in entrambi gli episodi di riciclaggio il reato presupposto, previsto dall’art. 11 d.lgs. 74/2000, è punito con una pena inferiore nel massimo a 5 anni. La motivazione resa dalla Corte d’appello al riguardo è erronea poiché la supposta tassa evasa non è mai stata calcolata e l’ipotesi di reato fiscale contestata era semplice e non aggravata.
Inoltre, andava esclusa l’aggravante legata al ruolo di promotore dell’associazione, posto che non è emersa prova circa il suo ruolo di ideatore e promotore delle operazioni illecite contestate.
Infine, avrebbero dovuto essere concesse le circostanze attenuanti generiche, respinte valorizzando i precedenti penali del reo, motivazione però non condivisibile e del tutto illogica poiché COGNOME è persona ultraottantenne che ha reso dichiarazioni spontanee ed è da sempre privo di carichi pendenti.
4. COGNOME NOME deduce:
4.1. Mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità per i reati contestati ai capi 3, 6 e 16 dell’imputazione.
In ordine al reato di tentato riciclaggio contestato al capo 3, la cifra detenuta dai signori COGNOME non inferiore agli 800.000 euro sarebbe stata sottratta dagli stessi secondo un definito disegno criminoso con una condotta sussumibile nel reato contestato all’art. 11 d.lgs. 74/2000 in forza del cosiddetto ‘ schema Rebecchi ‘ . Appare, quindi, evidente che l’offerta del cosiddetto schema non integra il reato di riciclaggio, ma rientra nella modalità di fraudolenta sottrazione dei beni
che gli stessi volevano porre in essere, comportando, quindi, un concorso nel reato fiscale del professionista, il quale propone uno schema per sottrarre somme di denaro all’eventuale imposta. Considerare gli atti posti in essere dall’imputato come un’ipotesi di tentato riciclaggio appare una ricostruzione forzata stante l’assoluta incapacità degli atti posti in essere da COGNOME NOME ad attuare la condotta di sostituzione del denaro, in modo da ostacolarne l’identificazione della provenienza delittuosa.
In relazione al capo 6 dell’imputazione , non vi è alcuna prova del contributo causale di COGNOME NOME nell’operazione contestata nel capo di imputazione.
Quanto al capo 16, il giudizio di colpevolezza dell’odierno ricorrente si fonda su una motivazione lacunosa e illogica, che presuppone una non accertata provenienza illecita delle pietre preziose e sull’esistenza di un patrimonio accumulato a partire dagli anni 90 di cui non è mai stato stabilito l’ammontare né la provenienza illecita.
4.2. Mancanza e manifesta illogicità circa la quantificazione della pena in quanto la Corte d’appello non spiega: perché la riduzione per l’ipotesi tentata non è stata applicata nella sua massima estensione; perché non ha riconosciuto la fattispecie attenuata prevista dall’art. 648bis , terzo comma, cod. pen. e perché la pena non è stata contenuta nei minimi edittali, considerata la condizione di incensuratezza dell’imputato.
COGNOME NOMECOGNOME condannato per il reato di cui all’art. 8 d.lgs. 74/2000 (capo 6) alla pena di un anno di reclusione, convertita previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, deduce:
5.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità dell’imputato poiché la vicenda in cui il predetto è coinvolto ruota intorno all’emissione di una fattura relativa ad un’operazione ritenuta inesistente, che sarebbe stata concordata tra i componenti dello studio COGNOME e il ricorrente. Il tenore delle telefonate trascritte è inequivocabile e non è stato messo in discussione dalla difesa. Si è tuttavia sempre contestato che detta operazione abbia avuto una qualche concretezza, al di là della trasmissione via mail della fattura in contestazione, ed emerge anzi dallo scambio di mail tra il ricorrente, COGNOME e lo studio COGNOME, che l’operazione è abortita del tutto, sicché la sentenza impugnata merita di essere annullata, in quanto sostiene che non risulta che l’operazione fosse stata revocata e la fattura annullata. La remunerazione peraltro è saltata poiché l’operazione come era stata ideata è venuta meno. La mera comunicazione via mail della cosiddetta fattura non può costituire violazione dell’art. 8 d.lgs. 74/2000.
La Corte d’appello inoltre erra laddove, nel sostenere che la fattura numero 43 del 2013 è stata regolarmente emessa il 12 dicembre 2013, ha omesso di dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione, maturata nonostante i 116 giorni di sospensione il 7 aprile 2024 e, quindi, in epoca precedente la sentenza di appello pronunziata l’11 luglio 2024. In ogni caso la fattura risulta inviata il giorno 6 maggio 2014 e il reato risulta comunque prescritto a far data dal 30 agosto 2024.
5.2. Vizio di motivazione e violazione di legge in ordine alla quantificazione della pena pecuniaria come pena sostitutiva della reclusione, poiché la Corte ha disposto la sostituzione della pena di anno uno di reclusione con la pena pecuniaria, quantificandola in 17.250 euro.
Il giudice ai sensi dell’art. 56quater della legge 689/1981 deve valutare quale sia la quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche di vita dell’imputato. Nel caso in esame, la difesa ha prodotto la dichiarazione dei redditi per l’anno 2022, dalla quale si ricava che l’imponibile è pari a circa 13.200 euro, sicché la somma quantificata dalla Corte è del tutto sproporzionata poiché ammonta a 1.410 euro mensili e non risulta sorretta da alcuna adeguata motivazione. Inoltre, l’art. 598bis cod. proc. pen. come novellato del decreto legislativo 31/2024 dispone che, se la Corte, pur avendo acquisito il consenso dell’imputato alla sostituzione, non ritenga possibile decidere immediatamente, deve fissare udienza richiedendo all’Uepe di acquisire atti documenti e informazioni al fine di commisurare la sanzione alle complessive condizioni economiche patrimoniali e di vita dell’imputato.
NOME COGNOME ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 8 d.lgs. 74/2000 contestato al capo n. 11 e condannato alla pena di un anno di reclusione, col beneficio della sospensione condizionale, deduce:
6.1. Vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato in quanto la sentenza ha respinto la censura affermando che la difesa aveva fondato i motivi di impugnazione su una ricostruzione dei fatti disancorata dalle emergenze processuali, al fine di accreditare una sostanziale liceità della operazione che di fatto non avrebbe danneggiato le pretese fiscali, e ha respinto le considerazioni difensive rilevando che la prestazione non era stata resa dall’impresa che aveva emesso la fattura e che il denaro era stato dirottato in Svizzera, per essere materialmente ritirato da NOME COGNOME e consegnato al destinatario finale. Ma, sostiene il difensore, l’appello non contestava la ricostruzione in fatto quanto piuttosto, dando per accertato tale fatto, la riconducibilità di questa condotta nella definizione di operazione soggettivamente inesistente. Contraddittoriamente la Corte di appello, invece, ha affermato che la
prestazione del professionista era stata effettivamente svolta e che la fattura era stata tuttavia emessa da altra impresa, mentre la contestazione mossa dal pubblico ministero e mai modificata nel corso del dibattimento riguarda l’emissione di una fattura per un’operazione oggettivamente inesistente.
6.2. Violazione dell’art. 125 cod. proc. pen. per motivazione apparente offerta dalla Corte rispetto al primo motivo di impugnazione concernente l’insussistenza dell’elemento oggettivo del reato e conseguente vizio della motivazione. La Corte di appello si è limitata ad affermare quanto pacificamente emerso nell’istruttoria e non ha affrontato il motivo di impugnazione con cui si è chiesto ai giudici di verificare se e come il fatto emerso dal dibattimento, oggettivamente diverso da quello proposto e ipotizzato nel capo di imputazione, avesse potuto mettere in pericolo le pretese erariali legate alle imposte dirette e all’iva tutelate dall’art. 8 d.lgs. 74/2000, norma la cui violazione viene addebitata a COGNOME.
Su questo specifico argomento, non si rinviene alcuna motivazione della Corte. La difesa aveva chiesto alla Corte d’appello di decidere se l’emissione da parte di un’azienda straniera della fattura ricevuta e registrata da RAGIONE_SOCIALE avesse solo in astratto messo la società italiana nelle condizioni di poter evadere l’Irpef o di poter abusivamente spendere un credito Iva. Questa domanda, inevitabile vista la natura di reato di pericolo contestato a COGNOME, è rimasta del tutto priva di risposta.
6.3. Violazione dell’art. 125 cod. proc. pen. per omessa motivazione rispetto al secondo motivo di appello concernente l’insussistenza dell’elemento oggettivo del reato ed erronea applicazione dell’art. 8 d.lgs. 74/2000 alla luce dei princìpi di diritto dettati dalla cosiddetta sentenza ‘ COGNOME ‘ di questa Corte di legittimità (Sez. 3, n. 10916 del 12/11/2019, dep. 2020, Rv. 279859-03).
La Corte avrebbe dovuto verificare, come richiesto dalla difesa e in ossequio al dettato della sentenza ‘ COGNOME ‘ , se, nel caso di specie, la maggior capacità decettiva in danno dell’Erario fosse imputabile alla fattura emessa da RAGIONE_SOCIALE, società irlandese; se la discrasia tra il vero fornitore e percettore ultimo del compenso, il prof. COGNOME e il soggetto indicato in fattura avesse cagionato pregiudizio all’Erario e avrebbe dovuto riqualificare la condotta ai sensi dell’articolo 3 d.lgs. 74/2000. Invero, la Corte ha respinto la richiesta di riqualificazione dei fatti ai sensi dell’art. 3 d.lgs. 74/2000, poiché quest’ultima ipotesi è stata ritenuta totalmente estranea al fatto contestato in quanto non vi è stata alcuna fraudolenta dichiarazione per l’appostazione di operazioni fittizie attraverso documenti per operazioni inesistenti, ma questa argomentazione è contraddittoria poiché la Corte ha scelto di non prendere atto della oggettiva discrasia tra quanto contestato dalla Procura della Repubblica di Milano al capo n. 11 e quanto effettivamente emerso
nel corso della istruttoria e colto dal Tribunale che, tuttavia, non ne aveva tratto le dovute conseguenze.
Nel capo di imputazione si contesta l’inesistenza oggettiva e non soggettiva della prestazione fatturata da RAGIONE_SOCIALE ad RAGIONE_SOCIALE e regolarmente pagata, mentre l’istruttoria dibattimentale ha fatto emergere l’esistenza oggettiva della prestazione materialmente eseguita da altro soggetto, il che evoca la riconducibilità del fatto al delitto previsto dall’art. 3 del decreto citato, così ponendosi in contrasto con la motivazione con cui è stata respinta la istanza difensiva di riqualificazione.
Anche qualora si volesse ritenere sussistente la motivazione sul tema della riqualificazione, si sarebbe comunque al cospetto di una violazione dell’art. 1, comma 1, lett. g-bis decreto cit., che definisce il concetto di simulazione oggettiva e soggettiva al cui interno rientra l’interposizione fittizia, fenomeno quest’ultimo pacificamente emerso nel caso di specie all’esito della istruttoria dibattimentale e rilevante per escludere la configurabilità a carico di Dal Magro del delitto previsto dall’art. 8 del decreto citato.
6.4. Vizio di motivazione e contraddittorietà della sentenza in relazione all’entità delle sanzioni interdittive accessorie applicate a COGNOME. La difesa aveva contestato la eccessività delle pene accessorie applicate in quanto ritenute sproporzionate in relazione alla posizione di COGNOME in quanto identiche a quelle comminate ai due imputati principali, i fratelli COGNOME, protagonisti di questo processo e riconosciuti colpevoli di ben 5 capi di imputazione. Di contro, a COGNOME è stato contestato un solo capo di imputazione ed è stata applicata la pena di un anno di reclusione con il beneficio della sospensione condizionale. Inoltre, COGNOME è cittadino svizzero residente in Svizzera, dove svolge la propria attività lavorativa, ed è oggettivamente poco probabile che egli possa rivestire cariche in società di diritto italiano.
Secondo la prospettazione accusatoria COGNOME non faceva parte della collaudata squadra ristretta che aveva dato vita ad un sodalizio criminoso finalizzato alla commissione di reati tributari ed altri; ulteriore aspetto contraddittorio della motivazione è costituita dal fatto che la sentenza valorizza la asserita abilità dell’imputato ad avere contatti con società estere mentre nella vicenda è emerso un unico contatto con una società di diritto irlandese. Peraltro, così facendo, la sentenza incorre nel vizio di contraddittorietà.
6.5. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al diniego del beneficio della non menzione.
6.6. Con memoria trasmessa il 14 febbraio 2025 ha depositato motivi nuovi insistendo nella diversa qualificazione giuridica della condotta ascritta al COGNOME
anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 95 del 2019 e della Corte di cassazione (Sez. 3, n. 10916 del 12/11/2019, dep. 2020, COGNOME).
6.7. Con memoria del 3 giugno 2025 il difensore ha replicato alle conclusioni formulate per iscritto dal Procuratore generale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi di COGNOME NOME e di COGNOME NOME sono fondati limitatamente all’operato trattamento sanzionatorio, circostanza che impone l’annullamento della sentenza impugnata nei loro confronti, e anche in ordine alla pena accessoria nei confronti del solo COGNOME NOME, con rinvio per nuovo giudizio sui punti ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Va revocata la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici nei confronti di COGNOME NOME. Nel resto, i ricorsi di COGNOME NOME e di COGNOME NOME sono inammissibili. Parimenti inammissibili sono i ricorsi di COGNOME NOME e di COGNOME NOME.
Appare necessario premettere alla disamina dei singoli motivi, senza sacrificio di un esame specifico delle peculiarità di ciascuno, alcune questioni di diritto, inerenti a diversi motivi di ricorso proposti con argomentazioni sovrapponibili.
Va osservato che la Corte di appello ha pienamente confermato la ricostruzione in fatto e le considerazioni in diritto operate dal Tribunale, così giungendo a conclusioni analoghe, sulla scorta di una conforme ponderazione del compendio istruttorio, con motivazione del tutto immune da illogicità o omissioni sui temi devoluti. Invero, il Collegio di secondo grado, con motivazione logica e persuasiva, conforma alla decisione di primo grado, ha ricostruito analiticamente la posizione e le condotte direttamente imputabili ai ricorrenti.
È quindi opportuno ricordare che questa Corte ha ripetutamente chiarito che, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (cfr., Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, COGNOME, Rv. 191229-01; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 252615-01; Sez. 6, n. 8309 del 14/01/2021, COGNOME, non mass.).
Pertanto, in presenza di una “doppia conforme” – anche nell’iter motivazionale – il giudice di appello non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente i fatti decisivi. Ne consegue che, in tal caso, debbono considerarsi implicitamente disattese le argomentazioni che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr., Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 277593-01; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 260841-01; Sez. 3, n. 13266 del 19/02/2021, COGNOME, non mass.).
Può osservarsi, ancora in via preliminare, come diversi motivi proposti dai ricorrenti si caratterizzino per avere, nella maggior parte della loro articolazione, reiterato argomenti già introdotti con l’atto di appello, al fine di giungere ad una lettura alternativa del merito, senza realmente confrontarsi con l’ampia, logica e persuasiva motivazione della Corte di appello, che ha analiticamente ricostruito le condotte poste a base della condanna degli stessi.
Deve essere, al riguardo, ribadito che sono inammissibili i motivi che riproducono pedissequamente le censure dedotte in appello, al più con l’aggiunta di espressioni che contestino, in termini meramente assertivi ed apodittici, la correttezza della sentenza impugnata, laddove difettino di una critica puntuale al provvedimento e non prendano in considerazione, per confutarle in fatto e/o in diritto, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non sono stati accolti ( ex multis , Sez. 6, n. 23014 del 29/04/2021, B., Rv. 281521-01).
Inoltre, non va dimenticato che è preclusa alla Corte di cassazione la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito attraverso una diversa ed alternativa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova ( ex multis , Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217-01; Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, COGNOME, Rv. 283370-01, in cui si è affermato che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, il vizio di “contraddittorietà processuale” – o “travisamento della prova” – vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l’eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova).
Da ciò consegue l’inammissibilità di tutte le doglianze che criticano la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento, rappresentando tutto ciò una non ammissibile interferenza con la valutazione del fatto riservata al giudice del merito (cfr., Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747-01; Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, O., Rv. 26296501).
Tanto premesso, possono essere esaminati nello specifico i singoli motivi di ricorso.
3. Ricorsi di COGNOME NOME e di COGNOME NOME.
I due ricorsi presentano motivi nella sostanza analoghi, ad eccezione del primo motivo del ricorso di NOME COGNOME e possono essere trattati congiuntamente.
3.1. Il primo motivo del ricorso di NOME COGNOME, con cui si censura l’affermazione di responsabilità per il delitto associativo con il ruolo di organizzatore nei confronti di NOME COGNOME è generico in quanto reitera le censure già formulate con il gravame senza confrontarsi con le risposte ricevute.
E’ noto che , in tema di reato associativo, riveste il ruolo di promotore non solo chi sia stato l’iniziatore dell’associazione, coagulando attorno a sè le prime adesioni e consensi partecipativi, ma anche colui che contribuisce alla potenzialità pericolosa del gruppo già costituito, provocando l’adesione di terzi all’associazione ed ai suoi scopi attraverso un’attività di diffusione del programma (Sez. 2, n. 52316 del 27/09/2016, Riva, Rv. 268962-01).
E’ stato inoltre precisato che risponde del reato di partecipazione ad associazione per delinquere il professionista che, pur nello svolgimento della propria attività in formale aderenza ai canoni della professione, persegua lo scopo di concorrere alla realizzazione di un’associazione dedita alla commissione di delitti, configurandosi, invece, un’ipotesi di partecipazione qualificata dal ruolo di organizzatore, qualora la sua condotta sia strutturalmente essenziale all’organizzazione dell’associazione (Sez. 3, n. 24799 del 13/03/2019, COGNOME, Rv. 276001-01; conf., Sez. 1, n. 2897 del 1994, Rv. 197921).
A pagina 11 della sentenza la Corte territoriale sintetizza il tenore della pronunzia di primo grado, osservando che sul piano strutturale i fratelli COGNOME, NOME, separatamente giudicato e COGNOME NOME, deceduto nelle more del giudizio, erano componenti di un’associazione a delinquere e collaboravano
quotidianamente al raggiungimento dello scopo comune, con una suddivisione dei ruoli che vedeva al vertice, come capo e promotore, NOME COGNOME rispetto agli altri tre che partecipavano comunque alla esecuzione di tutti gli affari di cui si occupava lo studio, venendo informati di qualsiasi iniziativa e implicazione, e soprattutto nella piena consapevolezza della illiceità delle operazioni che realizzavano in favore di diversi clienti, senza la necessità di concordare modalità e obiettivi di volta in volta, ma sulla base di un accordo criminoso stabile, in forza del quale i sodali e collaboratori dello studio cooperavano per la realizzazione del comune obiettivo.
L’associazione aveva elaborato uno schema di elusione che avrebbe garantito ai clienti dello studio COGNOME, che avevano occultato somme di denaro sottratte al fisco su conti esteri e che avevano in animo di far rientrare in Italia attraverso il meccanismo della voluntary disclosure i fondi predetti in modo legale, un esito favorevole a costi accettabili: il meccanismo prevedeva la costituzione di una società di diritto estero destinataria del denaro, con nomina di un amministratore con delega ad operare sui conti, in modo tale da schermare la reale identità dei soggetti effettivamente titolari, operare prelievi mirati e disporre in Italia delle somme ivi custodite.
La stabilità del vincolo e l’indeterminatezza del programma criminoso è dimostrata dai servizi resi ad una pluralità di clienti che si rivolgevano allo studio e dall’arco temporale di consumazione dei reati fine.
Come evidenziato dalla Procura generale, le motivazioni del provvedimento impugnato dimostrano chiaramente che non si è trattato di concorso di persone nel reato, ma di attività strumentalmente rivolta all’elusione dei doveri fiscali inerenti il rientro di capitali italiani illegalmente giacenti all’estero, dedicata in via professionale e continuativa al raggiungimento del predetto fine illecito con predisposizione di apposita documentazione giustificativa e indicazione delle società create ad hoc quali intestatarie dei conti correnti cui far confluire il denaro, in cui il pactum sceleris tra gli imputati, con a capo il predetto ricorrente, era caratterizzato dalla capillarità dell’attività e dalla consapevolezza di ciascuno degli associati di far parte di un gruppo organizzato teso alla realizzazione del programma criminoso
Tali conclusioni, che si fondano sul tenore di numerose conversazioni da cui emerge che i coimputati operavano di comune accordo nella consapevolezza di agire nell’inter esse comune del gruppo, appaiono rispettose dei principi affermati in tema dalla giurisprudenza di legittimità.
3.2. La seconda censura, comune ai due ricorrenti, si articola in tre diversi motivi relativi alla sussistenza e al coinvolgimento nei reati fine ed è inammissibile perché in parte manifestamente infondata e in parte reiterativa.
3.2.1. Come ben spiegato a pagina 14 della sentenza di secondo grado, l’operazione incriminata al capo 3 dell’imputazione si riferisce all’occultamento della provenienza illecita della somma di 800.000 euro, appartenente a COGNOME NOME e a COGNOME NOME, costituita da proventi di lavoro guadagnati negli anni precedenti, sottratti dal pagamento delle imposte; in relazione a detto reato presupposto, i COGNOME hanno patteggiato la pena; la somma era già depositata su un conto presso una banca Svizzera, la banca RAGIONE_SOCIALE di Lugano e i COGNOME non hanno avuto alcun ruolo nella formazione della provvista; attraverso la costituzione della RAGIONE_SOCIALE di diritto svizzero, della quale i fratelli COGNOME erano soci, si era aperto un conto corrente presso Credit Suisse intestato alla società e i fondi depositati a nome dei COGNOME nella banca RAGIONE_SOCIALE avrebbero dovuto confluire in questa società ed essere trasferiti alla Credit Suisse.
Giova rilevare che nell’ambito di un contesto associativo, la responsabilità dell’esponente apicale rispetto ai reati fine non è automatica , ma è sufficiente che l’esponente apicale venga informato e dia il proprio assenso alla realizzazione di uno dei reati fine per ritenere sussistente la partecipazione del predetto sotto forma di concorso morale.
A pagina 9 la sentenza osserva che il concorso di COGNOME NOME è ravvisabile nell’assenso preventivo e generale dato ai suoi stretti collaboratori per la realizzazione di condotte illecite secondo uno schema reiterato e sistematico, indicato come schema COGNOME, come emerge da diverse conversazioni intercettate.
3.2.2. La censura in ordine al concorso dei COGNOME nella vicenda contestata al capo 6 della rubrica è generica poiché la Corte a pag. 15 indica gli elementi di fatto su cui si fonda l’affermazione di respon sabilità, valorizzando il contatto intercorso tra COGNOME, che agiva sotto la diretta direzione del COGNOME, e COGNOME, avente per oggetto proprio la necessità di reperire una fattura, e il tenore di un’ulteriore conversazione tra COGNOME e COGNOME NOME, che concordavano in ordine alla fattibilità della operazione ed ancora l’intervento diretto di COGNOME NOME che interloquendo con COGNOME NOME, collaboratrice di Rotondi, concretizzava l’operazione.
In conclusione, la Corte offre corretta motivazione in ordine al concorso dei ricorrenti nel delitto contestato.
3.2.3. La censura relativa all’episodio di ricettazione dei gioielli di cui al capo 16 è generica poiché non si confronta con la motivazione resa dalla Corte. La sentenza osserva che il proprietario, poi deceduto, di questi preziosi era stato condannato nel 2001 per appropriazione indebita per somme di rilevante entità, in quanto avvalendosi della sua qualifica di broker di Banca Fideuram si era accaparrato beni di ingente valore degli investitori; il patrimonio del Bavassano
era costituito anche da altri oggetti e quadri di rilevante valore. Le pietre preziose erano citate nel manoscritto di Bavassano NOME sicché, deceduto questi, la moglie aveva cercato attraverso il proprio commercialista di ritornare in possesso di questi beni illecitamente accumulati dal marito. Il reato presupposto non è pertanto il falso contestato al capo 17, come indicato dalla difesa nel ricorso.
I ricorrenti non censurano in modo specifico questa articolata motivazione della sentenza e così incorrono nel vizio di genericità
La sentenza, peraltro, osserva a pagina 16 che, se l’origine dei preziosi fosse stata lecita, non vi sarebbe stata alcuna necessità di falsificare i documenti di trasporto per il loro rientro in Italia, che avrebbe potuto essere eseguito in piena trasparenza.
3.3. Il terzo motivo relativo al trattamento sanzionatorio è in parte fondato.
La censura in merito all’omessa motivazione sulla richiesta di aumentare la riduzione di pena ex art. 56 cod. pen. per il tentativo di riciclaggio è manifestamente infondata poiché il giudice non è tenuto a respingere esplicitamente ogni prospettazione difensiva e non sussiste alcun diritto per l’imputato di fruire delle riduzioni nella misura massima consentita . La pena è stata determinata in misura contenuta e prossima al minimo edittale, sicchè non richiedeva specifica e articolata motivazione.
La richiesta di escludere nei confronti di NOME COGNOME l’aggravante del ruolo di promotore nel reato associativo è erronea poiché il ruolo di promotore e organizzatore correttamente attribuito al R ebecchi non integra un’aggravante ma una fattispecie autonoma di reato.
La pena per NOME COGNOME è stata determinata in relazione al più grave reato di tentato riciclaggio aggravato dall’esercizio della professione , avente ad oggetto una somma non inferiore ad 800.000 euro, ascritto al capo 3, in misura pari a tre anni di reclusione e 10.000 euro di multa; aumentata di anno uno, mesi sei per il ruolo di promotore del reato associativo e di sei mesi per i reati contestati ai capi 6 e 16.
La sentenza della Corte territoriale afferma che il reato presupposto commesso dai COGNOME è quello previsto dall’art. 11 d. lgs. 74/2000, che solo nel caso in cui l’ammontare delle imposte sia superiore a 200.000 euro, prevede la reclusione sino a sei anni. Nel caso in esame, dal capo d’imputazione si evince che la somma che doveva rientrare dall’estero era superiore a 800.000 euro, ma la Corte risponde alla censura difensiva sostenendo che occorre fare riferimento alla pena in astratto riferita al massimo edittale e non alla fattispecie attenuata.
Q uesta motivazione non è condivisibile poiché l’art. 11 d. lgs. cit., prevede la pena da sei mesi a quattro anni di reclusione; l’ultima parte del primo comma e
del secondo comma prevede un’aggravante ad effetto speciale, in relazione all’entità dell’imposta evasa, e non una fattispecie autonoma di reato.
Ne consegue che la pena per la fattispecie di cui all’art. 11 d.lgs. cit., va stabilita in astratto facendo riferimento alla pena edittale prevista per l’ipotesi non aggravata, e cioè sino a quattro anni di reclusione, a meno che in concreto non ricorra e non venga motivata la sussistenza in concreto della fattispecie aggravata. Si impone pertanto l’annullamento sotto questo profilo del trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano, che dovrà verificare se nel caso di specie ricorre l’ipotesi attenuata di cui al quarto comma dell’art. 648 -bis cod. pen. in relazione alla pena edittale prevista per il reato presupposto e poi effettuare il giudizio ex art. 69 cod. pen. tra detta eventuale attenuante e l’aggravante dell’esercizio della professione contestata ai COGNOME e mai esclusa.
La pena per NOME NOME è stata determinata in misura uguale a quella applicata al fratello per il reato di riciclaggio, ma gli sono state concesse le attenuanti generiche e, pur non effettuando il prescritto giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen., la pena è stata ridotta ad anni due di reclusione ed euro 7000 di multa e anche gli aumenti per la continuazione sono stati ridotti sensibilmente.
Va, infine, rilevata d’ufficio l’ill egalità della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici applicata ex art. 29 cod. pen. dal Tribunale e confermata in appello, che va revocata nei confronti di COGNOME NOMECOGNOME poiché la pena applicata con la sentenza impugnata per il più grave reato di tentato riciclaggio è già inferiore ai tre anni di reclusione e potrebbe ridursi ulteriormente , sicchè non ricorrono i presupposti di cui all’art. 29 cod. pen.
Nei confronti di COGNOME NOMECOGNOME va disposto l’annullamento della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e il rinvio alla Corte di merito che, dopo avere rivalutato il trattamento sanzionatorio, provvederà a verificare se ricorrono i presupposti per l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea ex art. 29 cod. pen.
Poiché COGNOME NOME e COGNOME NOME sono stati condannati anche per il reato di cui all’art. 8 d.lgs. 74/2000 contestato al capo 6 della rubrica, il giudice di rinvio dovrà valutare in che misura applicare, in forza dell’art. 12 , comma 2, d.lgs. 74/2000, l’interdizione dai pubblici uffici , prevista per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre.
Giova, infatti, ricordare che nel caso di reato continuato, per determinare le pene accessorie da applicare, ai sensi dell’art. 77 cod. pen., è necessario fare riferimento ai singoli reati per i quali è stata pronunciata la condanna, scindendo, pertanto, detto reato nelle singole violazioni che lo compongono ed applicando le pene accessorie previste per ciascun illecito “satellite” (Sez. 3, n. 36308 del
21/05/2019, COGNOME Rv. 277502-01, in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione di appello che aveva confermato l’applicazione delle pene accessorie di cui all’art. 12 del d.lgs. 74/2000 per il reato di cui all’art. 11 del medesimo d.lgs., riunito in continuazione con il più grave reato di usura).
4. Ricorso COGNOME.
4.1. La censura in merito all’affermazione di colpevolezza è manifestamente infondata poiché la norma punisce chi, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte emette o rilascia fattura per operazioni inesistenti, a prescindere dal loro effettivo utilizzo.
Tale circostanza si desume anche dall’art. 9 d.lgs. 74/2000 che, in deroga all’art. 110 cod. pen., prevede che l’emittente di fatture per operazioni inesistenti non è punibile come concorrente nel reato di cui all’art. 2 d.lgs. cit., relativo alla dichiarazione fraudolenta mediante fatture inesistenti.
Trova, inoltre, applicazione nella specie il regime prescrizionale introdotto dall’art. 17, comma 1bis d.lgs. 74/2000 (comma aggiunto dall’art. 2, comma 36 -vicie semel , lett. l), del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148), che ha elevato di un terzo i termini di prescrizione per i reati tributari (tra i quali anche quello di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000), portando a dieci anni il termine massimo, considerati gli atti interruttivi, termine decorrente dal giorno successivo alla data di presentazione della dichiarazione fiscale.
Ciò posto, va osservato che dalla data indicata nel capo d’imputazione, che fa riferimento al 6 maggio 2014 (data che, non essendo stata oggetto di contestazione nel corso del giudizio di merito non può esserlo in questa sede), vanno considerati dieci anni, a cui vanno aggiunti 115 giorni per le sospensioni intervenute nel corso del giudizio (dal 22/10/2019 al 17/12/2019 e dal 18/01/2021 al 18/0 3/2021, senza considerare l’ulteriore periodo di sospensione per Covid intervenuto il 9 giugno 2021, che il Tribunale ha ritenuto di non conteggiare). Il termine di prescrizione sarebbe così maturato il 29 agosto 2024 ma la sentenza di appello è stata emessa in epoca precedente (11 luglio 2024).
Ne consegue che la censura con cui si deduce che la prescrizione sarebbe maturata prima della sentenza della Corte di appello è manifestamente infondata.
4.2. La seconda censura è generica.
E’ noto che i n tema di sostituzione di pene detentive brevi con pena pecuniaria, il giudice, nel determinare il valore giornaliero della sanzione pecuniaria, è tenuto a motivare in base ai parametri indicati dall’art. 56quater legge 24 novembre 1981, n. 689, introdotto dall’art. 71, comma 1, lett. d) , d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, quali le complessive condizioni economiche, patrimoniali
e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare (Sez. 6, n. 14873 del 12/03/2024, COGNOME, Rv. 286235-01).
La nuova disposizione configura la pena pecuniaria sostitutiva (che può applicarsi anche senza il consenso del condannato) come commisurabile entro l’ampio arco di un valore giornaliero (corrispondente alla parte di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria) che va da un limite minimo non inferiore a 5 euro a un limite massimo non superiore a 2500 euro, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare, che il giudice dovrà accertare nell’udienza ex art. 545bis cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 18812 del 10/03/2023, Pizzo, non mass.).
Fermo quanto precede, nel caso in esame, la Corte ha affermato di avere fatto riferimento alla documentazione fiscale presentata dalla difesa e che la somma risulta congrua a quanto dichiarato dall’imputato nell’anno di riferimento. Considerato che la pena sostituita era pari ad un anno di reclusione, il conguaglio è stato fissato in circa 47 euro al giorno e risulta, in effetti, prossimo alla soglia minima dei valori di conguaglio.
La motivazione, sia pure sintetica, appare sufficiente a dimostrare che il Collegio ha tenuto conto delle condizi oni di reddito dell’imputato e ha fissato il quantum di pena con una valutazione che rientra nei poteri discrezionali del merito e non può essere oggetto di sindacato da parte di questa Corte, non risultando manifestamente illogica.
5. Ricorso Dal Magro.
5.1. I primi tre motivi di ricorso formulano censure reiterative e manifestamente infondate poiché in tema di reati tributari, il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è configurabile anche nel caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, e cioè quando l’operazione oggetto di imposizione fiscale sia stata effettivamente eseguita e non vi sia, tuttavia, corrispondenza soggettiva tra il prestatore indicato nella fattura o altro documento fiscalmente rilevante e il soggetto giuridico che abbia erogato la prestazione, in quanto, anche in tal caso, è possibile conseguire il fine illecito indicato dalla norma, ovvero consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (Sez. 3, n. 16576 del 01/03/2023, COGNOME, Rv. 28449401, in cui si è precisato che il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti si configura anche nel caso in cui non sia stato individuato il soggetto che abbia erogato la prestazione e in quello in cui non sia stato accertato che si sia concretamente verificata un’evasione d’imposta).
Non ricorrono i presupposti per l’invocata riqualificazione poiché , in tema di reati tributari, i delitti di dichiarazione fraudolenta previsti dagli artt. 2 e 3, d.lgs. n. 74 del 2000, si consumano nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale nella quale sono effettivamente inseriti o esposti elementi contabili fittizi, essendo penalmente irrilevanti tutti i comportamenti prodromici tenuti dall’agente, ivi comprese le condotte di acquisizione e registrazione nelle scritture contabili di fatture o documenti contabili falsi o artificiosi ovvero di false rappresentazioni con l’uso di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento (Sez. 3, n. 52752 del 20/05/2014, Vidi, Rv. 262358-01).
Ma, nel caso in esame, la condotta contestata è l’emissione di una fattura per operazione soggettivamente inesistente e non residuano dubbi circa il conseguimento da parte del COGNOME che ha ricevuto il compenso fatturato in favore di altro soggetto, del profitto derivante dal mancato pagamento delle imposte sul corrispettivo ricevuto.
Il ricorso peraltro riconosce che COGNOME ha patteggiato la pena, previa riqualificazione del fatto a lui ascritto in origine come riciclaggio ai sensi dell’art. 8 d.lgs. cit., e non spiega perché COGNOME, concorrente in questo reato, dovrebbe rispondere di diversa fattispecie.
Anche la richiesta di riqualificare la condotta ascritta a COGNOME ai sensi dell’art. 3 d.lgs. 74/2000, non può trovare accoglimento poiché, in tema di reati tributari, l’art. 3, cit., presuppone la compilazione e la presentazione di una dichiarazione mendace, nonché la realizzazione di un’attività ingannatoria prodromica (Sez. 3, n. 37642 del 06/06/2024, COGNOME, Rv. 286978-01).
Nel caso in esame, la condotta consiste nell’emissione di una fattura e nel suo corrispondente pagamento per un’operazione soggettivamente inesistente e , anche se il capo d’imputazione fa riferimento ad un’operazione oggettivamente inesistente, la erronea indicazione non ha alcuna rilevanza in quanto non ha pregiudicato le prerogative della difesa che ha potuto comprendere e difendersi dalla prospettazione accusatoria.
5.2. La quarta censura è generica.
Occorre preliminarmente osservare che, nel provvedimento impugnato, risultano irrogate, le pene accessorie previste in misura non fissa dal d.lgs. 74/2000, art. 12 e segnatamente: a) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese b) l’incapacità a contrarre con la Pubblica Amministrazione, c) l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per un periodo di anni uno e mesi sei, nonché quella fissa dell’interdizione perpetua dall’ufficio di componente di commissione tributaria.
E’ noto che l a durata delle pene accessorie per le quali è previsto un limite minimo e massimo, deve essere determinata in concreto, con adeguata
motivazione, sulla base dei criteri stabiliti dall’art. 133 cod. pen., dovendo escludersi la necessaria correlazione con quella della pena principale (Sez. 3, n. 41061 del 20/06/2019, COGNOME, Rv. 277972-01; Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, COGNOME, Rv. 276286-01).
La Corte ha reso adeguata e corretta motivazione sottolineando il ruolo assunto da COGNOME nell’ambito di una vicenda caratterizzata dalla volontà comune a tutti i coimputati di frodare il fisco attraverso un’operazione programmata nei minimi particolari, che avrebbe concesso al beneficiario considerevoli risparmi. La Corte ha spiegato che la pena accessoria ha una finalità preventiva adeguata alla pericolosità palesata dall’imputato , che ha comunque dimostrato in occasione dell’episodio in cui è rimasto coinvolto, di non avere remore a sfruttare la sua professione per perseguire scopi illeciti e ha mostrato di avere contatti con società estere presso cui reperire con facilità una fattura falsa. Si tratta di considerazioni congrue alle emergenze processuali e immuni dai vizi di manifesta illogicità e contraddittorietà dedotti dalla difesa.
5.3. La quinta censura è manifestamente infondata poiché a pag. 22 la sentenza rende precisa motivazione a sostegno del rigetto del beneficio della non menzione ex art. 175 cod. pen., formulando valutazion i che rientrano nell’a mbito della discrezionalità propria del giudice di merito e, risultando immuni da vizi di manifesta illogicità e contraddittorietà, esulano dal sindacato di questa Corte.
5.4. Non ricorrono i presupposti per ritenere prescritto il reato contestato a COGNOME poiché il termine di prescrizione ex art. 17 d.lgs. cit., matura in otto anni, prorogati ex art. 161 cod. pen. a dieci anni.
La data di contestazione riportata nel capo d’imputazione coincide con quella indicata nella fattura emessa dalla RAGIONE_SOCIALE e cioè il 14 novembre 2014; da questo termine vanno considerati dieci anni, a cui vanno aggiunti 115 giorni per le sospensioni intervenute nel corso del giudizio (dal 22/10/2019 al 17/12/2019 e dal 18/01/2021 al 18/0 3/2021, senza considerare l’ulteriore periodo di sospensione per Covid intervenuto il 9 giugno 2021, che il Tribunale ha ritenuto di non conteggiare).
Il termine sarebbe maturato il 9 marzo 2025, ma dal 6 marzo 2025 i termini di prescrizione sono rimasti sospesi poiché l’udienza dinanzi a questa Corte è stata rinviata una prima volta per legittimo impedimento dell’avv. COGNOME che ha presentato certificato medico del Pronto Soccorso del 3 marzo 2025 con prognosi di trenta giorni, e una seconda volta, dall’udienza del 7 maggio 2025, per adesione dei difensori all’astensione di categoria proclamata dall ‘Unione delle Camere Penali.
In considerazione dell’inammissibilità de l ricorso, non potrebbe tenersi conto della prescrizione eventualmente maturata dopo la data della sentenza di appello,
(Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266-01), ma comunque a tutt’oggi il termine ex art. 157 cod. pen., ulteriormente prorogato di 103 giorni in forza dei sunnominati rinvii d’udienza , non è ancora maturato, essendo -come detto -il termine in parola rimasto ininterrottamente sospeso a far data dal 6 marzo 2025.
Per le considerazioni sin qui esposte, i ricorsi di COGNOME e COGNOME devono essere dichiarati inammissibili. Alla pronuncia consegue la condanna dei predetti ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, quanto a ciascuno di essi, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dai ricorsi (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186) al versamento della somma ritenuta equa di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Il parziale accoglimento dei ricorsi di COGNOME NOME e di COGNOME NOME, escludendo la loro totale soccombenza, li esonera dalla condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME e di COGNOME NOME in ordine al trattamento sanzionatorio per entrambi e anche in ordine alla pena accessoria nei confronti del solo COGNOME NOME.
Rinvia per nuovo giudizio sui punti ad altra sezione della Corte di appello di Milano.
Revoca la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici nei confronti di COGNOME NOMECOGNOME
Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi di COGNOME NOME e di COGNOME NOME.
Dichiara inammissibili i ricorsi di NOME COGNOME NOME e di COGNOME NOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Roma 17 giugno 2025 Il Consigliere estensore Il Presidente
NOME COGNOME NOME COGNOME