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Associazione a delinquere: la presunzione cautelare

La Corte di Cassazione ha confermato la misura della custodia cautelare in carcere per un individuo accusato di partecipazione a un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, sottolineando che la presunzione di pericolosità prevista dalla legge per reati così gravi non può essere superata dal solo decorso del tempo. La decisione si basa su solidi indizi derivanti da intercettazioni, che provavano il ruolo attivo dell’indagato nell’organizzazione, inclusa la gestione di una piantagione e la ricezione di ingenti quantitativi di droga.

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Pubblicato il 21 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Associazione a delinquere: il tempo non basta a escludere il carcere

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21542/2024, ha affrontato un caso di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, offrendo importanti chiarimenti sulla validità delle misure cautelari anche a distanza di tempo dai fatti contestati. La decisione conferma che, per reati di tale gravità, la presunzione di pericolosità sociale dell’indagato è un principio difficile da superare.

I Fatti del Caso

Il Tribunale del Riesame di Lecce aveva confermato la custodia cautelare in carcere per un uomo gravemente indiziato di far parte di un’organizzazione criminale dedita al traffico di droga. Le accuse specifiche includevano la partecipazione all’associazione, il concorso nella coltivazione di una piantagione di cannabis e la ricezione di due chilogrammi di marijuana destinati alla vendita al dettaglio.

Le prove a carico dell’indagato si basavano principalmente su un’ampia attività di intercettazione telefonica e ambientale, supportata da servizi di osservazione e pedinamento. Da queste indagini era emerso il suo ruolo di “controllore” della piantagione per conto del capo del sodalizio, nonché il suo coinvolgimento diretto nella gestione e nel traffico della sostanza.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

La difesa dell’indagato ha presentato ricorso in Cassazione, articolando diverse censure:

1. Mancata autonoma valutazione: Si lamentava che il Tribunale del Riesame avesse recepito acriticamente le conclusioni del GIP senza una valutazione indipendente.
2. Errata identificazione: La difesa sosteneva un errore nell’identificazione del proprio assistito, basandosi su una conversazione da cui sarebbe emersa l’esistenza di un altro soggetto con lo stesso nome.
3. Insussistenza dell’associazione a delinquere: Veniva negata la partecipazione all’associazione, evidenziando presunti rapporti di sfiducia tra l’indagato e il capo del gruppo.
4. Carenza di prove sui reati specifici: Si contestava la solidità degli indizi relativi alla coltivazione e alla consegna della droga.
5. Mancanza di attualità delle esigenze cautelari: Il punto cruciale del ricorso era il notevole lasso di tempo (circa tre anni) trascorso tra i fatti e l’applicazione della misura, ritenuto sufficiente a far venir meno il pericolo di reiterazione del reato.

L’analisi della Corte sulla presunzione nell’associazione a delinquere

La Suprema Corte ha respinto integralmente il ricorso, ritenendo tutti i motivi infondati. In particolare, ha smontato la tesi difensiva sull’identificazione, evidenziando come le intercettazioni, corroborate da riscontri video, identificassero senza dubbi l’indagato come il soggetto chiamato “Toni”, incaricato di sorvegliare la piantagione.

Sul tema della partecipazione all’associazione a delinquere, la Corte ha ribadito che il suo compito non è rivalutare i fatti, ma controllare la logicità della motivazione del giudice di merito. In questo caso, il Tribunale aveva correttamente valorizzato elementi come il contatto costante con il capo, i resoconti sull’andamento della piantagione e persino un pagamento mensile di 500 euro, tutti indicatori di un inserimento stabile nel sodalizio.

La questione del tempo e la doppia presunzione cautelare

Il punto più significativo della sentenza riguarda la presunta mancanza di attualità delle esigenze cautelari. La Cassazione ha richiamato la cosiddetta “doppia presunzione” prevista dall’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale. Per reati di eccezionale gravità, come l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga, la legge presume sia la sussistenza di un concreto pericolo di reiterazione del reato, sia l’adeguatezza della sola custodia in carcere come misura per fronteggiarlo.

Le motivazioni

Secondo la Corte, questa presunzione non può essere vinta dal solo decorso del tempo. Sebbene un considerevole lasso temporale imponga al giudice un onere di motivazione rafforzato, esso non è di per sé sufficiente a escludere la pericolosità dell’indagato. Nel caso di specie, la gravità dei fatti, il volume d’affari dell’associazione, la disponibilità di armi e i numerosi precedenti penali dell’uomo sono stati considerati elementi prevalenti, capaci di dimostrare una pericolosità ancora attuale e concreta. La prognosi di pericolosità, hanno spiegato i giudici, non si lega solo all’operatività passata dell’associazione, ma alla possibilità che l’indagato commetta nuovi delitti, sfruttando la stessa professionalità criminale.

Le conclusioni

In conclusione, la sentenza ribadisce un principio fondamentale in materia di misure cautelari per i reati più gravi: la pericolosità sociale, una volta accertata sulla base di solidi indizi, si presume persistente. Per superare la custodia in carcere non basta invocare il tempo trascorso, ma è necessario fornire elementi concreti che dimostrino un’effettiva attenuazione del rischio di reiterazione del reato, prova che nel caso esaminato non è stata fornita.

Cos’è la ‘doppia presunzione cautelare’ per un’associazione a delinquere?
È un principio legale previsto per reati molto gravi, secondo cui, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, si presume automaticamente che esistano esigenze cautelari (come il pericolo di reiterazione del reato) e che la custodia in carcere sia l’unica misura adeguata. Questa presunzione può essere superata solo con prove contrarie.

Il semplice passare del tempo è sufficiente a far decadere la necessità della custodia in carcere?
No. Secondo la sentenza, il solo decorso del tempo (in questo caso circa due anni e mezzo) non è un elemento sufficiente a superare la presunzione di pericolosità, specialmente a fronte della gravità dei fatti, del contesto criminale e dei precedenti dell’indagato.

Qual è il ruolo della Corte di Cassazione nella valutazione delle prove come le intercettazioni?
La Corte di Cassazione non riesamina nel merito le prove, come il contenuto delle intercettazioni, per formulare un nuovo giudizio. Il suo compito è verificare che la valutazione fatta dal giudice precedente (il Tribunale del Riesame) sia logica, coerente e non basata su errori di diritto. Si tratta di un controllo di legittimità e non di una nuova valutazione dei fatti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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