Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 1281 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 1281 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 19/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME NOMECOGNOME nato a Catania il 4/6/1975
avverso l’ordinanza del 26/6/2024 del Tribunale di Catania
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto di dichiarare l’inammissibilità del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 26 giugno 2024 il Tribunale di Catania, adito con l’appello del Pubblico ministero, ha applicato a NOME COGNOME la misura cautelare della custodia in carcere, per aver partecipato a un’associazione dedita al traffico di cocaina e marijuana, operante a Catania fino ad aprile 2022 (capo 1) e per i reati fine di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/90 (capo 2).
Avverso l’anzidetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’indagato, che ha dedotto i motivi di seguito indicati.
2.1. Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 273, commi 1 e 1-bis, cod. proc. pen. Dal provvedimento impugnato non emergerebbero né il ruolo ricoperto né il contributo offerto dal ricorrente e, soprattutto, la consapevolezza di far parte di un’associazione, finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, ma si evincerebbero, tutt’al più, delle condotte autonome di reato, per le quali l’indagato potrebbe rispondere ai sensi dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 90. Ciò che emergerebbe dalle intercettazioni a carico del ricorrente sarebbe la mera presenza sui luoghi, che non sarebbe elemento indiziante, capace da solo di consentire l’applicazione di una misura grave come la custodia cautelare in carcere. Sarebbe illogico, inoltre, che l’indagato avesse svolto contemporaneamente il ruolo di pusher, vedetta, venditore della sostanza, oltre che di collaboratore per la cassa comune della presunta associazione, e, allo stesso tempo, avesse avuto il tempo di svolgere regolare attività lavorativa.
2.2. Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione agli artt. 274 e 275 cod. proc. pen. I fatti sarebbero avvenuti nel 2022, l’indagato svolgerebbe regolare attività lavorativa e i suoi precedenti penali sarebbero risalenti nel tempo, cosicché le esigenze cautelari sarebbero insussistenti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Va premesso che questa Corte ha già avuto modo di affermare che, in caso di ribaltamento, da parte del Tribunale del riesame in funzione di giudice dell’appello de libertate, della precedente decisione del primo giudice reiettiva della domanda cautelare, non è richiesta una motivazione rafforzata, in ragione del diverso “standard cognitivo” che governa il procedimento incidentale. È tuttavia necessario un confronto critico con il contenuto della pronunzia riformata, non potendosi ignorare le ragioni giustificative del rigetto, che devono essere, per contro, vagliate e superate con argomentazioni autonomamente accettabili, tratte dall’intero compendio processuale (tra le altre, Sez. 3, n. 31022 del 22/03/2023, COGNOME, Rv. 284982 – 01; Sez. 5, n. 28580 del 22/09/2020, M., Rv. 279593 – 01; Sez. 6, n. 44713 del 28/03/2019, COGNOME, Rv. 278335 – 01).
Nel caso in esame, il Tribunale di Catania ha fatto buon governo dei richiamati principi, avendo dato atto, preliminarmente, che il Giudice per le indagini preliminari aveva rigettato la richiesta di applicazione della custodia in carcere, avendo ritenuto che il Pubblico ministero si fosse limitato a indicare gli indizi raccolti, senza operare alcun vaglio critico, volto a individuare gli elementi costitutivi delle fattispecie contestate, e senza una lettura ragionata delle intercettazioni richiamate.
Il Tribunale, dopo avere precisato che l’eventuale mancata articolazione ragionata degli elementi di fatto, portati dal Pubblico ministero all’attenzione del giudice, non può impedire a quest’ultimo di inquadrare autonomamente anche sotto il profilo argomentativo i dati posti a sua conoscenza, ha affermato che i plurimi elementi indiziari, emersi dalle indagini, costituiti essenzialmente dalle conversazioni intercettate e dalle videoriprese delle videocamere, installate dalla Polizia giudiziaria, nonché dai numerosi sequestri di sostanze stupefacenti, avevano consentito di dimostrare come le singole condotte di spaccio, che avvenivano nel quartiere INDIRIZZO di Catania e, in particolare, in INDIRIZZO angolo INDIRIZZO erano riconducibili a un’organizzazione stabile, che gestiva in modo continuativo l’attività di spaccio attraverso il coordinamento sinergico dei ruoli di ciascun partecipe, in vista del compimento di una serie indeterminata di reati.
Tale organizzazione, articolata su base familiare, era diretta da NOME COGNOME e coadiuvato dai parenti più stretti, tra cui la madre NOME COGNOME che deteneva le dosi di sostanza stupefacente pronte per la vendita e che le recapitava con celerità al figlio NOME ma anche agli altri sodali e, in particolare, ad NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME non appena questi ne facessero richiesta.
Dalle conversazioni richiamate nel provvedimento impugnato e dalle videoriprese era emerso che NOME COGNOME, fratello di NOME e NOME COGNOME e cognato di NOME COGNOME e di NOME COGNOME oltre ad essere quotidianamente impegnato nei turni di spaccio, alternativamente, come pusher o come vedetta, supportava i sodali nei momenti di fibrillazione conseguenti agli arresti dei coindagati; partecipava alle riunioni volte a individuare le nuove strategie da adottare al fine di minimizzare i rischi connessi alle attività delittuose, che venivano gestite dal sodalizio, palesando in tal modo la piena consapevolezza dell’esistenza dell’associazione e la volontà dello stesso di prendervi parte e di assicurarne operatività e sopravvivenza; collaborava talvolta anche nella contabilità del gruppo; si relazionava sinergicamente, oltre che con i capi del sodalizio, anche con gli altri associati, con NOME COGNOME per le forniture di stupefacente e con i pusher, dimostrando di avere piena contezza delle gerarchie
associative e dei ruoli svolti da ciascuno e delle modalità organizzative del gruppo.
Il Tribunale ha rimarcato che, in particolare, indicativa del fatto che l’attività di spaccio venisse svolta dal ricorrente nell’interesse del gruppo era la conversazione registrata il 3 novembre 2021, atteso che nel corso della stessa NOME COGNOME aveva rimproverato il ricorrente, avendogli detto che avrebbe potuto aspettare un’altra mezz’ora prima di andare via e gli aveva chiesto, quindi, i soldi ricavati dalle vendite. COGNOME aveva risposto di averli messi nel bicchiere di vetro lungo, luogo sicuro, evidentemente individuato d’intesa con gli associati per nascondere i proventi del traffico di droga.
La GLYPH continua GLYPH disponibilità GLYPH di GLYPH Sudano a contribuire agli GLYPH interessi dell’associazione emergeva ancora dalle conversazioni registrate il 3 dicembre 2021, nel corso delle quali egli aveva risposto affermativamente alla richiesta di NOME COGNOME di raggiungerlo subito e di aspettare fino alle 21 per coprire il turno di spaccio.
Sintomatiche della condivisione delle attività illecite e dei connessi scopi associativi risultavano anche le conversazioni registrate a seguito degli arresti dei sodali, atteso che dal loro ascolto emergeva la preoccupazione di COGNOME e dei suoi interlocutori per gli arresti avvenuti, in quanto evidentemente le conseguenze degli stessi si riflettevano su tutti i sodali.
Secondo il Collegio cautelare, quindi, tutte le emergenze illustrate erano tali da confermare l’ipotesi dello stabile coinvolgimento dell’odierno indagato nell’attività di spaccio organizzata, con la piena consapevolezza dell’apporto causale fornito all’organizzazione, al fine di perseguire uno scopo comune attraverso una cooperazione efficace con gli altri affiliati e una conoscenza delle reciproche funzioni dei vari partecipanti, che non poteva che derivare dalla predisposizione di un preciso programma organizzativo di cui ogni singolo era edotto.
Il Tribunale ha anche disatteso la deduzione difensiva in ordine all’attività lavorativa lecita, svolta dal ricorrente, avendo affermato che essa non era di per sé incompatibile con la commissione dei delitti contestati, come d’altra parte dimostrato dalle indagini che ne registravano la presenza quotidiana presso i luoghi di spaccio prevalentemente durante i turni pomeridiani e serali.
Siffatte argomentazioni sfuggono ai rilievi censori del ricorrente.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, la commissione di più reati fine in concorso con singoli partecipi al sodalizio non è vicenda fattuale idonea ad integrare di per sé l’esistenza di indizi gravi, precisi e concordanti in ordine alla partecipazione al reato associativo, essendo necessario che i rapporti con tali
soggetti costituiscano forme di interazione nell’ambito di un gruppo organizzato e non di relazioni di tipo diretto e immediato, prive di riferimenti al ruolo esponenziale dei predetti per conto della consorteria (Sez. 3, n. 9036 del 31/01/2022, COGNOME, Rv. 282838 – 01).
L’elemento aggiuntivo e distintivo del delitto di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, rispetto alla fattispecie del concorso di persone nel reato continuato di detenzione e spaccio di stupefacenti, va, infatti, individuato non solo nel carattere dell’accordo criminoso, avente ad oggetto la commissione di una serie non preventivamente determinata di delitti e nella permanenza del vincolo associativo, ma anche nell’esistenza di una organizzazione che consenta la realizzazione concreta del programma criminoso (ex plurimis: Sez. 6, n. 17467 del 21/11/2018, 2019, Noure, Rv. 275550 – 01).
Di tali principi ha fatto corretta applicazione il Tribunale di Catania, che non certo illogicamente ha ritenuto dimostrata la partecipazione del ricorrente al sodalizio criminoso sulla base non solo della reiterazione delle condotte di spaccio, ma anche della stabile commissione delle stesse alle dirette dipendenze del sodalizio e in modo coordinato con gli altri partecipi, oltre che della partecipazione alle riunioni volte a individuare le nuove strategie da adottare al fine di minimizzare i rischi connessi alle attività delittuose, gestite dal sodalizio.
Al cospetto della motivazione del provvedimento impugnato le censure, formulate dal ricorrente, si risolvono nella sollecitazione ad una rinnovata valutazione di merito, non consentita in questa sede.
Sono precluse al giudice di legittimità, infatti, la rilettura degli elementi d fatto, posti a fondamento della decisione impugnata, e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. U, n. 6402 del 2/07/1997, COGNOME, Rv. 207944 – 01; Sez. 6, n. 5456 del 4/11/2020, F., Rv. 280601 – 01; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME Rv. 265482 – 01).
Quanto alle esigenze cautelari, il Tribunale di Catania ha ampiamente argomentato la concretezza e l’attualità del pericolo di recidiva, avendo valorizzato, indipendentemente dall’operatività nella specie della doppia presunzione sancita dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., il versatile ruolo associativo dispiegato dal ricorrente, la prolungata continuità di condotte illecite, poste in essere per mesi anche dopo i numerosi arresti eseguiti dalle Forze dell’ordine.
Questi elementi erano dati espressivi di una spiccata pervicacia criminale e di un’insensibilità all’emenda del ricorrente, tali da imporre la scelta cautelare
estrema e da escludere che il tempo decorso potesse atteggiarsi a elemento positivo, atto a consentire la salvaguardia del pericolo di reiterazione con una misura rimessa all’autocontrollo dell’indagato.
A fronte della motivazione relativa alle esigenze cautelari e alla scelta della misura il ricorrente ha sollevato doglianze assertive e sostanzialmente apodittiche, senza individuare profili di effettiva e manifesta illogicità nel percorso argomentativo svolto dal giudice della cautela.
La declaratoria di inammissibilità del ricorso comporta, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché – non sussistendo ragioni di esonero – della sanzione pecuniaria di euro tremila, equitativamente determinata, in favore della Cassa delle ammende.
La Cancelleria COGNOME onerata degli adempimenti di cui all’art. 28 Reg. esec. cod. proc. pen.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28 Reg. esec. cod. proc. pen.
Così deciso il 19 novembre 2024.