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Associazione a delinquere familiare: quando è reato?

La Corte di Cassazione ha confermato una misura di arresti domiciliari per un’anziana accusata di far parte di un’associazione a delinquere familiare dedita al narcotraffico. La Corte ha stabilito che i forti legami familiari e un ruolo di subordinazione non escludono la responsabilità penale. Ciò che conta è il contributo consapevole e protratto nel tempo all’impresa criminale, anche senza una retribuzione formale.

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Pubblicato il 10 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Associazione a delinquere familiare: Legami di sangue e responsabilità penale

La recente sentenza della Corte di Cassazione affronta un tema delicato e complesso: la configurabilità del reato associativo all’interno del nucleo familiare. Quando la collaborazione tra parenti cessa di essere un mero aiuto e diventa una piena partecipazione a un’impresa criminale? La Corte chiarisce che la presenza di un’associazione a delinquere familiare non è esclusa dai legami di sangue; anzi, questi possono rafforzare il vincolo criminale.

I Fatti del Caso

Il caso riguarda una donna anziana, ultrasettantenne, sottoposta alla misura cautelare degli arresti domiciliari per la sua presunta partecipazione a un’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. L’organizzazione criminale, a base prevalentemente familiare, era gestita con pugno di ferro dal figlio della donna. La difesa sosteneva che l’indagata non avesse agito con affectio societatis, ovvero con la volontà di far parte del sodalizio, ma si fosse trovata in una posizione di sudditanza psicologica nei confronti del figlio, eseguendo i suoi ordini per timore e a causa del legame materno. Si contestava, inoltre, la proporzionalità della misura cautelare data l’età avanzata e il tempo trascorso dai fatti.

L’analisi dell’associazione a delinquere familiare

Il cuore della questione giuridica risiede nella distinzione tra il concorso di persone nel singolo reato e la partecipazione stabile a un’organizzazione criminale. Secondo la difesa, le azioni della donna (custodire lo stupefacente, preparare le dosi) andavano lette come singoli episodi di aiuto al figlio, dettati da un rapporto familiare e non da una condivisione degli scopi criminali dell’associazione.

Il ruolo della ‘affectio societatis’

La Cassazione, rigettando il ricorso, ha ribadito un principio fondamentale: l’esistenza di un’associazione criminale non è esclusa dal fatto che i suoi membri siano legati da vincoli di parentela. Al contrario, i rapporti familiari possono rendere il sodalizio ancora più coeso e pericoloso. Per dimostrare la partecipazione non è necessario provare un accordo formale, ma è sufficiente accertare l’esistenza di ‘facta concludentia’, cioè comportamenti che dimostrano in modo inequivocabile l’inserimento stabile nella struttura. Nel caso di specie, la donna era pienamente consapevole dei turni, provvedeva agli approvvigionamenti, effettuava consegne e avvertiva il figlio della presenza delle forze dell’ordine. Tali condotte, protratte nel tempo, non potevano essere considerate come atti isolati o necessitati, ma come una piena e consapevole adesione al programma criminale.

Le Motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha ritenuto le argomentazioni della difesa generiche e non pertinenti. In primo luogo, ha sottolineato che il Tribunale aveva correttamente ricostruito l’organigramma e l’operatività del gruppo, evidenziando l’esistenza di una struttura stabile e organizzata, con basi logistiche e una divisione dei compiti. La posizione della ricorrente era stata delineata con chiarezza: era perfettamente inserita nell’organigramma, interagiva con gli altri membri e svolgeva compiti essenziali per l’attività di spaccio.

Il fatto che non percepisse uno stipendio è stato giudicato irrilevante. In un’associazione a delinquere familiare, la mancanza di una retribuzione formale non inficia l’esistenza del vincolo associativo, che può basarsi su altri tipi di interessi e legami. Anche la presunta sudditanza psicologica verso il figlio non è stata ritenuta sufficiente a escludere la sua volontà di partecipare, data la continuità e la sistematicità del suo contributo. Per quanto riguarda le esigenze cautelari, la Corte ha confermato l’attualità del ‘periculum libertatis’, data l’elevata professionalità criminale dimostrata, ritenendo gli arresti domiciliari la misura minima adeguata, in considerazione dell’età avanzata dell’indagata.

Le Conclusioni

Questa sentenza offre un importante spunto di riflessione sui confini della responsabilità penale all’interno della famiglia. La Cassazione chiarisce che il legame di parentela non costituisce uno scudo contro l’accusa di associazione per delinquere. La valutazione cruciale riguarda la natura del contributo offerto: se questo è stabile, consapevole e funzionale agli scopi del gruppo, si configura una piena partecipazione al reato associativo, indipendentemente dalla presenza di una retribuzione o da dinamiche di subordinazione affettiva. La decisione riafferma la necessità di un’analisi concreta dei comportamenti, che possono rivelare l’esistenza di un’adesione volontaria a un progetto criminale anche nel contesto di complesse dinamiche familiari.

Un legame familiare stretto può escludere il reato di associazione a delinquere?
No, secondo la sentenza, i rapporti di parentela o coniugali non solo non escludono l’esistenza di un’associazione criminale, ma possono anzi renderla più pericolosa e coesa, sommandosi al vincolo associativo.

Per far parte di un’associazione criminale è necessario ricevere uno stipendio o una paga?
No, la sentenza chiarisce che il fatto di non percepire uno stipendio è irrilevante ai fini della configurabilità del reato. L’esistenza di una struttura organizzata non dipende necessariamente da una cassa comune o da una retribuzione formale, specialmente in un contesto familiare.

Cosa si intende per ‘affectio societatis’ in un’associazione a delinquere familiare?
L’affectio societatis è la volontà consapevole di far parte del gruppo criminale, condividendone gli scopi. La sentenza stabilisce che questa volontà può essere dimostrata attraverso comportamenti concreti e costanti nel tempo (come custodire la droga, avvertire della presenza della polizia, effettuare consegne), che rivelano un inserimento stabile nell’organizzazione, anche in una posizione subordinata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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