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Associazione a delinquere: basta fare il pusher?

La Corte di Cassazione conferma la custodia in carcere per un individuo accusato di far parte di un’associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico. La Corte ha ritenuto che, nonostante un periodo di osservazione limitato, le prove (intercettazioni e video) dimostravano il suo pieno inserimento nel gruppo criminale, con un ruolo definito e la consapevolezza della struttura, respingendo l’idea che il suo fosse un contributo marginale.

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Pubblicato il 18 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Associazione a delinquere: il ruolo di pusher è sufficiente per la partecipazione?

La recente sentenza della Corte di Cassazione analizza un caso emblematico di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, offrendo importanti chiarimenti sui criteri per determinare la partecipazione di un individuo a un sodalizio criminale. Anche un ruolo apparentemente secondario, come quello di spacciatore di strada (‘pusher’), può essere sufficiente a configurare la piena appartenenza al gruppo, a patto che emerga la consapevolezza di agire all’interno di una struttura organizzata.

I Fatti del Caso

Un individuo veniva sottoposto a custodia cautelare in carcere con l’accusa di partecipazione a un’associazione dedita al narcotraffico. L’organizzazione, a base familiare, gestiva un’intensa attività di spaccio di cocaina e marijuana in un quartiere di una grande città del Sud Italia. Le indagini, basate su intercettazioni telefoniche, video-riprese e arresti in flagranza, avevano delineato una struttura ben definita, con a capo un soggetto che coordinava una rete di pusher e vedette.

Il ricorrente, secondo l’accusa, operava come pusher alle dirette dipendenze del capo, seguendo turni e direttive precise. Le prove raccolte mostravano come egli rendicontasse costantemente le sue attività, ricevesse ordini anche fuori orario e fosse a conoscenza degli altri membri del gruppo e delle gerarchie interne.

I Motivi del Ricorso

La difesa dell’indagato ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su due motivi principali:

1. Erronea applicazione della legge: Si sosteneva che gli elementi raccolti fossero insufficienti a dimostrare una reale adesione al programma associativo. La difesa evidenziava come l’attività del proprio assistito fosse limitata a un breve periodo di circa venti giorni e consistesse unicamente nello spaccio, senza partecipazione a decisioni di vertice o riunioni, elementi che, a loro dire, escludevano la cosiddetta affectio societatis, cioè la volontà di far parte stabilmente del gruppo.
2. Carenza delle esigenze cautelari: Si contestava la necessità della custodia in carcere, sostenendo che le esigenze cautelari fossero cessate a seguito di un presunto recesso volontario dell’indagato dal sodalizio. Inoltre, si riteneva sproporzionata la misura carceraria rispetto a opzioni meno afflittive come gli arresti domiciliari.

L’analisi della Cassazione sull’associazione a delinquere

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, ritenendolo infondato. I giudici hanno sottolineato come, ai fini della partecipazione a un’associazione a delinquere, non sia rilevante la durata del periodo di osservazione delle condotte criminose, che può essere anche breve. Ciò che conta è che dagli elementi acquisiti emerga l’esistenza di un sistema collaudato e l’inserimento stabile dell’individuo al suo interno.

Nel caso specifico, le conversazioni intercettate e le video-riprese dimostravano in modo inequivocabile il pieno inserimento del ricorrente nelle dinamiche del gruppo. Egli non era un semplice spacciatore occasionale, ma un membro che:

* Riceveva ordini diretti dal capo.
* Rendeva conto delle cessioni effettuate e delle rimanenze.
* Veniva rimproverato per non aver rispettato i turni.
* Conosceva gli altri sodali e le gerarchie interne.
* Si adoperava per l’ottimizzazione delle attività del gruppo.

Questi elementi, secondo la Corte, erano sufficienti a dimostrare la sua piena consapevolezza e volontà di far parte del sodalizio criminale.

La valutazione della pericolosità e la scelta della misura

Anche il secondo motivo di ricorso è stato respinto. La Corte ha ricordato che per il reato di associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico opera una presunzione di pericolosità sociale. La difesa non ha fornito elementi concreti per superare tale presunzione. L’affermazione di aver lasciato il gruppo è stata ritenuta puramente verbale e smentita dai fatti, dato che i contatti con l’associazione erano ripresi anche in un periodo successivo.

I giudici hanno quindi confermato la valutazione del Tribunale, che aveva individuato l’indagato come un soggetto con una specifica professionalità criminale, che traeva dalle attività illecite la sua unica fonte di sostentamento. Di conseguenza, il pericolo di reiterazione del reato è stato considerato concreto e attuale, giustificando la misura della custodia in carcere come l’unica idonea a interrompere i contatti con l’ambiente criminogeno.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su principi consolidati della giurisprudenza. In primo luogo, la partecipazione a un’associazione criminale non richiede necessariamente un ruolo di vertice o la partecipazione a tutte le attività del gruppo. È sufficiente un contributo stabile e consapevole, anche in un ruolo esecutivo come quello di pusher, purché l’individuo sia inserito nella struttura organizzativa.

In secondo luogo, la presunzione di pericolosità per reati di tale gravità non può essere superata da mere dichiarazioni di intenti, ma richiede prove concrete di un effettivo cambiamento di vita e di un reale distacco dal contesto criminale. La distanza temporale dai fatti, se non particolarmente significativa, non è di per sé sufficiente a far venir meno le esigenze cautelari.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio fondamentale: per essere considerati parte di un’associazione a delinquere, non è necessario essere un capo o un promotore. Anche un ruolo operativo e subordinato, se svolto con continuità e consapevolezza di agire per gli scopi del gruppo, integra a tutti gli effetti il reato di partecipazione. Questa decisione serve da monito sul fatto che la giustizia valuta la sostanza dei comportamenti e l’effettivo inserimento in un contesto criminale, al di là della durata o della specifica mansione svolta all’interno del sodalizio.

Svolgere l’attività di “pusher” per un breve periodo significa automaticamente far parte di un’associazione a delinquere?
Non automaticamente, ma può esserlo. Secondo la sentenza, anche un periodo di osservazione breve è sufficiente per dimostrare la partecipazione se gli elementi raccolti (come intercettazioni e video) provano l’esistenza di un sistema criminale stabile e il pieno inserimento dell’individuo nelle sue dinamiche, con conoscenza delle gerarchie e un ruolo definito.

Come valuta la Cassazione il pericolo di reiterazione del reato per chi è accusato di associazione a delinquere?
Per il reato di associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, la legge prevede una presunzione di pericolosità sociale (periculum libertatis). La Corte ritiene che questa presunzione sia superabile solo con prove concrete. Nel caso specifico, data la professionalità criminale dimostrata e il fatto che l’attività illecita fosse la sua unica fonte di sostentamento, il pericolo è stato ritenuto attuale e concreto.

Il presunto recesso volontario dall’associazione criminale fa cessare automaticamente le esigenze cautelari?
No. La semplice affermazione di aver lasciato il gruppo non è sufficiente a far decadere le esigenze cautelari, specialmente se non supportata da prove concrete. Nel caso esaminato, la tesi del recesso è stata smentita dal fatto che l’indagato aveva ripreso i contatti con il gruppo in un periodo successivo, dimostrando la persistenza del legame e del pericolo di reiterazione del reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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