Art. 336 c.p.: Basta la Minaccia a un Pubblico Ufficiale per Commettere Reato?
L’ordinanza n. 19227/2024 della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti sulla configurazione del reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, disciplinato dall’art. 336 c.p. Analizzando un caso specifico, la Suprema Corte ribadisce principi consolidati sia sulla natura del reato sia sui limiti del ricorso per cassazione, in particolare riguardo alla valutazione delle circostanze attenuanti generiche.
I Fatti di Causa
Il caso trae origine da un ricorso presentato avverso una sentenza della Corte d’Appello di Perugia, che aveva confermato la condanna di un imputato per il reato di cui all’art. 336 c.p. La condotta contestata consisteva in un comportamento minaccioso posto in essere al fine di ostacolare un’operazione di deflusso di detenuti.
L’imputato ha basato il suo ricorso in Cassazione su due motivi principali:
1. Errata applicazione dell’art. 336 c.p.: Secondo la difesa, il reato non sussisteva in quanto la condotta dell’imputato non aveva di fatto impedito lo svolgimento dell’atto d’ufficio da parte del pubblico ufficiale.
2. Mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche: L’imputato lamentava il diniego del beneficio, ritenendo la decisione della Corte d’Appello immotivata.
La Decisione della Corte e l’interpretazione dell’art. 336 c.p.
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo entrambi i motivi generici e manifestamente infondati. La decisione si articola su due punti cardine che meritano un’analisi approfondita.
La Configurazione del Reato: Condotta vs. Evento
Sul primo motivo, la Suprema Corte ha respinto la tesi difensiva, chiarendo la natura del reato previsto dall’art. 336 c.p. Questo reato è classificato come un ‘reato di condotta’, il che significa che per la sua consumazione è sufficiente che l’agente ponga in essere una condotta violenta o minacciosa diretta a costringere un pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai propri doveri o a omettere un atto del proprio ufficio.
È irrilevante, ai fini della configurabilità del reato, che l’obiettivo dell’agente venga effettivamente raggiunto. Ciò che conta è l’idoneità della condotta a turbare o a interferire con la libera formazione della volontà del pubblico ufficiale. La Corte d’Appello, secondo i giudici di legittimità, aveva correttamente motivato che la condotta minacciosa dell’imputato era finalizzata proprio a ostacolare l’operazione di deflusso, integrando così pienamente gli estremi del reato.
Le Attenuanti Generiche e il Potere Discrezionale del Giudice
Anche il secondo motivo è stato ritenuto inammissibile. La Corte ha ricordato che la concessione delle circostanze attenuanti generiche è espressione di un potere ampiamente discrezionale del giudice di merito. Il ruolo della Corte di Cassazione non è quello di sostituire la propria valutazione a quella del giudice di primo o secondo grado, ma solo di verificare che la decisione sia supportata da una motivazione logica, congrua e non contraddittoria.
Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva negato il beneficio sulla base di elementi concreti e pertinenti: i plurimi e gravi precedenti penali dell’imputato e la totale assenza di segni di ravvedimento. Tale motivazione è stata giudicata dalla Cassazione immune da vizi e, pertanto, non censurabile in sede di legittimità.
Le Motivazioni
Le motivazioni alla base della decisione della Suprema Corte sono chiare e lineari. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché i motivi addotti erano generici e non coglievano la corretta interpretazione delle norme applicate. Per quanto riguarda l’art. 336 c.p., la Corte ha ribadito che l’elemento essenziale è la condotta minacciosa finalizzata a interferire con l’azione della pubblica amministrazione, non l’effettivo impedimento dell’atto. Per quanto concerne le attenuanti, la Corte ha sottolineato come la valutazione del giudice di merito, se basata su argomentazioni logiche come i precedenti penali e la condotta processuale dell’imputato, non possa essere messa in discussione in sede di legittimità. La decisione della Corte d’Appello era, sotto entrambi i profili, correttamente e adeguatamente motivata.
Le Conclusioni
L’ordinanza in esame consolida due principi fondamentali. In primo luogo, conferma che per integrare il reato di cui all’art. 336 c.p., è sufficiente la minaccia idonea a coartare la volontà del pubblico ufficiale, indipendentemente dal risultato. Questo serve a tutelare il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione da qualsiasi tentativo di interferenza. In secondo luogo, evidenzia la difficoltà di ottenere una riforma della decisione sulle attenuanti generiche in Cassazione: se il diniego è motivato in modo logico e coerente con gli atti del processo, il ricorso su questo punto è destinato all’inammissibilità.
Perché il reato di cui all’art. 336 c.p. è stato ritenuto sussistente anche se l’atto del pubblico ufficiale non è stato di fatto impedito?
Perché si tratta di un ‘reato di condotta’, per il quale è sufficiente porre in essere l’azione minacciosa con lo scopo di ostacolare il pubblico ufficiale. Il fatto che l’obiettivo non venga raggiunto non esclude la punibilità del comportamento.
Quali elementi ha considerato la Corte d’Appello per negare le circostanze attenuanti generiche?
La Corte d’Appello ha basato la sua decisione su due elementi specifici: i plurimi e gravi precedenti penali del ricorrente e la sua manifesta assenza di ravvedimento.
Perché la Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile?
La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile perché i motivi presentati sono stati giudicati ‘generici e manifestamente infondati’. Ciò significa che le argomentazioni della difesa non avevano la consistenza giuridica necessaria per giustificare un riesame della sentenza di condanna.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 19227 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 19227 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 22/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
TRABELSI NOME NOMECODICE_FISCALE) nato il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 17/04/2023 della CORTE APPELLO di PERUGIA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
OSSERVA
Ritenuto che i motivi dedotti nel ricorso, afferente alla condanna del ricorrente in relaz reato di cui all’art. 336 cod. pen., sono inammissibili in quanto aventi ad oggetto censure e manifestamente infondate;
Considerato, invero, che quanto al primo motivo -con cui si deducono vizi di violazione di leg e di motivazione in relazione alla configurabilità del reato di cui all’art. 336 cod. pen., pe stato l’atto d’ufficio del pubblico ufficiale impedito dalla condotta del ricorrente- la Corte con motivazione corretta, congrua ed esaustiva, ha ritenuto configurabile il reato dal momen alla luce delle risultanze probatorie, il ricorrente poneva in essere una condotta minaccio di ostacolare lo svolgimento dell’operazione di deflusso dei detenuti;
Ritenuto che, quanto al secondo motivo – con cui si lamenta l’omessa concessione dell circostanze attenuanti generiche – la Corte d’appello, nell’esercizio del suo potere discre con motivazione, per come argomentata, immune da vizi censurabili in sede di legittimit ritenuto ostativi alla concessione del beneficio i plurimi e gravi precedenti del ricorren l’assenza di ravvedimento del predetto;
Rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la condann ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore dell delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese proces della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 22 marzo 2024.