Arresti domiciliari e lavoro: quando la prova dell’indigenza non basta
Conciliare la misura cautelare degli arresti domiciliari e lavoro è una questione delicata, subordinata a requisiti stringenti. La possibilità per un indagato di lasciare la propria abitazione per svolgere un’attività lavorativa non è un diritto automatico, ma una concessione eccezionale legata alla dimostrazione di uno stato di ‘assoluta indigenza’. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito il rigore necessario per provare tale condizione, chiarendo che una semplice autodichiarazione non è sufficiente.
I Fatti del Caso
Un giovane uomo, indagato per reati legati al narcotraffico e sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, presentava un’istanza per essere autorizzato ad allontanarsi da casa per lavorare. A sostegno della sua richiesta, sosteneva di essere l’unico percettore di reddito del nucleo familiare, composto da lui e dalla nonna, la quale era priva di entrate proprie. La sua istanza veniva però respinta sia dal Giudice per le indagini preliminari che, in seguito, dal Tribunale del riesame. Quest’ultimo, in particolare, motivava il diniego sottolineando la genericità della prova offerta: una semplice autodichiarazione della nonna sulla sua situazione economica non era stata ritenuta idonea a dimostrare la reale indigenza del nucleo familiare. Inoltre, il Tribunale nutriva dubbi sulla provenienza del sostentamento fino a quel momento e sul rischio di recidiva legato all’attività lavorativa proposta, che prevedeva il contatto con il pubblico.
Arresti domiciliari e lavoro: la decisione della Corte
L’indagato proponeva quindi ricorso in Cassazione, lamentando una violazione di legge e un vizio di motivazione da parte dei giudici di merito. Tuttavia, la Suprema Corte ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato e, di conseguenza, inammissibile. La decisione ha confermato in pieno l’operato del Tribunale del riesame, ritenendo la sua motivazione logica, coerente e in linea con i principi giuridici consolidati in materia.
Le Motivazioni della Sentenza
La Corte di Cassazione ha fondato la sua decisione su alcuni punti cardine:
1. Il Concetto di ‘Assoluta Indigenza’: Il presupposto per ottenere l’autorizzazione a lavorare durante gli arresti domiciliari è, ai sensi dell’art. 284, comma 3, del codice di procedura penale, l’assoluta indigenza. La giurisprudenza ha chiarito che tale stato non equivale a una totale impossidenza, ma a una condizione economica familiare che non consente di far fronte alle primarie esigenze di vita (come istruzione, cura, educazione) per sé e per i familiari a carico. La valutazione deve essere condotta con estremo rigore.
2. L’Onere della Prova: Spetta all’interessato fornire la prova rigorosa di tale stato. Nel caso di specie, l’indagato si era limitato a presentare un’autodichiarazione della nonna convivente. Secondo la Corte, questo documento è del tutto insufficiente. L’indagato avrebbe dovuto offrire elementi concreti sulla situazione patrimoniale e reddituale di tutti i componenti del nucleo familiare, inclusa la nonna, per permettere al giudice una valutazione completa e approfondita.
3. La Valutazione Complessiva: I giudici di merito avevano correttamente considerato altri elementi. In primo luogo, avevano ipotizzato che l’indagato potesse aver accumulato guadagni non dichiarati dalla sua presunta attività di narcotraffico. In secondo luogo, avevano valutato il pericolo di recidiva connesso al tipo di lavoro che avrebbe svolto (in un bar), il quale, implicando un contatto con il pubblico, poteva rappresentare un’occasione per commettere nuovi reati.
4. La Genericità del Ricorso: Infine, la Cassazione ha rilevato che il ricorso si limitava a riproporre le stesse argomentazioni già presentate e respinte dal Tribunale del riesame, senza confrontarsi specificamente con la dettagliata motivazione di quest’ultimo. Questo rende il ricorso generico e, quindi, inammissibile.
Le Conclusioni
Questa sentenza offre un’importante lezione pratica: per ottenere un’autorizzazione al lavoro in regime di arresti domiciliari, non basta affermare di essere in difficoltà economica. È indispensabile fornire una prova completa, documentata e rigorosa della condizione di ‘assoluta indigenza’ dell’intero nucleo familiare. Autodichiarazioni o moduli ISEE da soli non sono sufficienti. È necessario presentare documentazione bancaria, contratti, dichiarazioni dei redditi e ogni altro elemento utile a dimostrare in modo inequivocabile che, senza quel lavoro, le esigenze primarie della famiglia non potrebbero essere soddisfatte. Inoltre, la natura del lavoro richiesto deve essere compatibile con le esigenze cautelari, senza creare un concreto pericolo di recidiva.
Una persona agli arresti domiciliari può essere autorizzata a lavorare?
Sì, ma solo in presenza di un presupposto di “assoluta indigenza”, come previsto dall’art. 284, comma 3, del codice di procedura penale, e a condizione che l’attività lavorativa non crei un pericolo di recidiva.
Cosa si intende per “assoluta indigenza” ai fini dell’autorizzazione al lavoro?
Non significa una totale assenza di beni, ma una condizione economica familiare tale da non consentire di provvedere ai bisogni primari come educazione, istruzione e cure, valutando i redditi e il patrimonio di tutti i componenti del nucleo familiare.
Una semplice autodichiarazione o un modulo ISEE sono sufficienti a provare lo stato di indigenza?
No. Secondo la sentenza, la sola presentazione di un’autodichiarazione sulla mancata percezione di redditi non è sufficiente. È necessario fornire una prova rigorosa e completa che includa elementi di valutazione sulle condizioni patrimoniali di tutto il nucleo familiare.
Testo del provvedimento
Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 22309 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 22309 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/02/2025
SENTENZA
sul ricorso di COGNOME NOMECOGNOME nato a Monopoli il 14/01/1999, avverso l’ordinanza in data 16/09/2024 del Tribunale di Bari, visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procura generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1.Con ordinanza in data 16 settembre 2024 il Tribunale del riesame di Bari ha rigettato l’appello proposto da NOME COGNOME indagato per i reati dell’ar e dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, avverso l’ordinanza in data 20 maggio 2 del G.u.p. del Tribunale di Bari che aveva rigettato l’istanza di autorizzazion allontanarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari per svolgere att lavorativa.
Il ricorrente lamenta la violazione di legge e il vizio di motivaz perché il Tribunale del riesame aveva confermato il diniego dell’istanza autorizzazione al lavoro nonostante avesse provato che era il solo percettore reddito e fosse ospitato dalla nonna che era senza reddito.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
E’ pacifico in giurisprudenza che, ai fini dell’autorizzazione dell’indagato sottoposto agli arresti domiciliari ad assentarsi per svolgere un’attività lavorativa, il presupposto della assoluta indigenza, da accertare con criterio di rigore per la natura eccezionale della previsione di cui all’art. 284, comma 3, cod. proc. pen., non è tuttavia assimilabile ad una situazione di totale impossidenza, tale da non consentire neppure la soddisfazione delle primarie esigenze di vita, essendo sufficiente che le condizioni reddituali della famiglia, da valutare tenendo conto dei redditi di altri componenti, non consentano di provvedere agli oneri derivanti dalla educazione, istruzione e necessità di cura propria e dei soggetti della famiglia non indipendenti (Sez. 6, n. 1200 del 04/12/2023, dep. 2024, Tahiri, Rv. 285885 – 01 e Sez. 3, n. 24995 del 13/02/2018, Osmani, Rv. 273205 – 01). Il Tribunale del riesame ha fatto buon governo di tale principio di diritto, spiegando con motivazione logica e razionale che la sola presentazione del modulo ISEE della nonna ospitante, consistente in un’autodichiarazione relativa alla mancata percezione di redditi, non è sufficiente ad assolvere la prova dell’indigenza. Infatti, il ricorrente non ha specificato i componenti del suo stato di famiglia percettori di reddito e soprattutto non ha offerto elementi di valutazione in ordine alle condizioni patrimoniali neanche della nonna. Il Tribunale ha ulteriormente opinato che l’inserimento a determinati livelli nel settore del narcotraffico gli aveva di certo assicurato notevoli guadagni non dichiarati e ha osservato che non aveva dedotto alcun elemento in ordine al bar dove avrebbe lavorato, attività che per il contatto al pubblico poneva comunque il problema del pericolo di recidiva.
Il ricorso non si confronta con tale motivazione e si limita a riprodurre gli stessi argomenti già vagliati e disattesi, come detto con adeguata motivazione giuridica, dal Tribunale del riesame.
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata, in ragione della consistenza della causa di inammissibilità del ricorso, in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spes processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende
Così deciso, I’ll febbraio 2025
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