Arma clandestina: quando il ricorso in Cassazione è inammissibile
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti su due aspetti cruciali del diritto penale: la definizione di arma clandestina e i limiti procedurali per l’impugnazione delle sentenze. La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato, confermando la condanna e delineando principi giuridici di notevole rilevanza pratica. Analizziamo insieme la vicenda e le motivazioni della decisione.
I fatti del caso
Il caso trae origine da un ricorso presentato alla Corte di Cassazione avverso una sentenza della Corte d’Appello. L’imputato contestava la qualificazione di un’arma in suo possesso come “clandestina”. In particolare, sosteneva che l’arma, pur non avendo la punzonatura del Banco Nazionale di Prova italiano, possedeva un numero di matricola apposto nel Paese di provenienza, elemento che, a suo dire, ne escludeva la clandestinità.
La questione centrale, quindi, verteva sull’interpretazione dei requisiti legali che un’arma deve possedere per essere considerata legittima sul territorio nazionale.
L’inammissibilità del ricorso per un vizio procedurale
Prima ancora di entrare nel merito della questione, la Corte di Cassazione ha rilevato un ostacolo procedurale insormontabile. La doglianza relativa alla presunta non clandestinità dell’arma non era mai stata sollevata con l’atto di appello. L’imputato aveva introdotto questo specifico motivo di contestazione per la prima volta solo nel ricorso per cassazione.
Su questo punto, la Corte ha richiamato un consolidato principio ermeneutico: nel giudizio di legittimità, non possono essere presi in esame motivi di ricorso che riguardano statuizioni del giudice di primo grado non specificamente contestate in appello. Tali punti della sentenza di primo grado, infatti, acquisiscono “efficacia di giudicato”, ovvero diventano definitivi e non più discutibili.
La definizione di arma clandestina secondo la legge
Nonostante l’inammissibilità procedurale fosse di per sé sufficiente a chiudere il caso, la Corte ha voluto comunque affrontare la questione nel merito, definendola “manifestamente infondata”.
La Suprema Corte ha chiarito che la definizione di arma clandestina è rigorosamente stabilita dall’articolo 11 della legge n. 110 del 1975. Questa norma prescrive quattro elementi essenziali che un’arma prodotta in Italia deve possedere:
1. Sigla o marchio del produttore.
2. Numero di iscrizione nel catalogo nazionale delle armi.
3. Numero progressivo di matricola.
4. Contrassegno speciale del Banco Nazionale di Prova di Gardone Val Trompia.
La Corte ha specificato, citando precedenti sentenze conformi, che la mancanza anche di uno solo di questi quattro elementi è sufficiente a rendere l’arma clandestina. Non rileva, pertanto, la presenza di marchi o matricole apposti all’estero se mancano i contrassegni richiesti dalla legge italiana.
Le motivazioni
Le motivazioni della Corte di Cassazione sono duplici e gerarchicamente ordinate. La prima motivazione, di carattere processuale, è assorbente e decisiva: il ricorrente ha introdotto una censura nuova nel giudizio di legittimità, violando il principio devolutivo dell’appello. I motivi non devoluti al giudice di secondo grado si cristallizzano e non possono essere riproposti in Cassazione. Questo rigido sbarramento procedurale serve a garantire la certezza del diritto e la progressiva formazione del giudicato.
La seconda motivazione, esposta “ad abundantiam”, riguarda il merito della questione. La Corte ha ritenuto la tesi difensiva manifestamente infondata perché si scontra con il chiaro dettato normativo. La legge italiana è tassativa nell’elencare i requisiti di identificazione di un’arma. La punzonatura del Banco Nazionale di Prova non è un mero orpello burocratico, ma un contrassegno fondamentale che attesta la conformità e la sicurezza dell’arma secondo gli standard nazionali. La sua assenza qualifica inequivocabilmente l’arma come clandestina, indipendentemente da altri segni identificativi presenti.
Le conclusioni
Questa ordinanza ribadisce due principi fondamentali. Dal punto di vista processuale, sottolinea l’importanza di articolare compiutamente tutti i motivi di doglianza nell’atto di appello, pena la decadenza dalla possibilità di farli valere in Cassazione. Dal punto di vista sostanziale, conferma l’interpretazione rigorosa della normativa sulle armi, chiarendo che la clandestinità di un’arma deriva dall’assenza di anche uno solo dei requisiti identificativi imposti dalla legge italiana. La decisione comporta per il ricorrente, oltre alla conferma della condanna, anche il pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle ammende, a causa della colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.
Quando un’arma viene considerata clandestina secondo la legge italiana?
Un’arma è considerata clandestina quando manca anche di uno solo dei quattro elementi prescritti dall’art. 11 della legge n. 110 del 1975: sigla o marchio del produttore, numero di iscrizione nel catalogo nazionale, numero di matricola e contrassegno del Banco nazionale di prova.
È possibile presentare in Cassazione un motivo di ricorso non sollevato in appello?
No, non è possibile. Il ricorso proposto per motivi che non siano stati devoluti al giudice d’appello è inammissibile, poiché la sentenza di primo grado, su tali punti, ha acquistato efficacia di giudicato.
Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità di un ricorso in Cassazione?
La dichiarazione di inammissibilità comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in assenza di elementi che escludano la colpa, al versamento di una somma di denaro in favore della Cassa delle ammende.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 6644 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 6644 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 16/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a ROSARNO il 14/09/1976
avverso la sentenza del 07/05/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
Visti gli atti e la sentenza impugnata; letti i motivi del ricorso; letta la memoria del difensore; rilevato che:
non risulta essere stata proposta con l’atto di appello la doglianza dell’imputato, attinente alla presenza sull’arma per la quale si procede del numero di matricola apposto nel Paese di provenienza e alla impossibilità di ritenere clandestina l’arma per la mancanza di punzonatura da parte del Banco Nazionale di Prova;
pertinente si palesa, dunque, il richiamo al pacifico indirizzo ermeneutico secondo cui «nel giudizio di legittimità, il ricorso proposto per motivi concernenti le statuizioni del giudice di primo grado che non siano state devolute al giudice d’appello, con specifico motivo d’innpugnazione, è inammissibile, poiché la sentenza di primo grado, su tali punti, ha acquistato efficacia di giudicato» (Sez. 3, n. 2343 del 28/09/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274346; Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, COGNOME, Rv. 269745);
d’altro canto, la censura è manifestamente infondata se solo si considera che «la mancanza anche di uno solo dei quattro elementi prescritti dall’art. 11 della legge n. 110 del 1975 (sigla o marchio del produttore, numero di iscrizione nel catalogo nazionale delle armi, numero progressivo di matricola e contrassegno speciale del Banco nazionale di prova di Gardone Val Trompia) rende le armi prodotte in Italia clandestine. (Fattispecie relativa ad una rivoltella cal. 357 magnum recante il numero di catalogo abraso)» (Sez. 1, n. 18778 del 27/03/2013, Reccia, Rv. 256014 richiamata e ribadita dalla recente Sez. 1, n. 1215 del 17/10/2023, dep. 2024, COGNOME, n.m.);
considerato che deve essere, pertanto, dichiarata la inammissibilità del ricorso, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 16/1/2025