Appropriazione Indebita e Contratto di Locazione: La Cassazione Dichiara il Ricorso Inammissibile
L’ordinanza in esame offre un importante chiarimento sui confini del reato di appropriazione indebita nel contesto di un contratto di locazione e sui requisiti di ammissibilità del ricorso in Cassazione. Con una decisione netta, la Suprema Corte ha respinto il ricorso di un’imputata, confermando la sua condanna per essersi appropriata di beni mobili presenti nell’immobile che aveva in affitto. Analizziamo insieme i dettagli di questa vicenda giudiziaria.
I Fatti del Caso: Appropriazione Indebita da parte dell’Inquilino
La vicenda ha origine da un contratto di locazione. Una donna, dopo aver preso in affitto un appartamento ammobiliato, non solo si rendeva morosa nel pagamento del canone, ma asportava anche parte degli arredi presenti all’interno dell’abitazione. A seguito di ciò, interrompeva ogni contatto con la proprietaria dell’immobile. Questa condotta ha portato alla sua condanna per il reato di appropriazione indebita sia in primo grado che in appello.
L’Iter Giudiziario e i Motivi del Ricorso
L’imputata, non rassegnandosi alla condanna inflitta dalla Corte d’Appello, ha proposto ricorso per Cassazione. I suoi motivi di doglianza si basavano principalmente su due punti:
1. La contestazione della configurabilità stessa del reato di appropriazione indebita, sostenendo che la sua condotta non rientrasse in tale fattispecie.
2. Una presunta carenza motivazionale da parte dei giudici d’appello, accusati di essersi limitati a confermare la sentenza di primo grado senza un’analisi approfondita.
Tuttavia, la Corte di Cassazione ha ritenuto entrambi i motivi infondati e, di conseguenza, il ricorso inammissibile.
La Decisione della Corte di Cassazione sull’Appropriazione Indebita
La Suprema Corte ha fornito una motivazione chiara e basata su consolidati principi giurisprudenziali per dichiarare l’inammissibilità del ricorso.
La Ripetitività dei Motivi di Appello
Il primo e fondamentale punto su cui si è basata la Corte è la natura meramente riproduttiva delle censure sollevate. I giudici hanno evidenziato come le argomentazioni presentate nel ricorso non fossero altro che una ripetizione di quelle già esaminate e motivatamente respinte dalla Corte d’Appello. Quest’ultima aveva già sottolineato elementi chiave come la disponibilità materiale dell’immobile e degli arredi da parte dell’inquilina in virtù del contratto, la successiva interversio possessionis (ovvero l’atto di iniziare a comportarsi come proprietaria dei beni) manifestata con l’asportazione degli arredi, e la gravità della morosità unita all’interruzione di ogni contatto con la locatrice.
La Motivazione “per relationem” della Corte d’Appello
In risposta alla seconda doglianza, la Cassazione ha ribadito un principio procedurale cruciale: la sentenza di appello e quella di primo grado possono formare un unico e complessivo corpo argomentativo. Ciò significa che il giudice d’appello non è obbligato a riesaminare minuziosamente ogni singola deduzione o prova, specialmente quando le argomentazioni dell’appellante sono generiche o ripetitive. È sufficiente che la sentenza di secondo grado spieghi in modo logico e adeguato le ragioni del suo convincimento, anche facendo riferimento alla decisione precedente, come avvenuto nel caso di specie. Il ricorso, pertanto, è stato giudicato aspecifico e manifestamente infondato.
Le motivazioni
La Corte Suprema ha ritenuto che la condotta dell’imputata integrasse pienamente il reato di appropriazione indebita. La disponibilità degli arredi derivava dal contratto di locazione, un titolo che obbligava alla loro custodia e restituzione al termine del rapporto. L’atto di asportare tali beni, unito al mancato pagamento del canone e alla sparizione, ha costituito una chiara manifestazione della volontà di impossessarsene in modo definitivo, invertendo il titolo del possesso da semplice detenzione a possesso uti dominus (come se fosse la proprietaria). Le censure sollevate nel ricorso sono state inoltre giudicate formulate in termini vaghi e generici, non riuscendo a individuare specifiche lacune o illogicità nella motivazione della sentenza impugnata, che invece risultava coerente e ben argomentata nel suo complesso.
Le conclusioni
La decisione consolida due importanti principi. Sul piano sostanziale, riafferma che l’inquilino che sottrae i mobili dall’appartamento affittato commette il reato di appropriazione indebita, poiché abusa della sua posizione di detentore qualificato. Sul piano processuale, l’ordinanza serve da monito: il ricorso in Cassazione non può essere una semplice riproposizione dei motivi d’appello, ma deve individuare vizi di legittimità specifici e puntuali nella sentenza impugnata. In assenza di tali requisiti, il ricorso è destinato a essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria.
Quando un inquilino commette il reato di appropriazione indebita?
Secondo la decisione, un inquilino commette appropriazione indebita quando, avendo la disponibilità dei beni mobili (come gli arredi) sulla base del contratto di locazione, se ne impossessa come se fosse il proprietario, ad esempio asportandoli dall’immobile e interrompendo ogni contatto con il locatore.
Un ricorso in Cassazione può essere dichiarato inammissibile se ripropone le stesse argomentazioni dell’appello?
Sì, la Corte di Cassazione conferma che un ricorso è inammissibile se si limita a riproporre le medesime censure già esaminate e congruamente respinte dalla Corte d’Appello, senza sollevare vizi di legittimità specifici e nuovi.
La sentenza della Corte d’Appello deve analizzare di nuovo tutti gli elementi del processo?
No. La giurisprudenza citata nell’ordinanza stabilisce che la sentenza d’appello può formare un unico corpo argomentativo con quella di primo grado. Pertanto, il giudice d’appello non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di ogni singola deduzione, essendo sufficiente che spieghi in modo logico e adeguato le ragioni del proprio convincimento.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 9319 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 9319 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 04/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a RAGUSA il 02/08/1978
avverso la sentenza del 07/06/2024 della CORTE APPELLO di CATANIA
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
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RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Letto il ricorso di NOME COGNOME;
Letta la memoria del difensore della parte civile NOME COGNOME COGNOME, trasmessa il 3 febbraio 2025, ore 20:16, e ritenutane la tardività, che dall’esame dell’atto e preclude la condanna alla rifusione delle spese;
considerato che la doglianza con cui si contesta la configurabilità nella condotta del reato di appropriazione indebita, è meramente riproduttiva di profili di censur con l’atto di appello e già congruamente disattesi dalla Corte territoriale ( impugnata sentenza, ove si sottolineano in particolare la materiale disponibilità parte della ricorrente, sulla base del contratto di locazione acquisito agli atti interversio possessionis da parte della stessa con riferimento agli arredi po dall’abitazione e la pregnanza della mora nel pagamento della pigione con l’inter contatto con la locatrice);
ritenuto che, conseguentemente, il secondo profilo di censura, evocando in termini vaghi presunte carenze motivazionali, per essersi i giudici di appello limitati a ad un rinvio alla sentenza del giudice di primo grado, è anch’esso formulato in te e comunque risulta manifestamente infondato (peraltro, la sentenza di appello si sa precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, di modo che il appello non era tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo invec spiegare in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento – cfr. Sez. 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 260841
rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con co ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila i Cassa delle ammende;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spe e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Rigetta la richiesta di rifusione delle spese processuale della parte civi NOME COGNOME
Così deciso, il 4 febbraio 2025.