Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 23949 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 23949 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 16/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a CARBONIA il 30/09/1960
avverso la sentenza del 19/11/2024 della CORTE di APPELLO di CAGLIARI;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto emettersi declaratoria di inammissibilità del ricorso;
udite le conclusioni dell’Avv. NOME COGNOME per la parte civile RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE che si è riportato alla memoria depositata chiedendone l’accoglimento;
udite le conclusioni dell’Avv. NOME COGNOME per il ricorrente, che si è riportato ai motivi di ricorso e ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 19 novembre 2024 la Corte d’Appello di Cagliari, in parziale riforma della sentenza emessa il 20 febbraio 2023 dal Tribunale di Cagliari, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato COGNOME NOME in relazione al reato di appropriazione indebita ascrittogli limitatamente alle condotte poste in essere fino al 14 luglio 2016
perché estinto per prescrizione e confermava nel resto la statuizione di condanna emessa dal giudice di primo grado.
All’COGNOME, in particolare, era stato contestato di essersi appropriato, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, di somme di denaro provenienti da pagamenti incassati per beni venduti in qualità di rappresentante commerciale del Consorzio agrario interprovinciale di Cagliari e Oristano, di ulteriori somme provenienti da pagamenti per premi assicurativi incassati per conto del Consorzio quale subagente della RAGIONE_SOCIALE, di somme sottratte dalla cassa del Consorzio agrario della quale era custode, di merci di proprietà del Consorzio agrario delle quali aveva la disponibilità, il tutto per un importo totale pari a euro 204.317,02.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, chiedendone l’annullamento e articolando un unico motivo di doglianza, con il quale deduceva inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché vizio di motivazione in relazione all’omessa considerazione dei motivi di appello e all’omessa valutazione della prova.
Esponeva che, in qualità di agente di commercio per conto del Consorzio Agrario di Sardegna, aveva provveduto per circa trent’anni (dal 1985 al 2017) alle vendite dei beni dell’ente e al versamento al medesimo consorzio delle somme riscosse a titolo di corrispettivo di tali vendite, ricevendo successivamente la propria provvigione, e che dal 2012 era entrato in sofferenza e aveva concordato con il Consorzio un piano di rientro per il versamento delle somme dovute, ciò fino al 2017, epoca in cui il rapporto di mandato era stato interrotto.
Rassegnava che era emersa una discrepanza fra l’importo complessivo dovuto al Consorzio come risultante dall’imputazione e quello emerso all’esito delle indagini, inferiore al primo e pari a euro 131.000,00.
Assumeva, per altro verso, che l’COGNOME era creditore nei confronti del Consorzio di ingenti somme, come risultanti dalla consulenza tecnica effettuata ad iniziativa della difesa.
Lamentava che la Corte d’Appello non aveva disposto perizia contabile al fine di accertare l’esatto importo eventualmente dovuto dall’imputato e aveva omesso di motivare in relazione alle risultanze della consulenza contabile effettuata a cura della difesa.
Deduceva che il reato contestato era insussistente e che il rapporto intercorso tra l’imputato e il Consorzio aveva avuto esclusivamente natura civilistica.
Assumeva che in seno al detto rapporto si era diffusa la prassi di dilazionare nel tempo il versamento dei proventi delle vendite effettuate dai mandatari del Consorzio con appositi piani di rientro, circostanza che era stata affermata anche dalla stessa parte civile.
Precisava che, a fronte di tale atteggiamento, improntato a tolleranza, al termine di ogni anno il Consorzio aveva fatto sottoscrivere all’imputato una promessa di pagamento avente natura di novazione, che aveva avuto l’effetto di far sorgere di una nuova obbligazione contrattuale in luogo di quella originaria, con la conseguenza che il mancato pagamento delle somme portate dai piani di rientro non poteva mai essere qualificato come appropriazione indebita, trattandosi di un mero inadempimento rispetto alla nuova obbligazione.
Assumeva, infine, che la Corte territoriale non aveva reso alcuna motivazione in punto di elemento soggettivo del reato contestato.
In data 1 aprile 2025 il difensore della parte civile depositava conclusioni scritte con le quali chiedeva la conferma della sentenza impugnata e in particolare la condanna dell’COGNOME al pagamento delle spese dei tre gradi di giudizio; depositava inoltre nota spese e memoria illustrativa con la quale affermava che la motivazione della sentenza impugnata era immune da vizi, negava che presso il Consorzio fosse in vigore la prassi di dilazionare nel tempo i proventi delle vendite dei beni dell’azienda da parte degli agenti muniti di mandato a vendere, fra i quali il ricorrente, deduceva che in ordine all’ammontare del debito maturato dall’Usai nei confronti del consorzio l’imputato aveva reso plurime ricognizioni di debito tutte prive di effetto novativo, rassegnava che il medesimo non era titolare di alcun credito certo, liquido ed esigibile nei confronti del Consorzio, assumeva che era sussistente l’elemento soggettivo del reato contestato poiché l’imputato era ben consapevole di non avere alcun diritto di trattenere le somme oggetto del reato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
In ricorso è manifestamente infondato e pertanto deve essere dichiarato inammissibile.
Il ricorrente deduce entrambi i vizi di violazione di legge e di mancanza di motivazione, quest’ultimo declinato sotto i diversi profili della omessa considerazione dei motivi di appello e della omessa valutazione della prova.
Si deve innanzitutto osservare, quanto al dedotto vizio di violazione di legge, che, lungi dal delineare un effettivo vizio di legittimità, le doglianze articolate finiscono per contestare il giudizio di responsabilità, ovvero il risultato probatorio cui sono approdati i giudici di merito che, con valutazione conforme delle medesime emergenze istruttorie, sono stati concordi nel ritenere al contrario tali elementi pienamente e integralmente riscontrati all’esito della ricostruzione della concreta vicenda processuale. Ed in effetti, è utile ribadire che, ai fini della corretta deduzione del vizio di violazione di legge di cui all’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., il motivo di ricorso deve strutturarsi sulla contestazione della riconducibilità del fatto – come ricostruito dai giudici di merito – nella fattispecie astratta delineata dal legislatore; altra cosa, invece, è, come accade sovente ed anche nel caso di specie, sostenere che le emergenze istruttorie acquisite siano idonee o meno a consentire la ricostruzione della condotta di cui si discute in termini tali da ricondurla al paradigma legale. Nel primo caso, infatti, viene effettivamente in rilievo un profilo di violazione di legge laddove si deduce l’erroneità dell’opera di “sussunzione” del fatto (non suscettibile di essere rimessa in discussione in sede di legittimità) rispetto alla fattispecie astratta; nel secondo caso, invece, la censura si risolve nella contestazione della possibilità di enucleare, dalle prove acquisite, una condotta corrispondente alla fattispecie tipica che è, invece, operazione prettamente riservata al giudice di merito. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Con le censure svolte, il ricorrente contesta, in sostanza, l’approdo decisionale cui sono pervenuti i giudici di merito nell’affermare la penale responsabilità dello stesso, sottoponendo alla Corte una serie di argomentazioni che si risolvono nella proposizione di diverse e rinnovate chiavi di lettura del compendio probatorio.
Quanto, poi, al dedotto vizio di motivazione, l’inammissibilità della doglianza è resa evidente dal fatto che la stessa è sostanzialmente orientata a riprodurre una serie di deduzioni già ampiamente vagliate e correttamente disattese dalla Corte distrettuale, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle correlative risultanze processuali, poiché imperniata sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, in tal guisa richiedendo l’esercizio di uno scrutinio improponibile in questa sede, a fronte della linearità
e della logica conseguenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell’impugnata decisione. Sotto tali profili, dunque, il ricorso non è volto a rilevare mancanze argomentative ed illogicità ictu °cui/ percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice di appello, che ha adeguatamente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento dei temi d’accusa enucleati con riferimento alla condotta oggetto del capo d’imputazione.
Si è dinanzi, in definitiva, ad un quadro argomentativo logicamente articolato nelle premesse e nelle relative conclusioni, esulando, come è noto, dai poteri di questa Suprema Corte quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali dal ricorrente ritenute più adeguate (Sez. U, 2 luglio 1997, n. 6402, COGNOME).
La Corte di legittimità, infatti, non può sostituire una propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di giudizio, dovendo saggiare la tenuta logica della pronuncia sottoposta alla sua cognizione senza oltrepassare i limiti di un accertamento della coerenza strutturale della sentenza in sè e per sè considerata, accertamento che deve necessariamente condursi alla stregua degli stessi parametri valutativi che geneticamente le danno corpo, ancorché questi siano, in ipotesi, sostituibili da altri. L’indagine sul discorso giustificativo della decisione impugnata, pertanto, ha un orizzonte percettivo delimitato al riscontro dell’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari temi ivi apprezzati, non potendosi mai sovrapporre nella verifica dell’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è giovato per sostenere il suo convincimento o della loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione come vizio denunciabile deve essere, per ciò, inevitabilmente palese e di immediata riconoscibilità, cioè di spessore e consistenza tali da emergere ictu °cui/. Nel caso di specie, invero, l’adeguatezza e logicità (nel senso appena specificato) della motivazione della sentenza impugnata non sono state minimamente aggredite dal ricorrente, limitatosi a prospettare critiche sulle valutazioni dalla Corte d’appello rese in ordine alla fondatezza ed ai risultati del materiale probatorio sottoposto al suo esame, delineandone, tuttavia, una diversa ed alternativa lettura, la cui rivisitazione, come già osservato, non è in alcun modo percorribile in questa sede.
Con riferimento ai temi specifici richiamati con il ricorso la Corte d’Appello ha reso una motivazione che appare immune da vizi.
In particolare, quanto ai crediti asseritamente vantati dal ricorrente nei confronti del Consorzio, la Corte di merito ha congruamente evidenziato, a pag. 6 del provvedimento impugnato, che non si trattava di crediti esigibili, e altrettanto congruamente ha fatto riferimento all’orientamento giurisprudenziale, consolidato e condiviso da questo Collegio, secondo il quale, in tema di appropriazione indebita, non può essere eccepita, al fine di esonero da responsabilità, la compensazione con un credito preesistente, ove questo non sia certo, liquido ed esigibile (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 27884 del 01/06/2022, COGNOME, Rv. 283632 – 01, che tratta di una fattispecie in cui la Corte ha escluso che la sola prestazione di attività lavorativa consentisse all’amministratore di una società di apprendere, a titolo compensativo, le somme versate dai clienti in pagamento delle fatture, non essendo al momento determinata la misura della retribuzione di sua spettanza, nè contrattualmente prevista la facoltà di prelievo diretto degli importi incassati).
Con riferimento all’esistenza, dedotta dalla difesa, di una prassi in forza della quale le restituzioni da parte degli agenti delle somme incassate quale corrispettivo delle vendite dei beni del Consorzio venivano dilazionate nel tempo, e ai relativi atti di promessa di pagamento e di ricognizione di debito sottoscritti annualmente, la Corte territoriale osservava in maniera del tutto congrua che l’invocato effetto novativo di tali atti era stato solo dedotto dal ricorrente, in assenza di qualsivoglia indicazione relativa agli elementi in forza dei quali ritenere sussistente la volontà delle parti di novare la precedente obbligazione, e che in realtà la sottoscrizione dei piani di rientro da parte dell’Usai costituiva “una plateale conferma della effettività delle ragioni del Consorzio e, correlativamente, delle appropriazioni intervenute” (v. pag. 10 della sentenza impugnata).
Riguardo, infine, alla dedotta carenza dell’elemento soggettivo del reato, la Corte di merito ha affermato, in maniera del tutto logica, che la sollecitazione dei piani di rientro “esclude qualsiasi dubbio circa la sussistenza del dolo: egli prima si assicurò il possesso del denaro da riversare al Consorzio e rimise le eventuali restituzioni a conteggi futuri, in assenza di ogni esatta quantificazione” (v. pag. 11 del provvedimento impugnato).
2. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve, dunque, essere dichiarato inammissibile. Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell’art.
616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186,
e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”,
deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende. Inoltre il
ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE che devono essere liquidate in complessivi euro 3686, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile RAGIONE_SOCIALE che liquida in complessivi euro 3686, oltre accessori di legge.
Così deciso il 16/04/2025