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Appropriazione indebita beni in leasing: la Cassazione

Un imprenditore, dopo aver interrotto il pagamento dei canoni di leasing per attrezzature elettroniche, non le restituisce alla società concedente, continuando a utilizzarle. La Corte di Cassazione ha confermato la sua condanna per il reato di appropriazione indebita. Secondo la Corte, l’uso dei beni come se fossero propri (uti dominus) dopo la richiesta di restituzione configura l’appropriazione indebita beni in leasing, e le giustificazioni tecniche per il mancato smontaggio sono state ritenute pretestuose e non credibili.

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Pubblicato il 12 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Appropriazione indebita beni in leasing: quando il mancato reso diventa reato

La mancata restituzione dei beni al termine di un contratto di leasing non è solo un inadempimento civile, ma può integrare una fattispecie penale ben precisa. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito i confini del reato di appropriazione indebita beni in leasing, chiarendo che l’uso continuato del bene come se fosse proprio, dopo la richiesta di restituzione, è un elemento decisivo per la configurabilità del delitto, rendendo irrilevanti eventuali giustificazioni pretestuose.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda un imprenditore, amministratore di una società, che aveva stipulato un contratto di leasing per la fornitura di materiale elettronico, in particolare dispositivi GPS da installare su veicoli industriali. Dopo aver interrotto il pagamento dei canoni, la società di leasing aveva formalmente richiesto la restituzione dei beni. Nonostante la richiesta, l’imprenditore non solo non restituiva i dispositivi, ma continuava a utilizzarli nell’ambito della propria attività d’impresa. Condannato in primo grado e in appello per il reato di appropriazione indebita ai sensi dell’art. 646 c.p., l’imprenditore presentava ricorso in Cassazione.

I Motivi del Ricorso e l’Appropriazione Indebita Beni in Leasing

L’imputato basava il suo ricorso su tre motivi principali. In primo luogo, sosteneva che il reato non fosse configurabile, poiché il possesso dei beni era stato ottenuto con l’intento originario di non adempiere ai pagamenti, condotta che avrebbe dovuto essere inquadrata come insolvenza fraudolenta e non come appropriazione indebita. In secondo luogo, lamentava un travisamento della prova, affermando che la sua attività imprenditoriale era di fatto cessata, e quindi non vi era stato un utilizzo uti dominus dei beni. Infine, giustificava la mancata restituzione con la necessità di un intervento tecnico specializzato per lo smontaggio dei GPS, una difficoltà che, a suo dire, i giudici di merito non avrebbero considerato adeguatamente.

Le Motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, respingendo tutte le argomentazioni della difesa. Innanzitutto, ha precisato che il primo motivo era inammissibile perché non era stato sollevato nel precedente grado di giudizio. Per quanto riguarda gli altri due motivi, la Corte ha sottolineato che essi miravano a una nuova e diversa valutazione dei fatti, un’operazione preclusa in sede di legittimità. Il ruolo della Cassazione non è quello di riesaminare le prove, ma di verificare la correttezza giuridica e la coerenza logica della motivazione della sentenza impugnata.

Nel merito, i giudici hanno ritenuto la motivazione della Corte d’Appello esente da vizi. Era stato ampiamente dimostrato che l’imprenditore, dopo la richiesta di restituzione, aveva continuato a utilizzare i beni comportandosi come se ne fosse il proprietario (uti dominus). Questo comportamento realizza la cosiddetta interversio possessionis, ovvero il mutamento dell’atteggiamento psicologico da semplice detentore a possessore, che è l’elemento chiave per integrare il reato di appropriazione indebita. La Corte ha inoltre considerato del tutto generica e non credibile la giustificazione relativa alle difficoltà di smontaggio, evidenziando come l’imputato non avesse provveduto a restituire neppure i beni che non presentavano alcun problema tecnico.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un principio fondamentale in materia di appropriazione indebita beni in leasing: il reato si consuma nel momento in cui il detentore, che ha legittimamente ricevuto il bene, compie un atto incompatibile con il diritto del proprietario, manifestando la volontà di tenerlo per sé. Il rifiuto esplicito o la mancata restituzione a seguito di una formale richiesta, unita alla continuazione dell’uso del bene, sono prove sufficienti di tale volontà. Le giustificazioni addotte per la mancata restituzione devono essere concrete, provate e credibili, altrimenti verranno considerate meri pretesti volti a mascherare l’intento appropriativo.

Quando il mancato reso di un bene in leasing diventa appropriazione indebita?
Diventa appropriazione indebita quando, dopo la richiesta formale di restituzione da parte del proprietario, l’utilizzatore continua a comportarsi come se fosse il proprietario del bene (ad esempio, continuando a usarlo per la propria attività), manifestando così la volontà di appropriarsene in modo definitivo.

Addurre difficoltà tecniche per lo smontaggio dei beni può escludere il reato?
No, secondo questa sentenza, tale giustificazione non è sufficiente se appare pretestuosa o non provata. La Corte ha ritenuto l’argomento non credibile, soprattutto perché l’imputato non aveva restituito nemmeno i beni che non richiedevano alcun intervento tecnico per la rimozione.

È possibile presentare in Cassazione motivi di ricorso non discussi in Appello?
No, la sentenza conferma che un motivo di ricorso è inammissibile in Cassazione se non è stato precedentemente dedotto come motivo nel giudizio di appello, come previsto dal Codice di procedura penale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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