Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 3092 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 3092 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME COGNOME NOME
Data Udienza: 13/12/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME
NOME
NOME
MASCIAVEO BENITO
nato a CERIGNOLA il DATA_NASCITA
nato a CERIGNOLA il DATA_NASCITA
nato a CERIGNOLA il DATA_NASCITA
nato a CERIGNOLA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 07/06/2022 della CORTE DI APPELLO DI BARI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME, che ha concluso per la inammissibilità dei ricorsi; uditi i difensori AVV_NOTAIO e NOME COGNOME (per COGNOME), i quali hanno concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 7 giugno 2022 la Corte di appello di Bari, in parziale riforma della decisione del G.u.p. del Tribunale di Foggia, emessa ad esito di giudizio abbreviato, condannava NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME
e NOME COGNOME per concorso nel reato di estorsione consumata, originariamente contestato (e non tentata, come ritenuto dal G.u.p.), confermando la condanna di NOME e NOME per gli altri reati di resistenza a pubblico ufficiale, lesione personale e danneggiamento e rideterminando per tutti le pene inflitte dal primo giudice.
Hanno proposto ricorso i quattro imputati, a mezzo dei rispettivi difensori, chiedendo l’annullamento della sentenza.
Con un unico atto il difensore di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME ha proposto tre motivi di ricorso, con il primo dei quali denuncia la inosservanza dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen. e la illogicità della motivazione sul punto: la Corte territoriale, infatti, ha ritenuto ammissibile l’appello del Pubblico ministero sull’erroneo presupposto che la riqualificazione del reato da estorsione tentata a estorsione consumata, operata dal primo giudice, costituisse una modifica del titolo di reato sì da consentire l’impugnazione dell’accusa ai sensi della predetta norma.
La difesa, poi, lamenta la erronea applicazione della legge penale (artt. 629 e 56-629 cod. pen.), in assenza della coartazione delle persone offese, le quali non furono mai intimorite, come risulta dalle telefonate intercettate, e avevano l’unico scopo di fare arrestare i responsabili delle richieste. Non è ravvisabile neppure la ipotesi tentata, stante l’assoluta inidoneità degli atti.
In relazione alla sola posizione di NOME COGNOME si deduce la violazione dell’art. 99 cod. pen. in quanto, ai fini dell’applicazione della recidiva, la Corte di appello ha operato un giudizio disancorato dagli elementi del caso concreto.
Il ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME è articolato in sette motivi.
4.1. Violazione della legge penale processuale (artt. 178, 230 e 430 cod. proc. pen.) in ordine alla ritenuta utilizzabilità dell’elaborato del dott COGNOME, consulente del Pubblico Ministero, depositata in udienza, nonostante l’opposizione delle difese, a un mese di distanza da quella del perito incaricato dal G.u.p., che pure era stato in precedenza esaminato in contraddittorio. La violazione dell’art. 230 del codice di rito non è stata sanata dal nuovo esame del perito, in quanto la norma prevede l’instaurazione del contraddittorio in primis fra gli esperti.
4.2. Violazione della legge penale processuale (art. 443, comma 3, cod. proc. pen.) in relazione alla inammissibilità dell’appello del Pubblico ministero.
Erroneamente la Corte di appello ha ritenuto che il primo giudice, qualificando la estorsione come tentata e non consumata, avesse modificato il titolo del reato, ipotesi che si verifica solo quando cambia il nomen iuris, come si ricava dal disposto degli artt. 117 cod. pen. e 443 cod. proc. pen.
4.3. Violazione della legge penale (artt. 56 e 629 cod. pen. per travisamento della prova ed illogicità della motivazione) in ordine alla riqualificazione nella fattispecie di estorsione consumata.
Correttamente il primo giudice aveva ritenuto il tentativo, considerato che la consegna di una sola banconota da cinquanta euro e delle altre false avvenne sotto il controllo delle forze dell’ordine, con le quali le persone offese si erano accordate, non avendo mai avuto l’intenzione di cedere al ricatto, come dalle stesse dichiarato.
4.4. Violazione di legge (artt. 110 e 629 cod. pen., 192 e 533 cod. proc. pen.) per travisamento della prova, illogicità della motivazione e apparenza della stessa nella parte in cui cita captazioni dal contenuto neutro.
La Corte, rilevato che la voce del NOME in contesti colloquiali leciti era stata identificata dal perito in quella di COGNOME, ha poi attribuito a quest’ultimo la voce del NOME in contesti illeciti, nonostante le contrarie conclusioni del perito e il riconoscimento della voce di colui che effettuò le telefonate estorsive in quella di NOME COGNOME.
La sentenza ha affermato che il ricorrente aveva partecipato anche alla fase esecutiva sulla scorta di un messaggio neutro della moglie in contrasto con l’assoluzione dai residui reati, indicativa della sua assenza dal luogo ove venne effettuata la consegna del denaro, cui seguì l’arresto dei coimputati.
4.5. Violazione di legge (artt. 192 e 533 cod. proc. pen.) e omessa o apparente motivazione in relazione alla mancata valutazione delle risultanze della perizia del prof. COGNOME circa la non identificazione di COGNOME quale telefonista del sodalizio criminoso.
I giudici di merito si sono discostati da tali risultanze nonostante il perito, a differenza del consulente del Pubblico Ministero, abbia utilizzato un metodo accreditato nella comunità scientifica.
4.6. Violazione della legge penale (artt. 99, quarto comma, e 133 cod. pen.) e omessa motivazione in ordine all’applicazione della recidiva reiterata, nel caso di specie avvenuta nonostante COGNOME non sia mai stato riconosciuto recidivo.
4.7. Violazione della legge penale (artt. 62-bis e 133 cod. pen.) e vizio di motivazione quanto alla mancata concessione delle attenuanti generiche, negata dai giudici di merito nonostante l’assoluzione del ricorrente dai residui reati e il minimo pericolo arrecato al patrimonio della persona offesa, considerato che tutte le altre banconote, diverse da quella di cinquanta euro, erano false.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi non sono fondati, fatta eccezione per il punto inerente alle attenuanti generiche, per le ragioni di seguito indicate.
È opportuno esaminare per primo il motivo in rito, proposto in tutti i ricorsi, riguardante l’ammissibilità dell’appello del Pubblico ministero, ritenuta dalla Corte territoriale (pag. 8) e contestata dalle difese sulla base del disposto dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen. che preclude al pubblico ministero di «proporre appello contro le sentenze di condanna, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato».
Secondo i ricorrenti, nel caso di specie l’appello del Pubblico ministero non sarebbe stato consentito in quanto – diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata – la riqualificazione del reato da estorsione tentata a estorsione consumata, operata dal primo giudice, non ha integrato una modifica del titolo di reato.
La tesi difensiva non è condivisibile.
2.1. Pur in assenza di pronunce specifiche di questa Corte sulla questione, ritiene il Collegio che l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sull’autonomia delle due figure del delitto tentato é del delitto consumato consenta di aderire convintamente all’opposta tesi seguita dal giudice di appello: il primo, infatti, sebbene conservi lo stesso nomen iuris della figura delittuosa consumata, costituisce una ipotesi autonoma di reato, qualificato da una propria oggettività giuridica e da una propria struttura, delineate dalla combinazione della norma incriminatrice specifica e della disposizione contenuta nell’art. 56 cod. pen., che rende punibili, con una pena autonoma, fatti altrimenti non sanzionabili.
Tale autonomia, ad esempio, è stata evidenziata anche nella pronuncia con la quale le Sezioni Unite di questa Corte hanno statuito che «il sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dell’art. 12-sexies decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge n. 356 del 1992 (attuale art. 240-bis cod. pen.) può essere disposto per uno dei reati presupposto anche nella forma del tentativo aggravato dall’art. 7 legge 203 del 1991», aderendo all’orientamento secondo il quale «il generico riferimento ai delitti, aggravati ex art. 7 (agevolazione o metodo mafioso), indipendentemente dallo specifico titolo di reato, è chiaramente comprensivo di ogni delitto in tal guisa aggravato, consumato o tentato che sia», in quanto «anche quelli rimasti allo stadio del tentativo sono da considerarsi “delitti” cui può accedere la predetta aggravante, a differenza di quanto si verifica nel caso dei delitti individuati con l’espressa
indicazione delle norme incriminatrici» (Sez. U, n. 40985 del 19/04/2018, COGNOME, Rv. 273752).
Richiamando detta pronuncia e il principio dell’autonomia del delitto tentato, questa Corte ha affermato, in tema di applicazione di misure cautelari personali, che la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia in carcere per determinate fattispecie incriminatrici, prevista dagli artt. 275, comma 3, e 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., deve intendersi riferita anche ai delitti tentati in caso di contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 della legge 12 luglio 1991, n. 203 (ora art. 416-bis.1, primo comma, cod. pen.), atteso che il generico riferimento ai «delitti» in tal guisa aggravati, indipendentemente dallo specifico titolo di reato, è comprensivo di ogni fattispecie delittuosa, sia consumata che tentata (Sez. 2, n. 23935 del 04/05/2022, COGNOME, Rv. 283176; Sez. 1, n. 38603 del 23/06/2021, COGNOME, Rv. 282049; Sez. 2, n. 22096 del 03/07/2020, COGNOME, Rv. 279771).
In ragione del medesimo principio, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, tra i reati di cui agli artt. 628, 629 e 630 cod. pen. per i quali non opera, ai sensi dell’art. 649, comma terzo, prima parte, cod. pen., la causa di non punibilità prevista da detta disposizione, non rientrano le ipotesi dei delitti tentati (Sez. 2, n. 25242 del 18/04/2019, NOME, Rv. 275825; Sez. 2, n. 5504 del 22/10/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258198; Sez. 2, n. 24643 del 21/03/2012, COGNOME, Rv. 252832).
Lo stesso principio è stato richiamato, anche di recente, in tema di applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. (Sez. 5, n. 17348 del 09/01/2019, COGNOME, Rv, 276629) e della circostanza aggravante prevista dall’art. 71 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Sez. 2, n. 1009 del 26/11/2021, dep. 2022, Galati, Rv. 282583)
2.2. Sotto altro profilo va evidenziato che la inappellabilità, da parte del Pubblico ministero, della sentenza di condanna emessa all’esito di giudizio abbreviato, prevista dal comma 3 dell’art. 443 cod. proc. pen., costituisce una eccezione alla regola generale prevista dall’art. 593 cod. proc. pen. e fatta rivivere nella seconda parte del medesimo comma. Pertanto, la limitazione di appellabilità alle sole ipotesi di mutamento del titolo del reato deve essere interpretata in senso restrittivo.
Detta espressione («titolo del reato») può avere significati diversi nell’ordinamento penale e processuale, cosicché essa, nella norma di rito, ha una accezione più ampia di quella letterale accolta dall’art. 117 cod. pen.: sulla base di questo condivisibile rilievo si è affermato che è ammissibile l’appello proposto avverso la sentenza di condanna che, a fronte della contestazione di due ipotesi
di reato, ritenga l’assorbimento della fattispecie meno grave anziché il concorso formale tra due i reati (Sez. 6, n. 1651 del 12/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278215) o che riqualifichi il fatto da omicidio preterintenzionale a eccesso colposo in legittima difesa (Sez. 5, n. 15713 del 02/02/2018, COGNOME, Rv. 272840).
È infondata l’altra doglianza proposta in tutti i ricorsi con la quale si è sostenuta l’erroneità della definizione giuridica del fatto quale estorsione consumata e comunque la insussistenza del reato in assenza della idoneità della minaccia.
Su questo secondo punto la motivazione della sentenza impugnata è puntuale e logica (pagg. 9-10) là dove ha evidenziato che “proprio l’intendimento di denunzia rappresenta un sicuro indice valutativo della gravità della minaccia subita” dall’imprenditore NOME COGNOME, persona offesa, nonché la irrilevanza, ai fini della esclusione della idoneità della minaccia, della diversa reazione espressa dalla sua compagna.
Inoltre, l’idoneità degli atti deve essere valutata con giudizio operato ex ante, essendo priva di rilievo la capacità di resistenza dimostrata dalla vittima dopo la formulazione della minaccia (Sez. 2, n. 24166 del 20/03/2019, COGNOME, Rv. 276537; Sez. 2, n. 3934 del 12/01/2017, COGNOME, Rv. 269309; Sez. 2, n. 41167 del 02/07/2013, COGNOME, Rv. 256728; Sez. 2, n. 12568 del 05/02/2013, COGNOME, Rv. 255538).
Corretta è la qualificazione giuridica del fatto operata dalla Corte di appello, che ha applicato il principio, costante nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il delitto deve considerarsi consumato e non solo tentato allorché la cosa estorta venga consegnata dal soggetto passivo all’estorsore, e ciò anche nelle ipotesi in cui sia predisposto l’intervento della polizia giudiziaria che provveda immediatamente all’arresto del reo ed alla restituzione del bene all’avente diritto (Sez. U, n. 19 del 27/10/1999, COGNOME, Rv. 214642; più di recente v. Sez. 2, n. 12675 del 20/12/2018, dep. 2019, Sirbu, Rv. 275417).
In tema di estorsione la costrizione che deve seguire alla violenza o minaccia, attiene all’evento del reato, mentre l’ingiusto profitto con altrui danno si atteggia a ulteriore evento, sicché si configura il tentativo solo nel caso in cui la violenza o la minaccia non raggiungano il risultato di costringere una persona al facere ingiunto (Sez. 2, n. 3934 del 12/01/2017, COGNOME, Rv. 269309; Sez. 2, n. 37515 del 11/06/2013, COGNOME, Rv. 256658).
È pacifico che la persona offesa consegnò solo una banconota autentica da cinquanta euro, sia pure sotto la sorveglianza delle forze dell’ordine, circostanza che comunque ha rilievo per quanto si dirà a proposito del motivo relativo al diniego delle attenuanti generiche.
Sono infondate anche le doglianze espresse in tema di recidiva da NOME COGNOME e NOME COGNOME, con le quali i ricorrenti hanno lamentato l’erronea applicazione della circostanza aggravante.
A fronte di motivi di appello generici la Corte territoriale si è attenuta al principio affermato dalle Sezioni Unite a partire dalla sentenza Calibè (Sez. U, n. 35738 del 27/5/2010, Rv. 247838-01), secondo il quale il giudice di merito, in presenza di una corretta contestazione della recidiva, è tenuto a verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo della «più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo», dovendosi tenere conto, all’uopo, «della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza».
La motivazione sul punto è sintetica ma non assente (pag. 13), essendosi in particolare richiamati i plurimi, gravi e specifici precedenti penali di NOME COGNOME e NOME COGNOME, per i quali pure ha escluso i presupposti per la declaratoria di delinquenza abituale: la pregressa mancanza della dichiarazione (rectius: applicazione) della recidiva per il secondo imputato non preclude l’applicazione nel presente processo della recidiva reiterata, essendo sufficiente che, al momento della consumazione del reato, egli fosse gravato da più sentenze definitive per reati precedentemente commessi ed espressivi di una maggiore pericolosità sociale, come da ultimo statuito dalle Sezioni Unite nella sentenza Sabbatini (Sez. U, n. 32318 del 30/03/2023, Rv. 284878-01).
Quanto alle altre censure proposte dal solo COGNOME, osserva il Collegio che vi è un difetto di interesse all’accoglimento (e quindi all’esame) del primo e del quinto motivo di ricorso, relativi rispettivamente alla dedotta inutilizzabilità dell’elaborato del consulente del Pubblico ministero e alla motivazione sulla mancata valutazione delle risultanze della perizia del prof. COGNOME circa la identificazione dello stesso imputato quale il telefonista che rivolse le minacce per ottenere il pagamento richiesto.
Infatti, la Corte di appello, in conclusione, dà atto di una situazione di “incertezza probatoria” sulla identificazione della voce in quella del ricorrente COGNOME, che “non pregiudica in ogni caso la prova della compartecipazione criminosa del COGNOME al reato di estorsione” (pag. 11).
È chiaro, pertanto, che detta incertezza ha comportato che – come espressamente affermato nella sentenza impugnata – la responsabilità
concorsuale di COGNOME sia stata riconosciuta sulla base di altre prove, costituite dalla sicura identificazione dello stesso quale il soggetto che comunque conversava abitualmente in quei giorni con i tre esecutori materiali.
Le telefonate in questione sono state contestualizzate dai giudici di merito e la motivazione non risulta manifestamente illogica.
La sentenza impugnata (pag. 12) ha attribuito particolare significato alla conversazione fra NOME COGNOME e la nuora NOME COGNOME nella quale quest’ultima riferisce al suocero di un messaggio inviato dalla moglie di NOME ad NOME COGNOME, sorella di NOME e moglie del coimputato NOME, dopo la fallita operazione, ritenuto privo di senso in assenza di una compartecipazione del ricorrente alla richiesta estorsiva: anche su questo punto la motivazione è logica e incensurabile.
Non sussiste, dunque, alcun travisamento della prova, che non costituisce il mezzo per valutare nel merito la prova, bensì lo strumento per saggiare la tenuta della motivazione alla luce della sua coerenza logica con i fatti sulla base dei quali si fonda il ragionamento (Sez. 1, n. 51171 del 11/06/2018, COGNOME, Rv. 274478; Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272406).
Da ultimo questa Corte ha precisato che detto vizio vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica di conformità delle rappresentazioni dell’elemento probatorio nella motivazione e, rispettivamente, nel relativo atto del processo per evidenziarne l’eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova (Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, COGNOME, Rv. 283370).
Inoltre, in caso di “doppia conforme”, il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo quando il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della motivazione del provvedimento di secondo grado ovvero qualora entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite, in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili (ossia in assenza di alcun discrezionale apprezzamento di merito), il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M., Rv. 283777; Sez. 6, n. 21015 del 17/05/2021, Africano, Rv. 281665; Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, COGNOME, Rv. 280155; Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L., Rv. 272018; Sez. 2, n. 7896 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217).
Nessuna delle due circostanze è ravvisabile nel caso di specie.
È fondato – come detto – il motivo inerente al diniego delle attenuanti generiche.
A fronte di una imputazione nella quale l’oggetto della estorsione consumata era stato indicato in cinquantamila euro e di una sentenza di primo grado che aveva riqualificato il delitto in una estorsione solo tentata, la Corte di appello ha correttamente qualificato come consumato il reato, in relazione però alla consegna di una sola banconota autentica da cinquanta euro.
La circostanza incide evidentemente sulla gravità del reato, avuto particolare riguardo alla entità del danno arrecato alla persona offesa, e quindi anche ai sensi dell’art. 62 -bis, secondo comma, cod. pen.; non risulta dalla sentenza impugnata che questo aspetto sia stato considerato dalla Corte territoriale al momento della valutazione sul riconoscimento o meno delle attenuanti generiche, escluse in forza di due non condivisibili rilievi (pag. 12).
In primo luogo, la sentenza ha osservato che la concessione di dette attenuanti era stata richiesta sul presupposto che la qualificazione del fatto fosse quella di estorsione tentata indicata dal primo giudice; in secondo luogo, sarebbero mancate “significative manifestazioni di collaborazione processuale ad opera degli imputati”.
La prima considerazione, però, non appare pertinente, in quanto in concreto la gravità del fatto commesso (estorsione consumata di cinquanta euro) non risulta affatto maggiore di quello per il quale gli imputati erano stati condannati in primo grado (tentata estorsione di cinquantamila euro).
In secondo luogo, questa Corte ha di recente osservato che, «mentre la confessione dell’imputato, tanto più se spontanea e indicativa di uno stato di resipiscenza, può essere valutata come elemento favorevole, ai fini della concessione del predetto beneficio, per contro la protesta d’innocenza – o, si aggiunge, la scelta di non parlare o di non collaborare in qualche modo con l’autorità giudiziaria – pur di fronte all’evidenza delle prove di colpevolezza, non possono essere assunte, da sole, come elemento decisivo sfavorevole alla concessione stessa, non esistendo nel vigente ordinamento un principio giuridico per cui le attenuanti generiche debbano essere negate all’imputato che non confessi di aver commesso il fatto o non collabori con l’A.G., quale che sia l’efficacia delle prove di reità consentito ancorare la motivazione del diniego delle circostanze» (così Sez. 5, n. 32422 del 24/09/2020, COGNOME, Rv. 279778; in precedenza, in senso conforme, v. Sez. 3, n. 50565 del 29/10/2015, COGNOME, Rv. 265592 nonché Sez. 6, n. 44630 del 17/10/2013, Faga, Rv. 256963).
Trattandosi di un motivo non esclusivamente personale, il ricorso proposto sul punto da COGNOME giova agli altri tre ricorrenti, in virtù dell’effetto estensivo dell’impugnazione, ai sensi dell’art. 587, comma 1, del codice di rito.
La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Bari quanto alla valutazione relativa al riconoscimento delle attenuanti generiche, che dovrà essere sorretta, qualunque sia la decisione, da adeguata motivazione.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME nonché, per l’effetto estensivo, nei confronti di COGNOME NOME, COGNOME NOME ed COGNOME NOME, limitatamente alla valutazione inerente al riconoscimento delle attenuanti generiche, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di appello di Bari. Rigetta nel resto i ricorsi e dichiara irrevocabili le affermazioni di responsabilità.
Così deciso il 13/12/2023.