Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 10881 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 10881 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/02/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
Procuratore Generale presso Corte di Appello di Reggio Calabria
nei confronti di:
NOME COGNOME nato in Sudan il 25/10/1980
COGNOME NOME COGNOMENOME nato a Reggio Calabria il 21/08/1976 NOME COGNOME nato in Senegal il 27/12/1985
COGNOME NOME NOME nato a Locri il 01/07/1966
NOME NOME nato a Varallo il 31/10/1983
NOME nata a Riace il 13/03/1961
NOME COGNOME nato in Costa d’Avorio il 20/09/1986
COGNOME NOME nato a Melito di Porto Salvo il 31/05/1958
NOME nato a Locri il 17/09/1977
NOME COGNOME nata in Etiopia il 12/06/1982
COGNOME nato in Eritrea il 01/01/1988
NOME nato a Melito di Porto Salvo il 30/09/1976
COGNOME NOME nata a Siderno il 12/07/1959
e da:
COGNOME NOME nato a Melito di Porto Salvo il 31/05/1958
avverso la sentenza del 11/10/2023 della Corte di appello di Reggio Calabria.
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla ritenuta inutilizzabilità delle intercettazioni e rigetto nel resto, quanto al ricorso del Procuratore generale, e per la inammissibilità del ricorso proposto da COGNOME;
uditi i difensori che hanno concluso come segue.
L’Avvocato NOME COGNOME per l’Avvocatura generale dello Stato, in difesa del Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore , insiste per l’accoglimento del ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria, con particolare riferimento al primo motivo di ricorso.
L’Avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME conclude per il rigetto del primo motivo e per l’inammissibilità del secondo motivo di ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria.
L’Avvocata NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME conclude per il rigetto del primo motivo e per l’inammissibilità del secondo motivo di ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria.
L’Avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME si riporta alla memoria depositata in cancelleria e insiste per il rigetto del ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria.
L’Avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME detto “NOME“, insiste per l’inammissibilità del ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria.
L’Avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME insiste per il rigetto del ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria.
L’Avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME e di NOME COGNOME insiste per il rigetto del ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria.
L’Avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME insiste per l’inammissibilità o il rigetto del ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria.
L’Avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME chiede l’accoglimento del proprio ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 30 settembre 2021, ad esito del giudizio ordinario, il Tribunale di Locri -per quanto qui rileva in relazione alle posizioni degli imputati nei confronti dei quali è stato proposto il ricorso del Procuratore generale -condannava alle pene ritenute di giustizia:
NOME COGNOME ritenuta responsabile del reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640bis cod. pen.), ascrittole al capo 5B.10) della rubrica, con riqualificazione della condotta nella forma tentata;
Ammendolia NOME, detto NOME, ritenuto responsabile di concorso esterno in associazione per delinquere, così riqualificato il fatto contestatogli al capo 1), nonché delle truffe ex art. 640bis cod. pen. ascrittegli ai capi 5B.2) e 5B.4);
NOME COGNOME ritenuto responsabile del reato ex art. 640bis cod. pen. ascrittogli al capo 5B.4);
Capone NOME NOME, ritenuto responsabile dei reati di partecipazione ad associazione per delinquere (capo 1), truffa aggravata ex art. 640bis cod. pen. (capo 2, così riqualificato il fatto contestato come abuso d’ufficio, nonché capi 5A, 5B.1, 5B.2, 5B.3, 5B.4, 5B.5, 5B.6, 5B.9 e -previa riqualificazione della condotta nella forma tentata -5B.10), e peculato (capi 9.1, 9.2, 9.3 e 9.4), con limitazione in alcuni casi a determinati importi;
NOME PietroCOGNOME ritenuto responsabile dei reati di partecipazione ad associazione per delinquere (capo 1), truffa aggravata ex art. 640bis cod. pen. consumata o tentata (capo 2, così riqualificato il fatto contestato come abuso d’ufficio e limitatamente a un importo minore) e peculato (capo 9.12);
NOME ritenuta responsabile dei reati di partecipazione ad associazione per delinquere (capo 1), truffa aggravata ex art. 640bis cod. pen. (capi 5A, 5B.1, 5B.2, 5B.3, 5B.4, 5B.5, 5B.6, 5B.9 e -previa riqualificazione della condotta nella forma tentata -5B.10) e peculato (capi 9.1, 9.2, 9.3 e 9.4), con limitazione in alcuni casi a determinati importi;
NOME COGNOME ritenuto responsabile del reato ex art. 640bis cod. pen. ascrittogli al capo 5B.4);
COGNOME NOME, ritenuto responsabile dei reati di promozione e organizzazione dell ‘associazione per delinquere finalizzata a trarre profitto illecito dalle risorse pubbliche gestite nell’ambito del sistema dell’accoglienza dei migranti (capo 1), truffa aggravata ex art. 640bis cod. pen. (capo 2, così riqualificato il fatto contestato come abuso d’ufficio, nonché capi 5A, 5B.1, 5B.2,
5B.3, 5B.4, 5B.5, 5B.6, 5B.9 e -previa riqualificazione della condotta nella forma tentata -5B.10) e peculato (capi 9.1, 9.2, 9.3 e 9.4), con limitazione in alcuni casi a importi minori di quelli contestati, falso ideologico in atto pubblico continuato (capo 6), falso in certificazione amministrativa (capi 11, 19 e 20) e abuso d’ufficio (capi 15 e 16) ;
NOME ritenuta responsabile dei reati di partecipazione ad associazione per delinquere (capo 1), truffa aggravata ex art. 640bis cod. pen. (capo 2, così riqualificato il fatto contestato come abuso d’ufficio) e peculato (capo 9.7);
NOME COGNOME ritenuto responsabile dei reati di partecipazione ad associazione per delinquere (capo 1), truffa aggravata ex art. 640bis cod. pen. consumata o tentata (capo 2, così riqualificato il fatto contestato come abuso d’ufficio e ridotto l’ importo) e peculato (capi 9.9, limitatamente a una somma inferiore, e 9.11);
NOME COGNOME ritenuta responsabile dei reati di truffa aggravata ex art. 640bis cod. pen. (capo 10, previa riqualificazione della condotta nella forma tentata), e peculato (capi 9.2, 9.3 e 9.4), con limitazione in alcuni casi a determinati importi;
RAGIONE_SOCIALE, ritenuto responsabile del reato ex art. 640bis cod. pen. ascrittogli al capo 5B.4);
COGNOME NOME COGNOME ritenuto responsabile dei reati di partecipazione ad associazione per delinquere (capo 1), truffa aggravata ex art. 640bis cod. pen. nella forma tentata (capo 2, così riqualificato il fatto contestato come abuso d’ufficio) e in quella consumata (capo 5B.2) nonché peculato (capo 9.13).
La vicenda di cui si tratta riguarda il funzionamento del sistema di accoglienza dei migranti nel periodo d’interesse , durante il quale nel Comune di Riace erano attivi tre diversi progetti, lo SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), il MSNA (minori stranieri non accompagnati) e il CAS (centri di accoglienza straordinari).
Il progetto SPRAR era costituito da una rete di piccoli centri di accoglienza degli stranieri bisognosi di una prima assistenza che lo Stato gestiva in collaborazione con gli enti locali, con risorse erogate del Ministero dell’Interno. Per la realizzazione del servizio di accoglienza i Comuni potevano avvalersi di uno o più enti attuatori di natura privatistica, come accaduto nel caso in esame.
Il progetto MSNA aveva caratteristiche strutturali e operative similari allo SPRAR e intendeva dare protezione e accoglienza ai minorenni privi di genitori o comunque di persone che potessero assisterli.
Accanto al sistema ordinario di accoglienza, in forza di quanto previsto dal decreto legislativo n. 18 agosto 2015, n. 142, era altresì possibile allestire centri di accoglienza straordinari (CAS) destinati a soddisfare le esigenze essenziali dei migranti per un periodo limitato prima del trasferimento nelle strutture ordinarie.
Il progetto CAS era gestito attraverso la stipula di convenzioni tra le prefetture e gli enti locali nel cui territorio erano presenti le strutture, che potevano concludere accordi con soggetti privati per l ‘attuazi one del servizio di accoglienza. A fronte del servizio reso, la prefettura liquidava una somma di denaro giornaliera per ciascuno straniero ospitato.
In tutti i casi -secondo il Tribunale -era possibile ricondurre le somme versate dal Ministero dell’ Interno e dalle prefetture alla categoria dei finanziamenti e riconoscere la proprietà pubblica del denaro anche dopo la erogazione in ragione della permanenza del vincolo e dell’obbligo del rendiconto, cosicché le condotte contestate integravano la fattispecie di reato prevista dall’art. 640bis cod. pen.
NOME COGNOME, sindaco del Comune di Riace e responsabile del progetto RAGIONE_SOCIALE, veniva riconosciuto colpevole anche degli ulteriori reati di falso in certificazione amministrativa (capi 11, 19 e 20) e abuso d’ufficio (capi 15 e 16), ritenuti estranei alla logica di profitto legata all’accoglienza, ed era condannato a risarcire alla parte civile RAGIONE_SOCIALE ii danno patrimoniale patito in relazione al delitto ex art. 480 cod. pen. contestato al capo 11.
Con sentenza emessa in data 11 ottobre 2023 la Corte di appello di Reggio Calabria così provvedeva:
-previa riqualificazione della condotta nel reato di cui all’art. 640, primo comma, cod. pen., dichiarava non doversi procedere, per difetto di querela, in relazione al capo 5B.10), nei confronti di NOME COGNOME NOME, NOMECOGNOME NOME e NOME COGNOME
-previa riqualificazione delle condotte ritenute dal Tribunale peculati e truffe aggravate ex art. 640bis cod. pen. nella fattispecie di cui all’art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen., assolveva tutti gli imputati dai reati loro rispettivamente ascritti per insussistenza dei fatti (fatta eccezione per due truffe contestate a una imputata, non ricorrente, nei confronti della quale il P.G. non ha proposto impugnazione);
-assolveva con la medesima formula ( ‘perché il fatto non sussiste’ ) gli imputati del reato associativo nonché NOME COGNOME dai reati contestati ai capi 15), 19) e 20) e dai delitti di falso di cui al capo 6), ad eccezione di quello relativo alla determina n. 57 del 19 settembre 2017 per il quale, esclusa
l’aggravante prevista dall’ art. 61, primo comma, n. 2, cod. pen. e riconosciute le attenuanti generiche equivalenti all ‘ aggravante ex art. 476, secondo comma, cod. pen., rideterminava la pena, condizionalmente sospesa, in un anno e sei mesi di reclusione;
-dichiarava non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME per i reati di cui ai capi 11) e 16) in quanto estinti per intervenuta prescrizione, confermando le statuizioni civili in relazione al primo di detti reati (falso in certificazione amministrativa).
Avuto riguardo alle truffe, la Corte territoriale sosteneva che per ciascuno dei sistemi in cui si era articolato il servizio di accoglienza nella realtà riacese, l’accordo intercorso tra Comune e singola associazione andava ricondotto alla figura dell’appalto pubblico di servizi, per effetto dell’obbligo assunto dall’appaltatore di fornire un determinato servizio a fronte di un corrispettivo predeterminato, in accordo con il committente, secondo lo schema del contratto a prestazioni corrispettive, che si pone al di fuori dei concetti di ‘ contributi, sovvenzioni, finanziamenti ‘ indicati nell’ art. 640bis cod. pen.
Detta valutazione sulla qualificazione giuridica dei fatti spiegava effetti sul regime di utilizzabilità delle intercettazioni, non consentite per il reato previsto dall’art. 640, secondo comma, cod. pen.
Secondo la sentenza qui impugnata, l’utilizzo delle captazioni quale fonte di prova per il reato originariamente (ma erroneamente) qualificato ai sensi dell’art. 640bis cod. pen. nemmeno poteva essere legittimato invocando l’orientamento giurisprudenziale relativo alla cosiddetta verifica statica sui presupposti per la intercettazione, poiché la riqualificazione non era dipesa da un fisiologico sviluppo processuale.
Pertanto, per ciascuno dei reati non autonomamente intercettabili, la Corte d’appello ha affermato la necessità di procedere alla cosiddetta prova di resistenza, scrutinando la fondatezza dei motivi di gravame alla luce delle restanti risultanze probatorie.
La Corte di merito, poi, in relazione ai numerosi falsi ideologici in atto pubblico ascritti a Lucano quale pubblico ufficiale (reati ex art. 479 cod. pen., in relazione all’art. 476, secondo comma, cod. pen.), contestati al capo 6), ha ritenuto la carenza di prova per tutte le determine ivi indicate, fatta eccezione per la n. 57 del 19 settembre 2017.
Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria (nei confronti dei tredici soggetti indicati al § 1.) e NOME COGNOME
Il P.G. ha denunciato violazione di legge e vizio della motivazione in relazione a tre punti in cui la Corte di appello ha riformato la decisione del Tribunale: la parte in cui ha dichiarato inutilizzabili le intercettazioni disposte; la parte in cui ha riqualificato i fatti contestati, ritenuti dal primo Giudice riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 640 -bis cod. pen. (ipotesi di cui ai capi 2 e 5, con relative sotto-numerazioni), in quella prevista dall’art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen.; la parte in cui ha assolto NOME COGNOME dai reati di falso contestati al capo 6) , con l’eccezione di cui si è detto.
4.1. La Corte territoriale non ha considerato che già nella prima richiesta di autorizzazione alle intercettazioni il Pubblico ministero aveva puntualmente e diffusamente indicat o i gravi indizi dei reati di cui all’art. 640 -bis cod. pen. commessi dal sindaco del Comune di Riace, dai responsabili delle associazioni e dagli altri imputati, qualificazione giuridica ritenuta corretta dal G.i.p. e dal Giudice di primo grado.
Pertanto, le captazioni furono autorizzate e disposte sulla base del corretto presupposto della sussistenza dei gravi indizi di detto reato, essendo dunque irrilevante, ai fini del loro utilizzo, la riqualificazione operata dalla Corte di appello ad esito di un fisiologico sviluppo del processo, in conformità al principio di diritto più volte espresso dalla giurisprudenza di legittimità.
4.2. La Corte territoriale, a sostegno della riqualificazione giuridica dei fatti contestati ai capi 2) e 5) , ha concentrato l’attenzione sul rapporto finale intervenuto tra l’ente locale (Comune) e l’ente attuatore (associazioni e cooperative) per la realizzazione dei servizi di accoglienza integrata per i rifugiati e con motivazione illogica e contraddittoria ha escluso qualsiasi rilevanza del rapporto genetico posto alla base del servizio reso dall’ente gestore (Comune) da cui origina il conseguimento di erogazioni pubbliche, ossia il legame tra lo Stato e l’ente pubblico territoriale in ordine al quale va escluso in radice qualsivoglia profilo di natura privatistica, poiché il secondo riceve dal primo ‘contributi’ per la gestione del servizio di accoglienza e protezione dei richiedenti asilo e rifugiati.
Non è possibile scindere il momento genetico della vicenda processuale, costituito dall’approvazione del progetto e relativo finanziamento, da quello successivo che ha consentito alle associazioni esecutrici (fra le quali spicca ‘RAGIONE_SOCIALE‘) di conseguire l’ingiusto profitto costituito dalla materiale percezione del finanziamento. Tale profitto fu realizzato proprio per il tramite del Comune, nella persona del sindaco COGNOME il cui ruolo nel meccanismo fraudolento, anche quale presidente di fatto della citata associazione, è stato obliterato nella
sentenza impugnata, con un travisamento della prova, a fronte di una decisione di primo grado ampiamente motivata sul punto.
La riqualificazione giuridica, dunque, è stata effettuata dal Giudice di appello con motivazione illogica e contraddittoria.
4.3. La Corte territoriale, assolvendo COGNOME dai reati di falso di cui al capo 6), fatta eccezione per la sola determina n. 57 del 19 settembre 2017, ha osservato che la distribuzione delle somme già ottenute fra i vari enti gestori non era subordinata ad annotazioni del tipo di quelle contestate; nel contempo, però, ha ammesso, con motivazione contraddittoria, che ‘le determine di cui alla imputazione si inserivano nel procedimento amministrativo necessario per effettuare il pagamento di quanto già ricevuto dal Comune di Riace ‘ .
La stessa Corte, poi, con riferimento alla citata determina, ha spiegato in modo efficace la rilevanza del falso, emersa dalle intercettazioni, e la sua strumentalità nel più ampio disegno criminoso perseguito da COGNOME per non perdere le somme già spese.
5. Il ricorso di NOME COGNOME è articolato in sei motivi.
5.1. Violazione della legge penale (art. 479 cod. pen., in relazione all’art. 476, secondo comma, cod. pen.) con riferimento alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di falso di cui al capo 6) per il quale vi è stata condanna, limitatamente alla citata determina.
Il ricorrente, nel provvedimento contestato, non ha attestato fatti contrari al vero, poiché -come evidenziato dalla consulente di parte dott.ssa COGNOME -le convenzioni non prevedevano particolari controlli e verifiche da parte del Comune, se non l’accertamento e l’attestazione del regolare rendimento del servizio. A tale proposito lo stesso colonnello COGNOME, principale teste dell’accusa, ha confermato la effettività dei servizi resi ai migranti.
Semmai si sarebbe in presenza di un falso innocuo, inutile o grossolano, non punibile ai sensi dell’art. 49, secondo comma, cod. pen.
Difetta, inoltre, l’elemento soggettivo del reato, considerato che le modalità di redazione pongono un dubbio sulla effettiva conoscenza del loro complessivo contenuto; pertanto, nessuna consapevolezza e volontà di affermare fatti o cose non rispondenti al vero è ravvisabile nella condotta di COGNOME
5.2. Violazione di legge (artt. 129 cod. proc. pen., 480 cod. pen. e 3 decreto legislativo 12 febbraio 1993, n. 39) per avere la Corte pronunciato sentenza di non doversi procedere per il reato ex art. 480 cod. pen. di cui al capo 11) perché estinto per prescrizione anziché una sentenza di assoluzione nel merito.
Contrariamente a quanto affermato nella decisione impugnata, dalle risultanze probatorie emerge come non fosse riconducibile all’imputato la dichiarazione contestata (falsa attestazione alla RAGIONE_SOCIALE che i concerti programmati nell’ambito delle manifestazioni estive del 2015 non si erano tenuti), in quanto la certificazione in oggetto non può essere inquadrata nella tipologia di atti per i quali è prevista la possibilità di sostituire la firma autografa con l’indicazione a stampa, ai sensi dell’art. 3 decreto legislativo n. 39 del 1993.
Pertanto, difettando una valida sottoscrizione, l’atto attraverso il quale si sarebbe compiuto l’illecito deve considerarsi inesistente e privo di effetti giuridici e di conseguenza manca la certezza della provenienza e della piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo complesso.
5.3. Violazione di legge (artt. 578 cod. proc. pen., 185 cod. pen. e 2043 cod. civ.) e vizio della motivazione con riferimento alla conferma delle statuizioni civili relativamente al capo 11).
Ribadito che il documento incriminato non è stato sottoscritto da COGNOME si osserva che erroneamente la Corte di appello ha deciso sulla base della ritenuta integrazione della fattispecie penale di falso anziché della fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano, così violando l’art. 578 del codice di rito, come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 182 del 2021.
5.4. Violazione della legge penale e vizio della motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall’art. 62, primo comma, n. 1 cod. pen.
La Corte territoriale ha apoditticamente negato detta attenuante dopo avere riconosciuto che, con la ritenuta falsità della determina in questione, COGNOME si era fatto guidare da ‘finalità solidaristiche’ e non da ‘ragioni di profitto’, intendendo evitare di perdere denaro già speso dal Comune e che detta determina serviva a garantire che le somme già spese per le borse lavoro assegnate non venissero decurtate con danno per i soggetti più deboli.
5.5. Violazione della legge penale e vizio della motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza sulla contestata aggravante, in assenza di alcuna motivazione sul giudizio di comparazione.
5.6. Violazione della legge penale (artt. 133 e 175 cod. pen.) e vizio della motivazione per eccessività del trattamento sanzionatorio e mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna.
La Corte di appello ha inflitto una pena distante dal minimo edittale valorizzando l’entità degli importi distribuiti per effetto della determina (642.817,20 euro) senza considerare che detta somma corrisponde a quella
complessiva dei pagamenti relativi al secondo semestre del 2016 del progetto CAS e che di essa, nell’ottica accusatoria, solo una minima parte sarebbe frutto del documento ritenuto falso.
Nella sentenza impugnata, infine, manca una motivazione congrua e puntuale sul diniego del beneficio della non menzione della condanna, pur a fronte della concessione di quello della sospensione condizionale della pena.
6. Sono state depositate nei termini le seguenti memorie.
I difensori di NOME COGNOME hanno insistito per l’accoglimento del proprio ricorso, chiedendo che sia dichiarato inammissibile per genericità quello del Procuratore generale, in quanto, al fine di superare la cosiddetta prova di resistenza, il ricorso avrebbe dovuto indicare l’incidenza delle intercettazioni ritenute dalla Corte di appello inutilizzabili, essendo necessario valutare se attraverso il loro eventuale utilizzo lo stesso Giudice avrebbe potuto mutare il proprio convincimento.
In ogni caso il ricorso andrebbe rigettato perché la Corte d ‘a ppello ha correttamente qualificato i fatti in contestazione come reati ex art. 640, secondo comma, cod. pen. con conseguente inutilizzabilità delle intercettazioni.
Inoltre, la insussistenza e irrilevanza del delitto di falso di cui al capo 6) risulta chiaramente dalla motivazione della Corte di appello.
Anche nelle memorie depositate dal difensore di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME si è sostenuto che il ricorso del Procuratore generale, del quale si è chiesta la inammissibilità, non ha spiegato come l’utilizzazione delle conversazioni intercettate potrebbe ribaltare la sentenza assolutoria, in quanto è stato provato che le prestazioni lavorative dei tre stranieri erano effettive e non fittizie. Il ricorso, inoltre, ha sollecitato una inammissibile rivalutazione del merito della vicenda portata alla sua cognizione.
Il difensore di NOME COGNOME, nella propria memoria, ha concluso anch’egli per la inammissibilità del ricorso del Procuratore generale, in quanto, in relazione sia alla dichiarata inutilizzabilità delle intercettazioni sia alla riqualificazione delle truffe nella ipotesi prevista dall’art. 640, secondo comma, cod. pen., ha omesso di confrontarsi con la specifica e analitica motivazione della sentenza di appello. Proprio per la specifica posizione di COGNOME, la Corte territoriale , pur prescindendo dall’utilizzabilità o meno delle intercettazioni , ha ritenuto che non vi sia prova, in fatto, che il consulente del lavoro avesse concorso nel reato con COGNOME e gli altri protagonisti della vicenda.
Svolgendo analoghe argomentazioni, i difensori di NOME COGNOME e il difensore di NOME COGNOME hanno concluso chiedendo il rigetto
del ricorso proposto dal Procuratore generale, poiché -come argomentato nella sentenza impugnata -le intercettazioni non potevano essere disposte ab origine in quanto l’unico reato astrattamente ipotizzabile, proprio in virtù del rapporto tra il Comune e le associazioni, da ricondurre alla categoria degli appalti di pubblico servizio, era il delitto di cui al l’art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen., reato per il quale le intercettazioni non erano consentite.
La difesa della parte civile RAGIONE_SOCIALE ha depositato memoria insistendo ‘ in tutte le domande, eccezioni, istanze, ragioni e difese formulate e svolte nell’interesse della SIAE – Società Italiana degli Autori ed Editori – nei precedenti scritti difensiv i’.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria è in parte inammissibile per genericità e in parte va rigettato perché proposto con motivi infondati.
In generale, dalle motivazioni delle due sentenze di merito risulta -con le eccezioni di cui si dirà -l’assoluto e determinante rilievo delle risultanze delle conversazioni intercettate ai fini delle decisioni di condanna (del Tribunale) e di assoluzione (della Corte di appello) per i reati di truffa rispettivamente ascritti ai tredici imputati destinatari del ricorso proposto dal Procuratore generale.
Non è fondata, pertanto, la richiesta avanzata da alcune difese volta a ottenere la declaratoria di inammissibilità del ricorso in quanto privo della specifica indicazione delle intercettazioni rilevanti, poiché esse sono individuabili in quelle utilizzate dal primo Giudice in relazione all’esame dei singoli reati di truffa e ritenute invece inutilizzabili dalla Corte di appello in quanto ab origine non consentite.
Come preannunciato, però, vi sono alcune eccezioni.
La Corte di appello, infatti, ha ampiamente motivato, in contrasto con le argomentazioni del Tribunale, sull’accertata insussistenza de i reati di truffa aggravata, contestati ai capi 5B.4) (pag. 97), 5B.9) (pagg. 107-112), 5B.10) (pagg. 114-118) nonché sulla estraneità degli imputati COGNOME e COGNOME alla truffa aggravata contestata al capo 5B.2) (pagg. 93-94) e ciò ha fatto prescindendo dalla inutilizzabilità delle conversazioni intercettate.
Il ricorso del Procuratore generale non si è in alcun modo confrontato con le specifiche valutazioni della Corte territoriale sui suddetti reati e, quanto al capo
5B.2), sulla posizione degli imputati COGNOME e COGNOME difettando così di specificità estrinseca e risultando, pertanto, in parte qua inammissibile.
L’impugnazione del P.G., infatti, si è focalizzata esclusivamente sull’utilizzo delle intercettazioni, questione ritenuta ‘ cruciale nella vicenda processuale che ci occupa, atteso che le gravi irregolarità sulla rendicontazione trovano spiegazione logica circa le intenzioni truffaldine solo in esito alla valutazione del compendio probatorio derivante dai dialoghi intercettati ‘ (pagg. 4 -5).
Il ricorso, pertanto, è inammissibile quanto alla posizione di COGNOME NOME e COGNOME (in quanto proposto nei loro confronti solo per il reato sub 5B.4), di NOME COGNOME e COGNOME (poiché proposto solo per il reato sub 5B.10) e di COGNOME (in quanto proposto solo per i reati sub 5B.2 e 5B.4).
Seguendo un ordine logico, deve essere trattata per prima la questione inerente alla qualificazione giuridica dei fatti di truffa che il Tribunale ha ritenuto trattarsi di truffe aggravate ai sensi dell’ art. 640bis cod. pen. e che la Corte di appello ha riqualificato in truffe aggravate ex art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen., ritenendo che tutte le truffe contestate non riguardassero «contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee», come richiesto invece dall’ art. 640bis cod. pen. , con una previsione assimilabile, quanto all’oggetto, a quella dell’art. 316 -bis (malversazione di erogazioni pubbliche), anche se la condotta sanzionata da questa ultima disposizione inerisce alla fase esecutiva e non al momento percettivo della erogazione, tant’è che i due reati possono concorrere (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, COGNOME, Rv. 269667 -01).
3.1. La sentenza impugnata ha richiamato la costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale presupposto della condotta sanzionata dall’art. 640bis cod. pen. «è che la prestazione pubblica si sostanzi in sovvenzioni, contributi o finanziamenti, intendendo, sotto le prime due denominazioni le attribuzioni pecuniarie a fondo perduto, di carattere gestorio e sotto la terza denominazione gli atti negoziali che si caratterizzano per l’esistenza di un’onerosità attenuata rispetto a quella derivante dall’applicazione delle ordinarie regole di mercato», dovendo poi «escludersi che la provenienza pubblica delle somme che retribuiscono la prestazione sia da sola sufficiente a ricondurla nell’ambito di quelle erogazioni connotate da onerosità attenuata fino alla gratuità che costituiscono il presupposto delle fattispecie in esame» (Sez. 2, n. 22192 del 09/05/2019, COGNOME, Rv. 277015 -01, proprio in tema di somme erogate a titolo di corrispettivo al soggetto aggiudicatario della gestione del
servizio di accoglienza e trattenimento di migranti richiedenti asilo; in precedenza vds. Sez. 6, n. 3724 del 19/12/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 254432 -01; Sez. 6, n. 10149 del 16/03/2000, Abruzzo, Rv. 217663 -01; Sez. 6, n. 3362 del 28/09/1992, COGNOME, Rv. 193155 -01; da ultimo cfr., in senso esattamente conforme e sempre in relazione a somme di denaro erogate per la gestione dei centri di accoglienza migranti, Sez. 1, n. 24950 del 22/02/2023, COGNOME, Rv. 284829, in motivazione).
Esaminando analiticamente il rapporto fra il Comune di Riace e le associazioni, enti attuatori, in relazione al progetto SPRAR, cui è assimilabile quello MSNA riguardante i minori, la Corte territoriale, sulla base di una serie di indici specificamente rimarcati (pagg. 51-52), ha ritenuto che detto rapporto dovesse essere ‘ricondotto all a figura dell’appalto pubblico di servizi, per effetto dell’obbligo dall’appaltatore di fornire un determinato servizio a fronte di un corrispettivo predeterminato, in accordo con il committente, secondo lo schema del contratto a prestazioni corrispettive, che si pone al di fuori dei concetti di contributi, sovvenzioni, finanziamenti ‘.
Il Procuratore generale non ha contrastato le suddette conclusioni, in fatto e in diritto, ma -come già esposto -ha censurato la decisione qui impugnata per avere trascurato il rapporto iniziale fra Stato (Ministero dell’ Interno) e Comune di Riace, destinatario di contributi per la gestione del servizio di accoglienza e protezione dei richiedenti asilo e rifugiati, nonché il ruolo rivestito da COGNOME sindaco del Comune e nel contempo presidente di fatto di una delle associazioni esecutrici del progetto.
La Corte di appello, invero, ha specularmente escluso che la vicenda di cui si tratta potesse essere esaminata facendo solo riferimento al rapporto, certamente di natura pubblicistica, fra Stato e Comune, avuto particolare riguardo al fatto che ‘i capi di imputazione relativi alle fattispecie di cui all’art. 640bis cod. pen. (anche quella oggetto di riqualificazione di cui al capo 2) fanno tutti riferimento alle somme incassate dalle singole associazioni, in danno, si è ritenuto, dei singoli progetti RAGIONE_SOCIALE CAS ed RAGIONE_SOCIALE ‘ (pag. 53) , come in effetti risulta dalla lettura delle imputazioni sub 2) e 5). Per questa ragione la sentenza di appello ha anche escluso il rilievo della pronuncia richiamata dal Tribunale (pagg. 113117), con la quale il Consiglio di Stato affermò la giurisdizione amministrativa nella controversia con il Comune, relativa alla sospensione del progetto RAGIONE_SOCIALE
3.2. Ritiene il Collegio -in conformità a quanto sostenuto sul punto dal Procuratore generale presso questa Corte -che la doglianza del ricorrente non sia fondata.
Il discrimine fra le due fattispecie di truffa aggravata previste dagli artt. 640, secondo comma, n. 1, e 640bis cod. pen. sta nella natura particolare delle erogazioni, nel senso sopra specificato, indicate nella seconda disposizione, in difetto della quale la truffa risulterà aggravata ai sensi della prima norma.
Si tratta di una valutazione di carattere oggettivo che deve prescindere dal ruolo svolto dai singoli imputati e dalla natura del rapporto fra gli enti pubblici.
L’erogazione di cui si tratta, in sostanza, non può essere compresa fra quelle previste dall’art. 640bis cod. pen. in ragione della natura giuridica della funzione rivestita da alcuni imputati, e solo nei loro confronti, così come non possono classificarsi «contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo», le elargizioni riconosciute, per effetto della natura del rapporto tra Stato e Comune, per poi ‘trasformarsi’ in un finanziamento di diverso tipo nel rapporto fra ente locale ed enti attuatori.
Va ricordato in proposito quanto previsto dal decreto del Ministero dell’ Interno del 10 agosto 2016 (richiamato anche nella richiesta del Pubblico ministero di autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione), che ha disciplinato le modalità di accesso da parte degli enti locali ai finanziamenti del Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell’asilo per la predisposizione dei servizi di accoglienza, dettando anche linee guida per il funzionamento del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), ravvisata anche la necessità di dare maggiore stabilità a progetti avviati dagli enti in base alle disposizioni meno dettagliate contenute nel precedente decreto dello stesso Ministero, emesso il 30 luglio 2013, riguardante il triennio 2014-2016.
Il Fondo era stato istituito presso il Ministero dell’ Interno dall’art. 1 -septies del decreto-legge 30 dicembre 1989, convertito dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, al fine di finanziare le attività e gli interventi di cui all’art. 1 -sexies dello stesso decreto, che contemplava la partecipazione degli enti locali alla prestazione di servizi finalizzati all’accoglienza dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione internazionale o di permesso umanitario nell’ambito dello SPRAR.
Il comma 2 del citato articolo 1sexies prevedeva che il Ministro dell’Interno, con proprio decreto, sentita la Conferenza unificata Stato – città ed autonomie locali, provvedesse annualmente al «sostegno finanziario dei servizi di accoglienza di cui al comma 1, in misura non superiore all’80 per cento del costo complessivo di ogni singola iniziativa territoriale», limite cui si è derogato nel citato d.m. del 10 agosto 2016.
Lo stesso decreto, agli articoli 6 e 21, stabiliva che l’ente locale , per la realizzazione dei servizi di accoglienza, potesse avvalersi di uno o più enti attuatori, il che evidentemente significa che, ove munito di proprie strutture e
risorse umane sufficienti, lo stesso ente avrebbe potuto realizzare direttamente i servizi descritti dalle linee guida, dovendo comunque indicare nel piano finanziario preventivo «un co-finanziamento nella misura minima del 5% del costo complessivo del progetto» (art. 19).
Ne consegue che, anche laddove il Comune di Riace avesse inteso realizzare direttamente i servizi di accoglienza, sostenendo i relativi costi, quella dello Stato, anche se prevista quale «finanziamento» o «contributo» (con indicazione nominalistica evidentemente non vincolante ai fini di una interpretazione dell’ambito di operatività di una norma penale), non era una erogazione avente caratteristiche tali da ricadere nell’alveo dell’art. 640bis cod. pen., alla luce dei criteri, sopra ricordati, evidenziati dalla costante giurisprudenza di legittimità.
Il ricorso del P.G., poi, è del tutto generico per quanto riguarda le somme erogate per il progetto CAS, in relazione al quale la natura convenzionale del rapporto fra Comune di Riace e Prefettura di Reggio Calabria era già stata riconosciuta dal Tribunale (pag. 117).
La sentenza impugnata (pag. 54) ha rimarcato una serie di univoci indicatori della natura del rapporto, desumibili dalle convenzioni fra i due enti, nelle quali, già in premessa, veniva espressamente richiamato lo schema di capitolato d’appalto per la gestione dei centri di primo soccorso.
La Prefettura nella sostanza provvedeva a rimborsare al Comune spese dallo stesso anticipate, ad esito della presentazione di regolari fatture, ed a pagare all’ente ‘corrispettivi’, certamente non rientranti nelle erogazioni del tipo di quelle previste dall’ art. 640bis cod. pen.
4. Rigettato, dunque, il motivo di ricorso relativo alla qualificazione giuridica delle truffe, va ora esaminata la prima doglianza con la quale il Procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria ha censurato la decisione del Giudice di secondo grado di non utilizzare le intercettazioni, nonostante esse fossero state autorizzate e disposte sulla base del corretto presupposto della sussistenza dei gravi indizi del reato ex art. 640bis cod. pen., punito con pena edittale massima di sei anni di reclusione, rientrante dunque nel catalogo dei reati di cui all’art. 266, comma 1, lett. a) , cod. proc. pen. (che fa riferimento ai «delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni»).
Sarebbe irrilevante -secondo la tesi del P.G. -la riqualificazione giuridica effettuata dalla Corte di appello nel reato di cui a ll’art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen., punito con pena edittale massima di cinque anni di reclusione, per il quale le intercettazioni non sono ammissibili.
Neppure questa doglianza, condivisa dal Procuratore generale presso questa Corte, risulta fondata.
4.1. Non sono in contestazione i principi di diritto sul tema di cui si tratta, richiamati non solo nel ricorso del P.G. ma anche nella sentenza impugnata, che possono dirsi consolidati nella giurisprudenza di legittimità.
Già in una risalente pronuncia questa Corte affermò che sono utilizzabili i risultati delle intercettazioni disposte in riferimento a un titolo di reato per il quale le medesime sono consentite, anche quando al fatto venga successivamente attribuita una diversa qualificazione giuridica, con la conseguente mutazione del titolo in quello di un reato per cui non sarebbe stato invece possibile autorizzare le operazioni di intercettazione. Si precisò, però, che, ove gli elementi addotti dal pubblico ministero a sostegno della richiesta di intercettazione siano chiaramente riferibili a una ipotesi di reato non annoverabile nell ‘ elenco dell ‘ art. 266 cod. proc. pen. e ciononostante il giudice abbia ugualmente autorizzato l’attività captativa, sarebbe «certo possibile all ‘ imputato farne questione in ogni successiva fase o grado del procedimento. E se la doglianza è fondata, le intercettazioni dovranno essere dichiarate inutilizzabili; per effetto però non di una mutata ‘ qualificazione giuridica del fatto ‘ ma dell ‘ errore commesso dal giudice al momento del decreto autorizzativo, da apprezzare con valutazione ‘ ora per allora ‘ e tenendo presente che esso deve risultare evidente e incontrovertibile, sulla base degli elementi investigativi, portati illo tempore a conoscenza del giudice e tenuto conto della inevitabile fluidità delle ipotesi criminose in un momento normalmente posto alle prime battute dell ‘ attività investigativa» (così Sez. 6, n. 50072 del 20/10/2009, Bassi, Rv. 245699 -01; in senso conforme Sez. 1, n. 24163 del 19/05/2010, COGNOME, Rv. 247943 -01; Sez. 1, n. 50001 del 27/11/2009, COGNOME, Rv. 245977 -01; Sez. 1, n. 19852 del 20/02/2009, COGNOME, Rv. 243780 -01).
Questo orientamento è stato di recente ribadito e ulteriormente chiarito, essendosi osservato che, in caso di modifica della qualificazione giuridica del fattoreato autorizzato in altro reato non autorizzabile, l’inutilizzabilità delle intercettazioni opera solo se i presupposti per disporre il mezzo di ricerca della prova mancassero già al momento in cui il procedimento autorizzativo si è compiuto e perfezionato attraverso il controllo del giudice. I risultati della captazione correttamente autorizzata restano invece immuni rispetto al successivo sviluppo fisiologico del procedimento, atteso che in tal caso non rileva la sopravvenuta mancanza del presupposto legittimante per effetto della riqualificazione del fatto autorizzato (Sez. 6, n. 48320 del 20/12/2022, n. 48320, COGNOME, Rv. 284078 -01; Sez. 6, n. 36420 del 19/01/2021, COGNOME, Rv.
281989 -01; Sez. 6, n. 23148 del 20/01/2021, COGNOME, Rv. 281501 -01; da ultimo cfr. Sez. 6, n. 46328 del 22/10/2024, Antropoli, non mass.).
Occorre distinguere, dunque, il caso in cui il giudice è tenuto a non autorizzare l’intercettazione, in mancanza di una corrispondenza fra il reato ipotizzato e le risultanze delle indagini, da quello in cui vi è corrispondenza tra quanto si richiede e ciò che emerge dalle indagini in ordine al fatto-reato per cui si procede, ma l’addebito si modifica per motivi sopravvenuti fisiologici, legati cioè alla naturale evoluzione del procedimento che può determinare una modifica del fatto storico e della sua qualificazione giuridica.
In questo modo si scongiurano eventuali abusi, configurabili mediante il ricorso pretestuoso alla descrizione di un fatto-reato autorizzabile al fine di aggirare i limiti legali stabiliti dagli artt. 266 e 267 del codice di rito.
4.2. La sentenza impugnata, richiamando i suddetti principi, ha osservato che nel caso di specie «non si è in presenza di una riqualificazione dipesa dal fisiologico sviluppo processuale, posto che già al momento della richiesta di autorizzazione ex art. 267 cod. proc. pen., ii pubblico ministero faceva riferimento al regime convenzionale intercorrente tra il comune e le associazioni (cfr., r.i.t. in atti), circostanza evidentemente nota già al tempo, e desumibile dalla documentazione allegata oltre che dagli indicatori normativi, come costantemente interpretati» (pagg. 56-57).
Il rilievo della Corte di appello risulta condivisibile, alla luce del tenore della suddetta richiesta di autorizzazione, nella quale i fatti sino a quel momento emersi sono descritti, sia pure sinteticamente, nei medesimi termini di quelli valutati nella sentenza del Tribunale.
Peraltro, nella richiesta del P.M., così come nel decreto del G.i.p., limitatosi nella sostanza a indicare le fonti di prova sino a quel momento acquisite, non è svolta alcuna argomentazione in ordine alla qualificazione giuridica dei fatti, risultando poi , in premessa, un riferimento all’art. 317 cod. pen. (concussione), del quale poi si è persa ogni traccia.
Il ricorso del Procuratore generale è generico sul punto in quanto neppure indica quali fossero gli elementi costitutivi del delitto di truffa aggravata ex art. 640bis cod. pen. poi riqualificati in truffe ex art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen. per effetto di un successivo sviluppo fisiologico del procedimento. L’impugnante si è limitato in argomento ad un richiamo alla richiesta di intercettazioni, che, al di là di un riferimento testuale alla disposizione di cui all’art. 640 -bis cod. pen., nulla aggiunge a titolo di illustrazione dell’assunto.
Tale onere doveva essere assolto in modo rigoroso, considerato che -come risulta dalla sentenza di primo grado (pag. 104) -i fatti di cui al capo 5), in sede
di richiesta di rinvio a giudizio , furono contestati come violazione dell’art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen. e che solo all’udienza del 29 marzo 2021 il Pubblico ministero modificò l’imputazione contestando la violazione dell’art. 640bis cod. pen., fattispecie individuata dal Tribunale per la prima volta in relazione alle condotte indicate nel capo 2) come integranti reati di abuso d’ufficio.
In realtà -come risulta dalle motivazioni delle due sentenze di merito e alla luce anche di quanto osservato nel precedente paragrafo -appare chiaro che la qualificazione giuridica è mutata da quella ipotizzata nel decreto di autorizzazione alle operazioni di intercettazione non per sopravvenuti motivi fisiologici, conseguenti allo sviluppo del dibattimento, bensì per una diversa interpretazione giuridica che ha portato i Giudici di merito a ricondurre i medesimi fatti alle due diverse fattispecie di truffa aggravata.
L’ultima doglianza del Procuratore generale, riguardante l’assoluzione di NOME COGNOME per i reati di falso contestati al capo 6), ad eccezione di quello relativo alla determina n. 57 del 19 settembre 2017, è del tutto generica, difettando di specificità estrinseca.
La Corte di appello, infatti, ha svolto ampie argomentazioni (pagg. 210-226), contrastando le conclusioni del primo Giudice ed esaminando specificamente le varie ipotesi contestate in relazione ai tre diversi progetti, ed è giunta così ad escludere, sotto vari profili (avuto riguardo ai temi del falso innocuo, del falso ideologico cosiddetto valutativo, del carattere implicito e della rilevanza dell’ipotetico mendacio) , la sussistenza del delitto di falso contestato per tutte le determine diverse da quella n. 57 del 2017.
Il ricorrente, con brevi osservazioni (pag. 26), non si è confrontato con le suddette argomentazioni, di fatto obliterandole, ed ha nella sostanza soltanto riportato testualmente (pagg. 26-31) le ragioni della sentenza impugnata poste a fondamento della decisione di condanna per un unico falso, sostenendo una contraddittorietà delle opposte conclusioni (condanna per il falso relativo a una determina e assoluzione per gli altri) in modo apodittico e non emergente comunque dalla lettura della motivazione, che ha logicamente valutato la specificità di quel caso, rimarcando il rilievo decisivo delle risultanze delle operazioni di captazione.
Anche nella parte relativa alla contestata assoluzione per i reati di falso, pertanto, il ricorso del Procuratore Generale risulta inammissibile.
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME va rigettato perché proposto con motivi infondati e, in parte generici.
L ‘impugnazione relativa alla condanna per falso ideologico risulta generica , difettando anch’essa di specificità estrinseca.
La sentenza impugnata ha svolto ampie argomentazioni (pagg. 220-225) a sostegno della ritenuta sussistenza, sia sotto il profilo oggettivo sia sotto il profilo soggettivo, del falso ideologico inerente alla determina n. 57 del 19 settembre 2017, contenente l ‘ attestazione di conformità ai criteri indicati dalla Prefettura, ritenuta ideologicamente falsa alla luce soprattutto del contenuto del dialogo (oggetto di una intercettazione ambientale del 13 settembre 2017, dopo una delle ultime visite dei funzionari preposti e prima della presentazione del rendiconto CAS per il secondo semestre 2016), intervenuto tra NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME in cui vi è un chiaro riferimento -nella interpretazione della Corte di appello -alla manipolazione del rendiconto, nella parte relativa al costo del carburante , con l’intervento e la chiara consapevolezza del Sindaco del Comune di Riace.
Il ricorso non si è confrontato con tali valutazioni ed ha riproposto argomentazioni già svolte in appello, riguardanti tutti i reati di falso, senza specifico riferimento all ‘unic a determina per la quale vi è stata condanna.
Sono privi di fondamento il secondo e il terzo motivo con i quali il ricorrente ha censurato la decisione con cui la Corte di appello, dichiarando non doversi procedere nei suoi confronti per essere il reato ex art. 480 cod. pen. estinto per prescrizione, ha confermato le statuizioni civili del Tribunale.
8.1. In primo luogo, la difesa ha riproposto la doglianza relativa all’indebito utilizzo, nel caso di specie, delle modalità di firma previste per gli atti e documenti amministrativi delle pubbliche amministrazioni, emessi con sistemi informatici o telematici, dall’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 12 febbraio 1993, n. 39, secondo il quale la firma autografa «è sostituita dall’indicazione a stampa, sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del soggetto responsabile».
Secondo la giurisprudenza civile di legittimità, in materia di formazione degli atti amministrativi informatici, la suddetta norma -diversamente da quanto opinato dal ricorrente -ha una formulazione della massima ampiezza, cosicché le relative disposizioni sono applicabili a tutti i provvedimenti dei quali sia effettivamente configurabile una formazione con tecniche informatiche automatizzate, cioè quando il tenore del provvedimento dipende da precisi presupposti di fatto e non sussiste l’esercizio di un potere discrezionale (Sez. 5 civ., n. 12302 del 17/05/2017, Rv. 644142 -01; Sez. 6 -2 civ., n. 9815 del
13/05/2015, Rv. 635247 -01; Sez. L, n. 15448 del 15/10/2003, Rv. 567464 -01), circostanza ravvisabile nel caso di specie, riguardante l’attestazione di un dato di fatto costituito dallo svolgimento di concerti estivi nell’anno 2015.
Come ritenuto dai giudici di merito, la certificazione è tutt’altro che inesistente ed è certamente attribuibile a NOME COGNOME
8.2. La Corte territoriale, poi, accertato che l’attestazione ivi contenuta era falsa, circostanza nota all’imputato , e che quindi non sussistevano le condizioni per un’assoluzione nel merito, ha dichiarato estinto il reato per prescrizione, applicando correttamente il principio affermato da ultimo dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo il quale, nel giudizio di appello avverso la sentenza di condanna dell ‘ imputato anche al risarcimento dei danni, il giudice, intervenuta nelle more l’estinzione del reato per prescrizione, non può limitarsi a prendere atto della causa estintiva, adottando le conseguenti statuizioni civili fondate sui criteri enunciati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 182 del 2021, ma è tenuto comunque, stante la presenza della parte civile, a valutare, anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, la sussistenza dei presupposti per l ‘ assoluzione nel merito (Sez. U, n. 36208 del 28/03/2024, COGNOME, Rv. 266880 -01).
La Corte di appello ha poi confermato la statuizione civile con la quale il Tribunale aveva condannato Lucano al pagamento in favore della RAGIONE_SOCIALE della somma di € 7.686,98, oltre interessi legali, corrispondente a quella indicata nel preventivo di spesa inoltrato dalla stessa società al Comune di Riace, con riguardo alle manifestazioni estive che quell’anno si erano effettivamente tenute.
Senza confrontarsi con questo dato la difesa ha sostenuto apoditticamente che ‘i fatti emersi dall’istruzione dibattimentale non appaiono produttivi di danno civilisticamente rilevante’.
La difesa della RAGIONE_SOCIALE nelle proprie conclusioni, non ha chiesto la condanna di NOME COGNOME alla rifusione delle spese sostenute in questo grado, domanda necessaria perché si possa procedere alla liquidazione, a differenza della presentazione della nota prevista dall’art. 153 disp. att. cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 19271 del 05/04/2022, COGNOME, Rv. 283379 -01; Sez. 4, n. 2311 del 05/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274957 -01; Sez. 3, n. 31865 del 17/03/2016, COGNOME, Rv. 267666 -01).
Sono infondati, infine, anche gli ultimi tre motivi riguardanti il trattamento sanzionatorio (in senso lato).
9.1. Il motivo inerente all’omesso riconoscimento dell’attenuante ex art. 62, primo comma, n. 1, cod. pen. richiama la motivazione della Corte di appello a
supporto del riconoscimento delle attenuanti generiche ( ‘…il collegio ritiene che la personalità dell’appellante , il contesto in cui ha sempre operato, caratterizzato da un continuo afflusso di migranti, l’assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto, l’indiscutibile intento solidaristico, gli sforzi per portare avanti la propria idea di accoglienza siano indicatori meritevoli di considerazione, per adeguare il trattamento sanzionatorio in senso a lui più favorevole ‘ -pag. 283), ma non si confronta con le precedenti specifiche argomentazioni, in fatto e in diritto, in ragione delle quali la stessa Corte non ha riconosciuto l’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale , evidentemente riferibile soltanto al reato di falso per il quale vi è stata condanna.
In particolare, la Corte ha osservato che non era ‘ certo con la sottoscrizione della determina -che serviva a distribuire le somme provenienti dalla prefettura -che COGNOME NOME si prefigurava di rimuovere una situazione immorale o antisociale, mirando egli, in termini immediati, ad evitare che venissero effettuate delle decurtazioni ‘.
Si tratta di una motivazione immune dai vizi denunciati nel ricorso, peraltro cumulativamente, in contrasto con il principio ribadito di recente dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo il quale «i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione. Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risulta priva della necessaria specificità» (Sez. U, n. 24591 del 16/07/2020, COGNOME non mass. sul punto; nello stesso senso, da ultimo, vds. Sez. 4, n. 8294 del 01/02/2024, COGNOME, Rv. 285870 -01).
9.2. Diversamente da quanto dedotto dalla difesa, la motivazione sul giudizio di comparazione fra circostanze , previsto dall’art. 69 cod. pen., non è assente, in quanto la Corte di appello ha considerato i criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e ogni altro dato significativo rispetto alla valutazione della adeguatezza della pena nel caso concreto, sulla base dei quali ha espresso un giudizio di equivalenza (pag. 286).
Secondo il diritto vivente, «le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che, per giustificare la soluzione dell’equivalenza, si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto» (così Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017, COGNOME
Rv. 270450 -01; in precedenza, nel medesimo senso cfr. Sez. U, n. 10713 del 25/2/2010, COGNOME, Rv. 245931 -01; da ultimo vds. Sez. 5, n. 4333 del 27/11/2024, dep. 2025, COGNOME, non mass.).
9.3. Immune da vizi, cumulativamente denunciati anche in questo caso, è la motivazione relativa alla entità della pena, determinata dalla Corte di merito in un anno e sei mesi di reclusione, vale a dire in misura prossima al minimo edittale di un anno previsto per l’ipotesi base di falso ideologico (artt. 476 e 479 cod. pen.), assai lontana dal massimo (sei anni di reclusione).
La motivazione sul punto è specifica (pagg. 285-286) e il ricorrente sollecita l’esercizio di poteri preclusi a questa Corte, dato che la graduazione del trattamento sanzionatorio rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, che lo esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen., cosicché nel giudizio di cassazione è inammissibile la censura che miri a una rivalutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, COGNOME, Rv. 276288 -01; Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243 -01; Sez. 3, n. 6877 del 26/10/2016, dep. 2017, S., Rv. 269196 -01; Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259142 -01).
La motivazione non è mancante neppure in ordine al l’omesso riconoscimento del beneficio della non menzione della condanna, rimesso all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito e fondato sul principio dell’emenda, mediante cui si tende a favorire il processo di recupero morale e sociale.
Il giudizio sulla concedibilità del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale è subordinato esclusivamente alla valutazione delle circostanze di cui all’art. 133 cod. pen. (di recente vds. Sez. 3, n. 24362 del 22/02/2023, COGNOME, Rv. 284669 -01) e ad esse ha fatto espresso riferimento la sentenza impugnata (pag. 288).
Al rigetto del ricorso proposto da NOME COGNOME segue, ai sensi d ell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso del P.G. con riferimento ai capi 5B.4), 5B.9), 5B.10), 6) nonché al capo 5B.2), limitatamente alle posizioni di COGNOME Fernando e COGNOME GiuseppeCOGNOME Rigetta nel resto il ricorso del P.G.
Rigetta il ricorso di COGNOME NOME che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 12/02/2025.