Apologia di Terrorismo: Quando Condividere un Link Diventa Reato
La recente ordinanza della Corte di Cassazione, n. 26748/2024, offre chiarimenti cruciali sul reato di apologia di terrorismo nell’era digitale. La Suprema Corte ha stabilito che la semplice condivisione di link a materiale propagandistico su social network è sufficiente per configurare il reato, anche senza l’aggiunta di commenti personali. Analizziamo questa importante decisione.
I fatti: la propaganda jihadista su un social network
Il caso trae origine dal ricorso di un individuo condannato nei gradi di merito per il reato previsto dall’art. 414, commi 3 e 4, del codice penale. L’imputato era stato accusato di aver ripetutamente condiviso sulla propria pagina di un noto social network diversi video dal contenuto terroristico. Tali video erano chiaramente finalizzati all’esaltazione dello Stato Islamico (Isis) e alla promozione della “guerra santa”. L’obiettivo di queste condivisioni era raggiungere altri utenti per svolgere un’intensa opera di proselitismo.
La decisione della Corte sul reato di apologia di terrorismo
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la condanna. I giudici hanno respinto entrambi i motivi di ricorso presentati dalla difesa.
Il primo motivo: la configurabilità del reato
La difesa sosteneva che la mera condivisione di link, senza la pubblicazione autonoma del materiale o l’aggiunta di commenti di approvazione, non potesse integrare il reato di apologia. La Corte ha rigettato questa tesi, ritenendola manifestamente infondata.
Il secondo motivo: l’identificazione dell’autore
Il secondo motivo di ricorso contestava le modalità di identificazione dell’imputato come effettivo utilizzatore del profilo social. Anche questo punto è stato ritenuto infondato, poiché l’identificazione si basava su prove solide e non su mere presunzioni.
Le motivazioni
La Corte ha fornito una motivazione chiara e congrua per la sua decisione. Secondo i giudici, la condotta di chi condivide su un social network link a materiale di propaganda “jihadista” integra pienamente il reato di apologia di terrorismo. Questo perché, potenziando la diffusione di tale materiale, se ne accresce la pericolosità. Il pericolo non è solo quello di emulazione di atti di violenza, ma anche quello di favorire l’adesione, in forme aperte e fluide, all’associazione terroristica che propugna tali idee.
La sentenza ha sottolineato che tale condotta è di per sé idonea a suscitare consensi e, quindi, a provocare il pericolo concreto di aumentare il numero di adepti all’associazione. Non è necessaria un’esplicita manifestazione di adesione da parte di chi condivide; l’atto stesso della condivisione è sufficiente. Per quanto riguarda l’identificazione, la Corte ha validato l’operato della polizia giudiziaria, che si è basata non solo sulla comparazione fotografica tra le immagini del profilo e il volto dell’imputato, ma soprattutto sull’individuazione dell’indirizzo IP utilizzato per caricare uno dei video. Tale indirizzo IP è stato attribuito con certezza a un’utenza mobile, intestata al figlio dell’imputato ma di fatto in uso a quest’ultimo.
Le conclusioni
Questa ordinanza ribadisce un principio fondamentale nella lotta al terrorismo online: nell’ecosistema dei social media, anche un’azione apparentemente semplice come la condivisione di un link può avere conseguenze penali molto gravi. La decisione chiarisce che il reato di apologia non richiede necessariamente un’elaborazione personale del contenuto o un commento di approvazione. La volontà di amplificare il messaggio propagandistico, insita nell’atto della condivisione, è sufficiente a creare quel pericolo concreto che la norma intende punire. La sentenza serve da monito sulla responsabilità individuale nell’utilizzo delle piattaforme digitali, evidenziando come la “viralità” dei contenuti possa trasformare gli utenti in veicoli, anche inconsapevoli, di messaggi criminali.
La semplice condivisione di un link a materiale terroristico su un social network è reato?
Sì, la Corte di Cassazione ha confermato che la condotta di chi condivide su un social network un link a materiale di propaganda “jihadista” integra il reato di apologia di terrorismo, poiché potenzia la diffusione del materiale e accresce il pericolo di emulazione e adesione all’associazione terroristica.
È necessario aggiungere un commento di approvazione per essere condannati per apologia?
No, non è necessario. Secondo la Corte, la condotta di condivisione è di per sé idonea a suscitare consensi e a provocare il pericolo di incrementare il numero di adepti, a prescindere da commenti adesivi espliciti da parte di chi condivide il contenuto.
Come è stato possibile identificare con certezza l’autore dei post?
L’identificazione si è basata su più elementi. Oltre alla comparazione tra le foto postate e quelle dell’imputato, è stata decisiva l’individuazione dell’indirizzo IP utilizzato per pubblicare uno dei video. Questo IP è stato attribuito con sicurezza a un’utenza mobile di fatto in uso all’imputato, anche se intestata a suo figlio.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 26748 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 26748 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 20/06/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 20/10/2023 della CORTE APPELLO di LECCE
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Visti gli atti.
Esaminati il ricorso e la sentenza impugnata.
Rilevato che entrambi i motivi dedotti da NOME non superano il vaglio di ammissibilità.
1.2. Il primo motivo è infondato in modo manifesto, tenuto conto della congrua motivazione data dai giudici del merito circa la configurabilità del contestato reato di cui all’art. 414, commi 3 e 4, cod. pen. E’ sufficiente al riguardo ricordare che integra il reato di apologia riguardante delitti di terrorismo la condotta di chi condivide su “social network” (nella specie “Twitter” e “Whatsapp”) “link” a materiale “jihadista” di propaganda, senza pubblicarli in via autonoma, in quanto, potenziando la diffusione di detto materiale, accresce il pericolo, non solo di emulazione di atti di violenza, ma anche di adesione, in forme aperte e fluide, all’associazione terroristica che li propugna. (Sez. 1, n. 51654 del 09/10/2018, NOME COGNOME, Rv. 274985 – 03). Nella specie è risultato accertato che l’imputato aveva ripetutamente inserito nella piattaforma Facebook più video dall’incontestato contenuto terroristico perché funzionali all’esaltazione dello Stato islamico, Isis, e alla guerra santa allo scopo di condividerli con gli altr utenti e, quindi, svolgere intensa opera di proselitismo. Tale condotta, a prescindere dall’esternazione da parte del divulgatore di commenti adesivi è di per sé idonea a suscitare consensi quindi a provocare il pericolo concreto di incrementare il numero degli adepti all’associazione.
1.2. Il secondo motivo è versato in fatto ed è anch’esso manifestamente infondato.
La sentenza impugnata, lungi dal far ricorso a presunzioni non rispettose della regola di giudizio di cui all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. ha identificato in NOME l’utilizzatore del profilo Facebook in cui era diffuso il materiale apologetico considerando attendibile l’attività di polizia giudiziaria, che risulta fondata non solo sulla comparazione tra le foto postate e quelle con l’effigie di NOME ma soprattutto sull’individuazione del numero IP utilizzato postare uno dei video e sulla sicura attribuzione di tale numero all’utenza mobile, intestata al figlio all’odierno imputato ma di fatto in uso a quest’ultimo.
Ritenuto che, pertanto, deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa
di inammissibilità, al versamento della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, in Roma 20 giugno 2024.