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Apologia di terrorismo: condividere link è reato

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un uomo condannato per apologia di terrorismo. La condotta consisteva nella condivisione ripetuta di video di propaganda jihadista su un social network. Secondo la Corte, tale condivisione, anche senza commenti espliciti, è idonea a incrementare il proselitismo e costituisce reato. L’identificazione dell’imputato è stata confermata sulla base di prove concrete come l’indirizzo IP e l’uso effettivo di un’utenza mobile.

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Pubblicato il 2 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Apologia di Terrorismo: Quando Condividere un Link Diventa Reato

La recente ordinanza della Corte di Cassazione, n. 26748/2024, offre chiarimenti cruciali sul reato di apologia di terrorismo nell’era digitale. La Suprema Corte ha stabilito che la semplice condivisione di link a materiale propagandistico su social network è sufficiente per configurare il reato, anche senza l’aggiunta di commenti personali. Analizziamo questa importante decisione.

I fatti: la propaganda jihadista su un social network

Il caso trae origine dal ricorso di un individuo condannato nei gradi di merito per il reato previsto dall’art. 414, commi 3 e 4, del codice penale. L’imputato era stato accusato di aver ripetutamente condiviso sulla propria pagina di un noto social network diversi video dal contenuto terroristico. Tali video erano chiaramente finalizzati all’esaltazione dello Stato Islamico (Isis) e alla promozione della “guerra santa”. L’obiettivo di queste condivisioni era raggiungere altri utenti per svolgere un’intensa opera di proselitismo.

La decisione della Corte sul reato di apologia di terrorismo

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la condanna. I giudici hanno respinto entrambi i motivi di ricorso presentati dalla difesa.

Il primo motivo: la configurabilità del reato

La difesa sosteneva che la mera condivisione di link, senza la pubblicazione autonoma del materiale o l’aggiunta di commenti di approvazione, non potesse integrare il reato di apologia. La Corte ha rigettato questa tesi, ritenendola manifestamente infondata.

Il secondo motivo: l’identificazione dell’autore

Il secondo motivo di ricorso contestava le modalità di identificazione dell’imputato come effettivo utilizzatore del profilo social. Anche questo punto è stato ritenuto infondato, poiché l’identificazione si basava su prove solide e non su mere presunzioni.

Le motivazioni

La Corte ha fornito una motivazione chiara e congrua per la sua decisione. Secondo i giudici, la condotta di chi condivide su un social network link a materiale di propaganda “jihadista” integra pienamente il reato di apologia di terrorismo. Questo perché, potenziando la diffusione di tale materiale, se ne accresce la pericolosità. Il pericolo non è solo quello di emulazione di atti di violenza, ma anche quello di favorire l’adesione, in forme aperte e fluide, all’associazione terroristica che propugna tali idee.

La sentenza ha sottolineato che tale condotta è di per sé idonea a suscitare consensi e, quindi, a provocare il pericolo concreto di aumentare il numero di adepti all’associazione. Non è necessaria un’esplicita manifestazione di adesione da parte di chi condivide; l’atto stesso della condivisione è sufficiente. Per quanto riguarda l’identificazione, la Corte ha validato l’operato della polizia giudiziaria, che si è basata non solo sulla comparazione fotografica tra le immagini del profilo e il volto dell’imputato, ma soprattutto sull’individuazione dell’indirizzo IP utilizzato per caricare uno dei video. Tale indirizzo IP è stato attribuito con certezza a un’utenza mobile, intestata al figlio dell’imputato ma di fatto in uso a quest’ultimo.

Le conclusioni

Questa ordinanza ribadisce un principio fondamentale nella lotta al terrorismo online: nell’ecosistema dei social media, anche un’azione apparentemente semplice come la condivisione di un link può avere conseguenze penali molto gravi. La decisione chiarisce che il reato di apologia non richiede necessariamente un’elaborazione personale del contenuto o un commento di approvazione. La volontà di amplificare il messaggio propagandistico, insita nell’atto della condivisione, è sufficiente a creare quel pericolo concreto che la norma intende punire. La sentenza serve da monito sulla responsabilità individuale nell’utilizzo delle piattaforme digitali, evidenziando come la “viralità” dei contenuti possa trasformare gli utenti in veicoli, anche inconsapevoli, di messaggi criminali.

La semplice condivisione di un link a materiale terroristico su un social network è reato?
Sì, la Corte di Cassazione ha confermato che la condotta di chi condivide su un social network un link a materiale di propaganda “jihadista” integra il reato di apologia di terrorismo, poiché potenzia la diffusione del materiale e accresce il pericolo di emulazione e adesione all’associazione terroristica.

È necessario aggiungere un commento di approvazione per essere condannati per apologia?
No, non è necessario. Secondo la Corte, la condotta di condivisione è di per sé idonea a suscitare consensi e a provocare il pericolo di incrementare il numero di adepti, a prescindere da commenti adesivi espliciti da parte di chi condivide il contenuto.

Come è stato possibile identificare con certezza l’autore dei post?
L’identificazione si è basata su più elementi. Oltre alla comparazione tra le foto postate e quelle dell’imputato, è stata decisiva l’individuazione dell’indirizzo IP utilizzato per pubblicare uno dei video. Questo IP è stato attribuito con sicurezza a un’utenza mobile di fatto in uso all’imputato, anche se intestata a suo figlio.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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