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Animus necandi: tentato omicidio, non legittima difesa

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un imputato condannato per tentato omicidio. La sentenza conferma che l’animus necandi (intento di uccidere) è dimostrato dall’azione combinata con un complice, dall’uso di armi letali, dal numero di colpi e dal fatto di aver continuato a infierire sulla vittima già a terra e disarmata, escludendo così ogni ipotesi di legittima difesa.

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Pubblicato il 17 agosto 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Animus Necandi: Quando un’Aggressione Diventa Tentato Omicidio

In ambito penale, la linea di confine tra lesioni gravi e tentato omicidio è spesso sottile e dipende da un elemento cruciale: l’animus necandi, ovvero l’intento di uccidere. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n. 12746/2019) offre un chiaro esempio di come i giudici valutino le circostanze di un’aggressione per determinare la presenza di tale volontà omicida, respingendo le tesi difensive basate sulla legittima difesa o sull’eccesso colposo.

I Fatti del Caso

La vicenda riguarda una violenta aggressione avvenuta la sera del 13 marzo 2014. La vittima si era recata sotto l’abitazione di uno degli aggressori per restituire una somma di denaro. Qui, è stata affrontata da due persone: una armata di un coltello da caccia e l’altra con il manico di legno di una piccozza. La vittima è stata colpita ripetutamente, ricevendo una coltellata al fianco sinistro che l’ha fatta cadere a terra. Nonostante fosse inerme e sanguinante, gli aggressori hanno continuato a infierire, colpendola alla testa. L’aggressione è cessata solo grazie all’intervento di alcuni passanti che hanno urlato: «lo state ammazzando».

Le Tesi Difensive e l’Animus Necandi

L’imputato, condannato in primo e secondo grado, ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo diverse tesi. In primo luogo, ha invocato la legittima difesa (reale o putativa), affermando di essere intervenuto per difendere l’amico da un’aggressione della vittima e di essere stato a sua volta attaccato. In subordine, ha richiesto il riconoscimento dell’eccesso colposo in legittima difesa e la derubricazione del reato in lesioni volontarie, negando la sussistenza dell’animus necandi.
Secondo la difesa, i giudici di merito avrebbero travisato le prove, in particolare le dichiarazioni di un testimone, e non avrebbero considerato che l’imputato sarebbe intervenuto disarmato, agendo solo per reazione.

La Decisione della Corte: Gli Indici Rivelatori dell’Animus Necandi

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando in toto la valutazione dei giudici di merito. La Suprema Corte ha sottolineato come la ricostruzione dei fatti fosse solida e basata su prove concordanti, incluse le testimonianze oculari che smentivano la versione della difesa.
I giudici hanno escluso categoricamente la legittima difesa, evidenziando che l’aggressione era proseguita con ferocia anche quando la vittima era a terra, disarmata e non più in grado di rappresentare una minaccia.

Le Motivazioni

La motivazione della Corte si concentra sull’individuazione di una serie di elementi oggettivi, considerati chiari indicatori dell’animus necandi. Questi elementi, valutati nel loro complesso, dimostravano una volontà omicida e non un semplice intento di ledere. In particolare, i giudici hanno dato rilievo a:
1. L’azione combinata: L’attacco è stato condotto da due persone in modo coordinato, aumentando la capacità offensiva.
2. La natura delle armi: L’uso di un coltello da caccia con una lama di ventidue centimetri e di un robusto manico di legno è stato ritenuto intrinsecamente idoneo a causare la morte.
3. Le zone del corpo colpite: I colpi sono stati diretti verso distretti vitali, come il fianco e la testa.
4. La persistenza dell’azione: L’aggressione non si è fermata neanche dopo che la vittima era stata neutralizzata e giaceva a terra, indifesa. Questo comportamento è stato interpretato come una chiara volontà di portare a termine un proposito criminoso.
La Corte ha specificato che l’imputato, partecipando attivamente all’aggressione mentre il complice brandiva un coltello, non poteva non rappresentarsi la progressione criminale degli eventi e il comune proposito omicida.

Le Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale: l’animus necandi non deve essere necessariamente provato con una confessione, ma può essere desunto logicamente da una serie di indicatori fattuali e dal contesto complessivo dell’azione. Quando un’aggressione è sproporzionata, condotta con armi letali, diretta a zone vitali e prosegue su una vittima inerme, la tesi della legittima difesa diventa insostenibile. La decisione evidenzia l’importanza di una valutazione globale delle prove, che non può essere scalfita da ricostruzioni alternative e frammentarie proposte dalla difesa, se queste si rivelano illogiche o smentite dai fatti accertati.

Come si stabilisce l’esistenza dell’animus necandi (intento di uccidere) in un tentato omicidio?
Secondo la sentenza, l’animus necandi viene desunto da una serie di indicatori oggettivi valutati nel loro complesso. Tra questi vi sono: il numero dei colpi inferti, l’azione combinata di più aggressori, il tipo di strumento utilizzato (nel caso di specie, un coltello con lama di 22 cm), i distretti vitali del corpo raggiunti (fianco e testa) e la prosecuzione dell’aggressione anche quando la vittima era già a terra e inoffensiva.

Perché la Corte ha escluso la legittima difesa in questo caso?
La Corte ha escluso la legittima difesa perché le prove, incluse le testimonianze oculari, hanno dimostrato che l’aggressione è continuata con brutalità anche dopo che la vittima era stata disarmata, ferita e si trovava a terra. In tale condizione, la vittima non rappresentava più un pericolo attuale, facendo venir meno il presupposto fondamentale della necessità di difesa.

Qual è la differenza tra tentato omicidio e lesioni volontarie secondo la sentenza?
La differenza risiede nell’elemento soggettivo, ovvero l’intento dell’aggressore. Mentre nelle lesioni volontarie l’intento è quello di ferire (animus laedendi), nel tentato omicidio è quello di uccidere (animus necandi). La Corte ha qualificato il fatto come tentato omicidio basandosi sulla convergenza di elementi (armi usate, zone colpite, persistenza dell’azione) che univocamente indicavano la volontà di causare la morte della vittima, e non solo di procurarle delle ferite.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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