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Animus necandi: tentato omicidio e prove decisive

Un individuo condannato per tentato omicidio ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo la mancanza di ‘animus necandi’ (intenzione di uccidere). La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando che l’intento omicida era stato correttamente dedotto da elementi oggettivi quali la pericolosità dell’arma (una pistola), la reiterazione dei colpi e la loro direzione verso la persona, ritenendo irrilevante la mancata esecuzione di un ‘colpo di grazia’.

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Pubblicato il 30 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Animus Necandi: Come si Prova l’Intenzione di Uccidere?

L’accertamento dell’animus necandi, ovvero dell’intenzione di uccidere, rappresenta uno degli snodi più complessi nel processo penale per tentato omicidio. Distinguere tra la volontà di ferire e quella di togliere la vita è fondamentale per la corretta qualificazione giuridica del fatto. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 5237/2024) offre chiarimenti cruciali su quali elementi oggettivi i giudici debbano valorizzare per provare tale intenzione, anche quando manchi l’atto finale.

I Fatti del Caso: Dall’Appello alla Cassazione

Il caso trae origine dalla condanna di un individuo per il reato di tentato omicidio, decisione confermata dalla Corte d’Appello di Firenze. L’imputato ha presentato ricorso per Cassazione, basando la sua difesa su un unico, articolato motivo: l’errata valutazione da parte dei giudici di merito dell’elemento psicologico del reato.

Secondo la difesa, non vi era prova sufficiente dell’animus necandi. L’argomento principale a sostegno di questa tesi era che l’aggressore, pur avendone la possibilità, non aveva inferto alla vittima il cosiddetto “colpo di grazia”, un gesto che avrebbe dimostrato in modo inequivocabile la sua volontà omicida. La difesa chiedeva, pertanto, di riqualificare il reato da tentato omicidio a quello meno grave di lesioni volontarie.

La Decisione della Corte: Ricorso Inammissibile

La Settima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile. I giudici supremi hanno ritenuto che le argomentazioni della difesa fossero semplici “censure reiterative”, ovvero una ripetizione di motivi già adeguatamente esaminati e respinti dalla Corte d’Appello. Il ricorso è stato giudicato “a-specifico”, in quanto non offriva una prospettiva alternativa credibile e fondata, limitandosi a proporre una diversa interpretazione delle prove già valutate.

Di conseguenza, l’imputato è stato condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.

Le Motivazioni: L’Analisi dell’Animus Necandi

Il cuore della decisione risiede nelle motivazioni con cui la Corte ha confermato la correttezza del ragionamento dei giudici di merito. La Cassazione ha ribadito che l’animus necandi può e deve essere desunto da una serie di elementi fattuali e oggettivi, la cui valutazione complessiva permette di ricostruire l’intenzione dell’agente. Nel caso specifico, sono stati ritenuti determinanti:

1. La Pericolosità dell’Arma: L’utilizzo di una pistola, un’arma con un’elevata potenzialità letale, è un primo, forte indicatore della possibile intenzione di uccidere.
2. La Reiterazione dei Colpi: Il fatto che siano stati esplosi più colpi dimostra una persistenza nell’azione aggressiva che va oltre la semplice volontà di ferire o intimidire.
3. La Direzione dei Colpi: I proiettili sono stati indirizzati “ad altezza uomo”, ovvero verso parti vitali del corpo. Questo elemento è stato considerato cruciale per dimostrare che l’azione era intrinsecamente idonea a provocare la morte.

La Corte ha specificato che la mancata esecuzione di un “colpo di grazia” non è, di per sé, un elemento sufficiente a escludere l’intento omicida. L’animus necandi si valuta al momento dell’azione e non in base a ciò che l’aggressore avrebbe potuto fare successivamente.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

Questa ordinanza consolida un principio fondamentale in materia di tentato omicidio: la prova dell’intenzione di uccidere si basa su un’analisi logica e complessiva del contesto e delle modalità dell’azione. Non è necessario un “atto finale” inequivocabile per dimostrare l’animus necandi. Elementi come il tipo di arma, il numero di colpi e la zona del corpo attinta sono sufficienti a fondare una condanna per tentato omicidio, a condizione che il ragionamento del giudice sia logico, coerente e basato su prove concrete. La decisione sottolinea inoltre l’inammissibilità dei ricorsi in Cassazione che si limitano a riproporre le stesse argomentazioni già respinte, senza evidenziare vizi logici o giuridici nella sentenza impugnata.

Che cos’è l’animus necandi e come viene provato secondo la Cassazione?
L’animus necandi è l’intenzione di uccidere, cioè l’elemento psicologico del reato di omicidio. Secondo la Corte, esso viene provato attraverso l’analisi di elementi oggettivi e fattuali, come la pericolosità dell’arma utilizzata (una pistola), la reiterazione dell’azione (più colpi esplosi) e la direzione dei colpi verso zone vitali del corpo.

L’assenza del ‘colpo di grazia’ è sufficiente per escludere il tentato omicidio?
No. La Corte ha chiarito che la mancata esecuzione di un colpo finale per assicurare la morte della vittima non è un elemento decisivo per escludere l’animus necandi. L’intenzione omicida va valutata sulla base della condotta tenuta durante l’aggressione, non su ciò che l’aggressore ha omesso di fare dopo.

Per quale motivo il ricorso dell’imputato è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché le argomentazioni della difesa erano una mera ripetizione di quelle già presentate e respinte dalla Corte d’Appello. Inoltre, il ricorso è stato ritenuto ‘a-specifico’, in quanto non contestava in modo puntuale le conclusioni logiche dei giudici di merito, ma si limitava a proporre una diversa e non supportata lettura delle prove.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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