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Animus necandi: prova e tentato omicidio

La Corte di Cassazione annulla un’ordinanza di custodia cautelare per tentato omicidio, evidenziando la mancanza di prove sufficienti a dimostrare l’animus necandi (l’intento di uccidere). Il caso riguardava un’aggressione armata, inizialmente pianificata come una ‘gambizzazione’, che secondo i giudici di merito si era trasformata in un tentato omicidio. La Suprema Corte ha ritenuto il ragionamento del tribunale troppo ‘assertivo’ e la ricostruzione dei fatti imprecisa, rinviando per un nuovo esame.

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Pubblicato il 21 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Animus Necandi: Come la Cassazione Distingue tra Lesioni e Tentato Omicidio

Quando un’aggressione armata si trasforma da un atto intimidatorio a un tentato omicidio? La risposta risiede nella prova rigorosa dell’animus necandi, ovvero l’intenzione di uccidere. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sent. N. 17692/2025) offre un’analisi cruciale su questo tema, annullando una misura cautelare per la mancanza di una motivazione solida e di una ricostruzione fattuale precisa. Vediamo nel dettaglio il caso e i principi affermati dalla Suprema Corte.

I Fatti di Causa: Dall’Incarico di “Gambizzare” all’Accusa di Tentato Omicidio

Il caso ha origine da un’ordinanza del Tribunale di Lecce che, in sede di riesame, aveva disposto la custodia cautelare in carcere per un individuo accusato di tentato omicidio aggravato dal metodo mafioso e di porto illegale di armi.

Secondo la ricostruzione, l’indagato aveva dato l’incarico di ‘gambizzare’ un membro di un clan rivale. L’agguato era effettivamente avvenuto: la vittima era stata colpita da diversi proiettili alla gamba e alla mano. Tuttavia, la vicenda non si era conclusa lì. Mentre la vittima cercava di risalire in auto, erano stati esplosi ulteriori colpi che avevano raggiunto la parte inferiore della portiera e frantumato il finestrino del lato guida.

La Valutazione del Tribunale del Riesame: Un Mutamento del Proposito Criminale

Il Tribunale del Riesame, riformando la decisione del giudice di primo grado, aveva ritenuto che l’intento iniziale di ferire si fosse trasformato, nel corso dell’azione, in un vero e proprio animus necandi. Questa conclusione si basava su due presupposti: primo, che l’indagato non fosse solo il mandante ma anche uno degli esecutori materiali dell’agguato; secondo, che i colpi finali, diretti verso l’abitacolo, dimostrassero inequivocabilmente la volontà di uccidere, forse scatenata da un tentativo della vittima di chiedere aiuto.

L’Analisi della Cassazione sull’Animus Necandi

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’imputato, censurando profondamente il ragionamento del Tribunale. La critica principale riguarda la mancanza di rigore probatorio e la natura ‘assertiva’ delle conclusioni.

L’Assertività della Prova

La Suprema Corte ha definito ‘totalmente assertiva’ l’affermazione secondo cui l’imputato fosse presente sul luogo del delitto. Questa conclusione era stata desunta unicamente dall’assenza di intercettazioni che provassero l’ingaggio di un secondo sicario. Per la Cassazione, si tratta di un salto logico inaccettabile: l’assenza di una prova non può essere usata per creare un’altra prova.

L’Imprecisione nella Ricostruzione della Dinamica

Il punto focale della decisione riguarda la valutazione dell’animus necandi. La Corte ha sottolineato che, per distinguere tra lesioni aggravate e tentato omicidio, è essenziale una ricostruzione dettagliata e precisa della traiettoria dei colpi. Il Tribunale si era limitato a indicare che gli ultimi colpi avevano attinto la portiera e il finestrino, senza specificarne con la dovuta chiarezza l’altezza, la direzione e il punto d’impatto. Questa omissione è cruciale: un colpo diretto al centro del finestrino ha un significato ben diverso da uno sparato verso l’alto o il basso. Senza questa precisione, desumere l’intento omicida diventa una mera supposizione.

Il Movente del Presunto Mutamento d’Intento

Infine, la Cassazione ha ritenuto ‘scarsamente comprensibile’ la motivazione addotta per il cambio di proposito criminale, attribuito a un presunto tentativo della vittima di chiedere aiuto. Questa spiegazione è stata giudicata troppo improvvisa e assertiva per giustificare il passaggio da un’intenzione di ferire a una di uccidere.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte ha stabilito che per fondare un’accusa di tentato omicidio, e in particolare per affermare un mutamento del dolo durante l’esecuzione del reato, è necessario uno sforzo motivazionale rigoroso. Le conclusioni non possono basarsi su inferenze prive di un solido ancoraggio fattuale. La ricostruzione della dinamica dell’evento deve essere scrupolosa, perché da essa dipende la qualificazione giuridica del fatto e, di conseguenza, la libertà personale dell’indagato. Pur ritenendo inammissibili i motivi di ricorso relativi all’aggravante mafiosa e al porto d’armi (affermando che per il concorso non è necessaria la detenzione materiale dell’arma), la Corte ha annullato l’ordinanza per quanto riguarda l’accusa più grave.

Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio fondamentale dello stato di diritto: la necessità di una prova certa e di una motivazione logica e coerente, specialmente in materia di misure cautelari. L’animus necandi non può essere presunto sulla base di ricostruzioni imprecise o di deduzioni assertive. Il provvedimento è stato annullato con rinvio al Tribunale di Lecce, che dovrà procedere a un nuovo giudizio, questa volta scrutando i fatti con il ‘dovuto rigore’ richiesto per un’accusa così grave come quella di tentato omicidio.

Quando un’aggressione armata si qualifica come tentato omicidio e non come lesioni aggravate?
Secondo la sentenza, si qualifica come tentato omicidio solo quando esiste una prova rigorosa e precisa dell’animus necandi (l’intenzione di uccidere). La mera esplosione di colpi d’arma da fuoco non è sufficiente; è necessario analizzare dettagliatamente la loro direzione e la zona corporea attinta per dimostrare che l’azione era idonea e diretta in modo non equivoco a causare la morte.

Per essere accusati di concorso in porto e detenzione di armi è necessario averle materialmente possedute?
No. La Corte chiarisce che, ai fini del concorso nel reato di detenzione e porto di armi, non è necessario il rapporto materiale con l’arma. Anche il mandante, ovvero colui che ordina il delitto, può essere ritenuto concorrente nel reato pur non avendo mai toccato l’arma utilizzata dagli esecutori materiali.

Cosa significa che la motivazione di un provvedimento giudiziario è ‘assertiva’ e perché è un difetto?
Significa che il ragionamento del giudice si basa su affermazioni non supportate da prove concrete o da una solida deduzione logica. È un difetto grave perché le decisioni giudiziarie, specialmente quelle che limitano la libertà personale, devono fondarsi su fatti accertati e su un percorso argomentativo coerente e verificabile, non su mere supposizioni o salti logici.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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