Amministratore di fatto e reati fiscali: quando il ricorso in Cassazione è inammissibile
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione affronta il tema della responsabilità penale dell’amministratore di fatto nell’ambito dei reati fiscali, chiarendo i limiti di ammissibilità del ricorso per la revisione di una condanna. La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile l’impugnazione di un imprenditore, confermando la sua condanna per l’emissione e l’utilizzo di fatture false. Questa decisione offre importanti spunti sulla prova del ruolo di gestore occulto e sui criteri per la concessione delle attenuanti generiche.
Il caso: la doppia contestazione e il ricorso
Il caso trae origine dalla condanna di un imprenditore per diversi reati fiscali. In particolare, gli veniva contestato di aver emesso fatture per operazioni inesistenti e di averle successivamente utilizzate nella dichiarazione fiscale della società che, di fatto, amministrava. Nonostante la società avesse un amministratore formalmente nominato, le indagini, basate su testimonianze e accertamenti bancari, avevano dimostrato che l’imputato era il vero dominus, l’amministratore di fatto con pieni poteri gestionali, inclusa la delega sui conti correnti.
L’imprenditore ha presentato ricorso in Cassazione, articolando la sua difesa su quattro punti principali:
1. Contestazione sulla prova della falsità delle operazioni fatturate.
2. Errata applicazione della legge penale, sostenendo che non potesse essere condannato sia per l’emissione che per l’utilizzo delle medesime fatture.
3. Insufficienza delle prove sul suo ruolo di amministratore di fatto.
4. Mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
La decisione della Cassazione sull’amministratore di fatto
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, dichiarandolo inammissibile in ogni suo punto. I giudici hanno ritenuto che i primi tre motivi fossero mere riproposizioni di censure già esaminate e correttamente respinte dalla Corte d’Appello, basate su una richiesta di rivalutazione dei fatti, attività preclusa in sede di legittimità.
La doppia responsabilità penale
Sul punto più tecnico, la Corte ha chiarito un principio giuridico fondamentale. Quando un soggetto, agendo come amministratore di fatto, emette una fattura falsa e poi la utilizza per la dichiarazione fiscale della società che gestisce, commette due reati distinti e concorrenti: quello di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8, D.Lgs. 74/2000) e quello di dichiarazione fraudolenta (art. 2, D.Lgs. 74/2000). Questo perché l’agente cumula in sé la qualità di emittente e di amministratore della società beneficiaria della frode, rendendo inapplicabile la clausola di esclusione prevista per il mero concorso di persone nel reato.
Il diniego delle attenuanti generiche
Anche il motivo relativo alle attenuanti generiche è stato giudicato inammissibile per genericità. La Suprema Corte ha ricordato che la concessione di tali attenuanti non è un diritto automatico derivante dall’assenza di elementi negativi (come precedenti penali, che peraltro nel caso di specie esistevano). Al contrario, spetta all’imputato fornire al giudice elementi di segno positivo, meritevoli di considerazione, che possano giustificare una riduzione della pena. In assenza di tali elementi, il diniego è legittimo.
Le motivazioni
Le motivazioni della Corte si fondano su un principio cardine del giudizio di Cassazione: il divieto di una nuova valutazione del merito della vicenda. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché le censure sollevate erano ‘in punto di fatto’ e ‘riproduttive di profili già adeguatamente vagliati’. La Corte ha sottolineato che la falsità delle operazioni era stata provata da una ‘serie di elementi’ e che il ruolo di amministratore di fatto era emerso chiaramente dalla deposizione del commercialista e dagli accertamenti bancari. La decisione riafferma che il compito della Cassazione non è riesaminare le prove, ma verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione della sentenza impugnata. Per quanto riguarda le attenuanti, la Corte ha applicato un orientamento consolidato, secondo cui il beneficio richiede una ‘valorizzazione’ di elementi positivi, che nel caso in esame non erano stati neppure indicati dal ricorrente.
Le conclusioni
L’ordinanza in esame è un’importante conferma di diversi principi giuridici. In primo luogo, ribadisce la solidità della figura dell’amministratore di fatto nel diritto penale tributario, la cui responsabilità può essere provata con ogni mezzo, incluse testimonianze e movimentazioni bancarie. In secondo luogo, consolida l’interpretazione giurisprudenziale sulla doppia punibilità per chi emette e utilizza fatture false gestendo di fatto l’entità beneficiaria. Infine, serve da monito per la redazione dei ricorsi in Cassazione: le censure devono evidenziare vizi di legittimità (violazioni di legge o difetti di motivazione) e non possono limitarsi a contestare l’apprezzamento dei fatti operato dai giudici di merito. La decisione si conclude con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria, a causa dell’evidente inammissibilità del ricorso.
Chi è l’amministratore di fatto e come viene provato il suo ruolo in un processo?
L’amministratore di fatto è colui che, pur senza un incarico formale, gestisce in concreto un’impresa. Secondo l’ordinanza, il suo ruolo può essere provato attraverso vari elementi, come la testimonianza di professionisti (ad esempio, il commercialista della società) e gli esiti di accertamenti bancari che dimostrano la sua facoltà di operare sui conti sociali.
Se un amministratore di fatto emette una fattura falsa per la società che gestisce, commette uno o due reati?
Secondo la Corte, commette due reati distinti. L’imputato risponde sia del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8, D.Lgs. 74/2000) sia di quello di dichiarazione fraudolenta mediante uso delle stesse fatture (art. 2, D.Lgs. 74/2000), poiché cumula la qualifica di emittente e di gestore della società utilizzatrice.
Per quale motivo la Corte di Cassazione può negare la concessione delle attenuanti generiche?
La Corte può negare le attenuanti generiche quando il ricorrente non fornisce alcun elemento positivo concreto e valutabile che giustifichi una riduzione della pena. La semplice assenza di elementi negativi non è sufficiente per ottenere il beneficio, essendo necessaria una dimostrazione attiva di circostanze meritevoli.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 37060 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 37060 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 31/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME NOME a CROTONE il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 05/11/2024 della CORTE APPELLO di TRIESTE
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
Rilevato che i primi tre motivi del ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME, deducono il vizio di motivazione in relazione all’affermazione della penale responsabilità, so inammissibili perché deducono censure in punto di fatto, peraltro riproduttive di profi censura già adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dalla Cort merito, la quale ribadito: 1) in relazione al capo A), che la falsità delle operazioni di fattura in contestazione è desumibile da una serie di elementi, che sono puntualmente indicat a p. 8 della sentenza impugnata; 2) in riferimento al capo B), che non trova applicazione l’ 9 d.lgs. n. 74 del 2000, nel caso in cui, come nella specie, l’agente cumula in sé le quali emittente e di amministratore di fatto della società utilizzatrice della autofattura men configurandosi in tal caso sia il delitto di cui all’art. 8 che quello di cui all’art. 2 del (cfr. Sez. 3, n. 2859 del 30/11/2022, dep. 2023, Dentice, Rv. 284067 – 01); 3) con riguardo capo D), che l’imputato è risultato essere amministratore di fatto della società in questio beneficiaria della fattura oggettivamente falsa e utilizzata nella propria dichiarazione fi anche sotto la formale amministrazione di NOME COGNOME, come provato dalla deposizione del commercialista e dagli esiti degli accertamenti bancari, da cui è emerso che l’COGNOME esercitav la delega sui conti della società nel 2014 e nel 2015;
considerato che il quarto motivo, che denuncia il vizio di motivazione in relazione al dini delle circostanze attenuanti generiche, è inammissibile per genericità, perché, p prescindendo dell’esistenza di un precedente penale, la Corte di merito non ha ravvisato alcun elemento valorizzabile a tale scopo – peraltro nemmeno indicato dal ricorrente -, in c facendo buon governo del principio, giusto il quale l’applicazione delle circostanze in esa non costituisce un diritto conseguente all’assenza di elementi negativi connotanti la personali del soggetto, ma richiede elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva diniego di concessione delle stesse (Sez. 3, n. 24128 del 18/03/2021, COGNOME Crescenzo, Rv. 281590);
stante l’inammissibilità del ricorso e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisan assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 18 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, di 3.000 euro in favore della Cassa delle ammende
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processual e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 31 ottobre 2025.