Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 33672 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 33672 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a FORTE DEI MARMI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 12/09/2023 della CORTE APPELLO di TRIESTE visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha chiesto rigettarsi il ricorso, riportandosi alla memoria depositata; udito l’AVV_NOTAIO nell’interesse del ricorrente, che ha illustrato i motivi di ricorso e ne ha chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Trieste, con la sentenza emessa il 12 settembre 2023, riformava quella del Tribunale di Pordenone limitatamente al delitto di bancarotta semplice ex artt. 217, comma primo n. 4), e 224 I. fall. per aggravamento del dissesto per non aver richiesto la dichiarazione di fallimento, delitto estinto a seguito di prescrizione, confermando nel resto la prima decisione – anche quanto alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione, oltre pene fallimentari accessorie per la durata di anni due – che aveva accertato la
responsabilità di NOME COGNOME in ordine ai delitti di bancarotta societaria fraudolenta distrattiva e documentale di tipo specifico.
In particolare, ai fini della migliore comprensione dei motivi di ricorso, vanno richiamate le condotte per le quali è stata ritenuta la responsabilità del COGNOME, che veniva chiamato a rispondere quale amministratore di fatto dalla costituzione, intervenuta nel 2005, oltre che quale procuratore AVV_NOTAIO dal 6 maggio 2008, fino al fallimento – essendone l’amministratrice formale il coniuge NOME COGNOME, dalla costituzione sino al 6 maggio 2008, la cui posizione veniva altrimenti trattata – della società RAGIONE_SOCIALE dichiarata fallita con sentenza emessa dal Tribunale di Pordenone in data 16 maggio 2012.
A COGNOME e al coniuge in concorso venivano contestate le condotte fraudolente distrattive, contrassegnate dai seguenti numeri, nell’ambito dell’unico capo di imputazione, aventi ad oggetto i seguenti beni: 1) i beni mobili della società fallita che risultavano iscritti nel bilancio al 31 dicembre 2007 costituiti da arredi d’ufficio, litografie, apparati telefonici e macchine elettroniche il cui valore era indicato in bilancio in euro 39.334,00; 2) una somma di denaro pari a euro 96.000,00 in data 11 marzo 2008, attraverso l’acquisto presso RAGIONE_SOCIALE di San Zeno Naviglio di un’autovettura di importo corrispondente, che veniva intestata alla COGNOME, il cui prezzo di acquisto veniva saldato con due assegni di importo pari a euro 20.000 e euro 76.000 tratti dai conti correnti della fallita presso la Banca Nazionale del Lavoro e presso la Banca Popolare di Sondrio, fatti commessi tra il 5 e il 10 Marzo 2008; 3) una somma pari a euro 20.000, corrispondente al valore di due assegni circolari di importo pari a euro 10.000 ciascuno, intestati a RAGIONE_SOCIALE e ricevuti da RAGIONE_SOCIALE, quale parziale corrispettivo per la cessione a quest’ultima di immobili: gli assegni venivano versati sul conto corrente personale intestato alla COGNOME, fatti commessi tra il 20 e il 23 febbraio 2009; 4) una somma pari a euro 19.200,00, attraverso l’emissione di due assegni in data 22 febbraio 2008 e 17 marzo 2008 a favore della società RAGIONE_SOCIALE, operante nel commercio di autoveicoli: a tali pagamenti non corrispondeva l’acquisto di alcun veicolo intestato alla RAGIONE_SOCIALE; 5) una somma pari a euro 88.000,00 attraverso l’emissione di 17 assegni circolari intestati alla COGNOME, con provvista tratta sul conto corrente della fallita, con il seguente ordine: euro 10.000 in data 25/01/2008; euro 20.000 in data 28/02/2008; euro 20.000 in data 14/03/2008; euro 20.000 in data 18/03/2008; euro 18.000 in data 21/05/2008; 7) beni immobili della fallita attraverso un atto di vendita in data 6 maggio 2008 con il quale la fallita vendeva a RAGIONE_SOCIALE, amministrata all’epoca dallo stesso NOME COGNOME, un fabbricato ubicato in Genova, per il corrispettivo di euro 600.000,00, senza mai incassare detto corrispettivo dalla acquirente; 8) beni immobili della fallita, ceduti attraverso un atto di vendita in data 22 ottobre 2010 nel quale COGNOME compariva quale Corte di Cassazione – copia non ufficiale
procuratore AVV_NOTAIO della società, col quale la fallita vendeva a RAGIONE_SOCIALE amministrata all’epoca dallo stesso COGNOME, un terreno edificabile ubicato in Comune di Casella per il corrispettivo di euro 200.000,00, prezzo che veniva pagato solo in parte, ossia nella misura di euro 50.000,00, mentre i rimanenti euro 150.000 non venivano mai versati; 9) una somma pari a euro 87.500,00, attraverso le seguenti due operazioni bancarie: COGNOME effettuava in data 17 giugno 2008 un bonifico a proprio favore con fondi tratti dal conto corrente intestato alla fallita, per euro 350.000,00; in data 22 settembre 2008 la somma veniva restituita solo parzialmente, attraverso l’escussione da parte della banca di un pegno su polizza intestata allo stesso COGNOME per euro 262.432,02; 10) una somma pari a euro 5.003,24 in data 1 luglio 2008, emettendo un assegno a favore di RAGIONE_SOCIALE in Roma, senza apparente giustificazione economica per la fallita.
Oltre a tali condotte distrattive, al n. 6) della imputazione veniva contestata la bancarotta documentale di tipo specifico, consistente nell’occultamento e/o nella distruzione nella loro interezza dei libri e delle altre scritture contabili, dal costituzione fino alla data del fallimento, rendendo impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.
Tali condotte venivano aggravante dalla contestazione della pluralità dei fatti di bancarotta e dall’aver cagioNOME un danno patrimoniale di rilevante gravità, risultando anche contestata la recidiva reiterata all’attuale ricorrente.
Il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di quattordici motivi di ricorso, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il primo e il secondo motivo deducono violazione di legge e vizio di motivazione, in ordine alle condotte distrattive indicate ai nn. 1, 2, 3, 4, 5, 9, e 10, quanto al difetto dell’elemento oggettivo e soggettivo.
Rappresenta il ricorrente come gli importi siano esigui e non particolarmente significativi, come è per il caso della condotta al n. 10), ovvero dei beni mobili del n. 1) stimati al 31 dicembre 2007.
Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe valutato per un verso l’esiguità degli stessi, anche in relazione al dolo della bancarotta, che richiede comunque la consapevolezza della destinazione diversa rispetto a quella societaria e il pericolo per il ceto creditorio, ovviamente non pronosticabile se le condotte sono di molto antecedenti rispetto al fallimento, come ritenuto da Sez. 5, n. 47787 del 2022, n.m.
Nel caso in esame le condotte richiamate risultano essere datate 2008 e vanno fino al febbraio 2009 e al più potrebbero integrare, escluso il dolo della bancarotta distrattiva, la condotta della bancarotta preferenziale, dal che l’intervenuta estinzione per prescrizione delle condotte.
Il terzo e quarto motivo deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla qualità di amministratore di fatto di COGNOME.
Per un verso la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere ‘illegali’ tutte le condotte dell’amministratore di fatto, per altro non avrebbe motivato in ordine alla qualità contestata anche prima del 6 maggio 2008, data del rilascio della procura AVV_NOTAIO (nn. 1, 2, e 4).
Il quinto motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla condotta distrattiva dei beni mobili della fallita (n. 1). La Corte di appell avrebbe errato nel ritenere la distrazione di tali beni, risultanti dal bilancio al 3 dicembre 2007, in quanto il curatore non aveva esplicitamente dichiarato di non aver rinvenuto il libro dei cespiti, che il consulente di parte rinveniva aggiorNOME alla data del 31 dicembre 2007.
In sostanza, il punto di partenza del ragionamento inferenziale della Corte risulterebbe smentito dal rinvenimento del libro menzioNOME.
In secondo luogo, alcuna valutazione viene effettuata quanto alla perdita di valore dei beni, che sono suscettibili di ammortamento, e che il consulente del ricorrente già rilevava essere obsoleti alla data della dichiarazione del fallimento, tanto da risultare il valore pari a zero.
Inoltre, la Corte di appello, senza motivazione, avrebbe disatteso la richiesta di rinnovazione istruttoria, per questa come per le altre distrazioni, di una perizia ricostruttivo-contabile.
Il sesto motivo di ricorso lamenta vizio di motivazione, in ordine alle distrazioni indicate ai nn. 2, 3, 4, e 5, in quanto la Corte territoriale – a fronte della censura di appello che lamentava l’omessa valutazione del contributo del consulente della difesa da parte del Tribunale – effettuava una propria rivalutazione, partendo da una premessa errata: che il consulente di parte avesse utilizzato lo stesso materiale di indagine valutato dal consulente del pubblico ministero. Tale identità non risponde al vero, cosicché l’elaborato del consulente di parte risulterebbe aver condotto a risultati differenti, non approfonditi dalla Corte di appello, che pertanto ha omesso di verificare i versamenti effettuati da COGNOME in favore della società nella misura di 41mila euro.
La sentenza impugnata sarebbe anche viziata da travisamento, ove valuti i motivo di appello, relativo al tema in esame, inerente solo ai movimenti antecedenti al 6 maggio 2008, mentre ve ne sono anche di successivi.
Il settimo e l’ottavo motivo lamentano vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla distrazione contestata al n. 9, relativa alla somma di euro 87.500, pari alla differenza fra il bonifico di euro 350.000,00 dalla società a COGNOME in data 17 giugno 2008, con recupero in data 22 settembre 2008 della somma, restituita parzialmente, attraverso l’escussione da parte della banca di un pegno su polizza intestata allo stesso COGNOME per euro 262.432,02.
Il ricorrente critica la sentenza impugnata, che ha escluso che si verta in tema di finanziamento soci, rilevando che le garanzie predisposte dal socio in favore della società costituiscano finanziamenti e, nel caso di specie, l’opzione della contestazione per differenza conferma la qualità di finanziamento.
In tal modo, secondo il ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe valutato che COGNOME e la moglie abbiano finanziato la società per oltre 686mi1a euro a fronte di prelievi per 464mi1a euro. In sostanza vi sarebbe un saldo attivo che dovrebbe determinare la riqualificazione da bancarotta distrattiva a preferenziale. In subordine il ricorrente chiede annullarsi la sentenza per consentire la rinnovazione istruttoria.
Il nono e decimo motivo lamentano violazione di legge e vizio di motivazione relativamente alla bancarotta documentale contestata al n. 6 , non offrendo una adeguata motivazione quanto al dolo specifico richiesto, a fronte della indicazione della ubicazione delle scritture, reperibili, né la responsabilità per la sottrazione può essere attribuita a COGNOME che, dopo che mutò l’amministratore di diritto, ebbe il conferimento della procura AVV_NOTAIO, in quanto i relativi doveri di tenuta spettavano al solo amministratore di diritto.
Da ciò la richiesta, in via subordinata, di riqualificare il delitto in bancarott documentale semplice.
9,1 motivi undicesimo e dodicesimo lamentano violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alle distrazioni indicate ai nn. 7 e 8, relative alle cessioni di immobili dalla NOME alla RAGIONE_SOCIALE, rispetto alle quali la Corte di appello non ha valutato le cinque dichiarazioni rese in sede di indagini difensive, che chiarivano come RAGIONE_SOCIALE non fosse riconducibile a COGNOME ma ai fratelli COGNOME, subentranti nella NOME, nell’ambito di una più ampia operazione di salvataggio della NOME, con il che dovrebbe configurarsi l’ipotesi di bancarotta semplice, risultando insufficiente sul punto il corredo motivazionale.
Il tredicesimo e quattordicesimo motivo lamentano l’eccessività della pena inflitta e la mancata concessione della circostanza attenuante del risarcimento. In particolare, la pena risulterebbe rimasta immutata, pur avendo la Corte di appello dichiarato l’estinzione del delitto contestato al n. 11.
Il ricorso è stato trattato con l’intervento delle parti, ai sensi dell’art. 2 comma 8, d.l. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell’art. 7, comma 1, dl. n. 105 del 2021, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall’art. 94 del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall’art. 5-duodecies d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla I. 30 dicembre 2022, n. 199, nonché entro il 30 giugno 2024 ai sensi dell’art. 11, comma 7, del dl. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito in legge 23 febbraio 2024, n. 18.
Il Pubblico ministero, nella persona del AVV_NOTAIO, si è riportata alla memoria depositata, chiedendo il rigetto del ricorso e, in particolare, osservando come i primi due motivi siano reiterativi di doglianze relative al nesso causale e al dolo che hanno già trovato adeguata risposta nella sentenza impugnata; quanto al terzo e quarto motivo sono doglianze generiche e manifestamente infondate perché non si confrontano con il certo ruolo di amministratore di fatto dell’imputato, tratto anche dalla procura AVV_NOTAIO a lui rilasciata, non oggetto di motivo di appello, con rispetto dei principi in tema di amministrazione di fatto; il quinto motivo è in parte inedito e in parte manifestamente infondato; il sesto motivo non è consentito perché versato in fatto; il settimo e l’ottavo sono manifestamente infondati a fronte di congrua motivazione della Corte di appello, anche sulla distinzione fra bancarotta distrattiva e preferenziale; i motivi nono e decimo sono infondati, in quanto non si rapportano alla ritenuta bancarotta documentale generica, che non richiede il dolo specifico ma, appunto generico; i motivi undici e dodici sono reiterativi di quelli di appello, manifestamente infondati e generici i motivi tredici e quattordici, in quanto la Corte ha chiarito che alcuna riduzione doveva operarsi per l’estinzione per prescrizione del reato contestato al n. 11, a seguito del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche prevalente sulla aggravante dei plurimi fatti di bancarotta.
Il difensore del ricorrente, AVV_NOTAIO NOME COGNOME, unico difensore a seguito della rinuncia dell’AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, ha illustrato i motivi di ricorso e ne ha chiesto l’accoglimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è complessivamente infondato.
Quanto al primo e al secondo motivo di ricorso, gli stessi riguardano le condotte di cui ai nn. 2, 3, 4, 5, 9, e 10, che, per quanto indicato nella sentenza impugnata appaiono inediti quanto alla esiguità del valore delle distrazioni e quindi del dolo di bancarotta.
Deve rilevarsi come le doglianze siano sotto tale profilo inedite, in quanto, non risultano essere state previamente dedotte come motivo di appello secondo quanto è prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 606 comma 3 cod. proc. pen., come si evince dal riepilogo dei motivi di gravame riportato nella sentenza impugnata, che l’odierno ricorrente avrebbe dovuto contestare specificamente nell’odierno ricorso, se incompleto o comunque non corretto (unico riferimento al motivo di appello indicato in sentenza al par. 2.2. non contiene e le attuali doglianze, diversamente da quella per il n. 1), che viene proposta come motivo di appello – par. 2.4. – e trova rispondenza nel quinto motivo del presente ricorso, che a seguire verrà trattato).
Va quindi premesso che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «deve ritenersi sistematicamente non consentita (non soltanto per le violazioni di legge, per le quali cfr. espressamente art. 606, comma 3, c.p.p.) la proponibilità per la prima volta in sede di legittimità, con riferimento ad un capo e ad un punto della decisione già oggetto di appello, di uno dei possibili vizi della motivazione con riferimento ad elementi fattuali richiamabili, ma non richiamati, nell’atto di appello: solo in tal modo è, infatti, possibile porre rimedio al rischio concreto che il giudice di legittimità possa disporre un annullamento del provvedimento impugNOME in relazione ad un punto della decisione in ipotesi inficiato dalla mancata/contraddittoria/manifestamente illogica considerazione di elementi idonei a fondare il dedotto vizio di motivazione, ma intenzionalmente sottratti alla cognizione del giudice di appello. Ricorrendo tale situazione, invero, da un lato il giudice della legittimità sarebbe indebitamente chiamato ad operare valutazioni di natura fattuale funzionalmente devolute alla competenza del giudice d’appello, dall’altro, sarebbe facilmente diagnosticabile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della sentenza d’appello con riguardo al punto della decisione oggetto di appello, in riferimento ad elementi fattuali che in quella sede non avevano costituito oggetto della richiesta di verifica giurisdizionale rivolta alla Corte appello, ma siano stati richiamati solo ex post a fondamento del ricorso per
cassazione» (così Sez. 2, n. 32780 del 13/07/2021 , COGNOME, Rv. 281813; Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, COGNOME, Rv. 276062, in motivazione; in senso conforme, ex plurinnis, v. Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, COGNOME, Rv. 280306; Sez. 3, n. 27256 del 23/07/2020, COGNOME, Rv. 279903; Sez. 3, n. 57116 del 29/09/2017, COGNOME., Rv. 271869; Sez. 2 2, n. 29707 del 08/03/2017, COGNOME, Rv. 270316; Sez. 2, n. 8890 del 31/01/2017, COGNOME, Rv. 269368).
Ad ogni buon conto, la dedotta esiguità va contestualizzata nell’insieme dei prelievi che nell’arco di poco più di un anno appaiono tutt’altro che esigui, come di fatto valutato da parte della Corte di appello, seppur implicitamente a fronte dell’inesistenza della specifica doglianza.
Anche in ordine al profilo relativo al nesso di causalità e al dolo, come anche al fattore cronologico che sullo stesso può incidere, va premesso che in modo congruo la Corte territoriale ha ritenuto la rilevanza penale delle condotte distrattive in esame, in quanto, come rileva la Procura AVV_NOTAIO, è sufficiente richiamare il principio affermato da Sez. U COGNOME (Sez. U., n. 22474 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266804 – 01), secondo il quale ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l’agente abbia cagioNOME il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività.
In motivazione le Sezioni Unite hanno precisato che i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilievo ‘in qualsiasi momento siano stati commessi’ e, quindi, anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza.
Per altro, nel caso in esame il dato cronologico non si caratterizza per una distanza oltremodo significativa, in quanto la dichiarazione di fallimento interveniva nel maggio 2012, a fronte di condotte distrattive fino al febbraio 2009, tra quelle oggetto dei presenti motivi, ma le distrazioni proseguivano, come dimostrano gli altri episodi del n. 8, fino all’ ottobre 2010.
Pertanto, anche il richiamo alla sentenza n. 47787 del 2022 di questa Sezione della Corte, risulta del tutto «fuori fuoco», in quanto il riferimento alla minima entità delle distrazioni (in quel caso la distrazione ammontava a 10mila euro, importo non comparabile con quelli oggetto delle attuali distrazioni complessivamente valutate), o all’epoca di realizzazione della condotta (che in vero non emerge dalla sentenza richiamata dalla difesa), risultano elementi da valorizzarsi per verificare – non certamente per escludere in una sorta di automatismo – la consapevolezza dell’agente di ledere concretamente la consistenza patrimoniale della società, mettendo in pericolo la garanzia per i creditori.
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E’ di tutta evidenza che il caso in esame, caratterizzato dal ruolo dell’imput di amministratore di fatto, per tutta la vita della società NOME, si connota per risultanze fattuali ben diverse e ben più pregnanti.
Pur a fronte di una doglianza relativa al dolo, comunque, la Corte di appello fa buon governo del principio per cui il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo (ex multis Sez. 5, n. 11633 del 8 febbraio 2012, COGNOME Stronati, rv. 252307), nel senso che, essendo l’oggetto della tutela identificabile nell’interesse dei creditori all’integrità dei mezzi di garanzia, l’art. 2 I. fall. prende in considerazione non solo la sua effettiva lesione dovuta al cagionamento di un danno al ceto creditorio – che non è elemento costitutivo della fattispecie tipizzata – bensì anche il pericolo conseguente alla mera possibilità che questo si verifichi.
Pertanto, sul versante dell’elemento soggettivo del reato, il dolo necessario per la configurabilità della bancarotta patrimoniale è quello generico, integrato dalla volontà di distaccare il bene oggetto di distrazione dal patrimonio della fallita nella prevedibilità del pericolo che tale operazione può determinare per gli interessi dei creditori. In altri termini è sufficiente che la condotta di colui che pone in o concorre nell’attività distrattiva sia assistita dalla consapevolezza che le operazioni che si compiono sul patrimonio sociale siano idonee a cagionare un danno ai creditori, senza che sia necessaria l’intenzione di causarlo o che la finalità di determinarlo colori il dolo del reato come specifico (Sez. 5, n. 9807 del 13 febbraio 2006, COGNOME ed altri, rv. 234232).
Tale ultimo principio è stato confermato autorevolmente: l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016 – dep. 2016, COGNOME e altro, rv. 26680501), circostanza nel caso in esame evidente, per la destinazione personale delle risorse drenate dal patrimonio sociale in favore del ricorrente e della moglie, oltre che di terzi, in modo così ingente e ripetuto da costituire un ‘sistema’ di depauperamento della società fallita.
Tanto più che l’ipotesi della bancarotta preferenziale non è, con i motivi in esame, specificamente argomentata, a fronte di una chiara e corretta esclusione della Corte di appello, ai foll. 13 e ss. della sentenza impugnata.
Ne consegue l’infondatezza dei motivi di ricorso
Anche infondati sono il terzo e quarto motivo, che non si confrontano con le argomentazioni della sentenza di primo grado ribadite dalla pronuncia impugnata.
Al fai. 4 della sentenza della Corte territoriale vengono elencati gli elementi di prova dai quali il Tribunale ha tratto, con conferma in secondo grado, senza aporie logiche, la certezza che COGNOME svolse le funzioni di amministratore di fatto: e ciò non solo quando amministratrice di diritto era la moglie, ma anche dopo che amministratrice della NOME divenne la COGNOME. Difatti, appena quattro giorni dopo la nomina di costei, fu rilasciata proprio a COGNOME una procura AVV_NOTAIO dettagliatamente riportata e analizzata dalla Corte di appello, alla quale si accompagnavano elementi concreti attestanti l’effettività dell’esercizio di tali poteri. Aver continuato a gestire i conti correnti della società, eseguendo un bonifico a proprio favore per 350mila euro; a interloquire con il commercialista; a possedere un furgone della società fino al 2012; a utilizzare una carta di credito aziendale per fini personali; provvedendo a vendere i due immobili della RAGIONE_SOCIALE alla RAGIONE_SOCIALE.
Se dunque è vero che in tema di bancarotta fraudolenta, la qualifica di amministratore di fatto di una società non può trarsi solo dal conferimento di una procura AVV_NOTAIO “ad negotia”, ma occorrono prove significative e concludenti dello svolgimento delle funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività imprenditoriale, anche a mezzo dell’attivazione dei poteri conferiti con la procura stessa (Sez. 5, n. 4865 del 25/11/2021, dep. 2022, COGNOME, rv. 282775 – 01) nel caso in esame la Corte territoriale individua l’esercizio di poteri in concreto.
Quindi la Corte di appello fa buon governo dei principi in materia: secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione, infatti, la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 cod. civ., postula l’esercizio i modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione; nondimeno, significatività e continuità non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale. Ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare – il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità,
ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino, Rv. 256534). Tali elementi vengono enucleati senza manifeste illogicità.
Per altro congruamente la Corte di appello chiarisce che, anche nel periodo di amministrazione di diritto della COGNOME, ciò non impediva il ruolo di fatto di COGNOME, in quanto in tema di reati fallimentari, la previsione di cui all’art. 2639 cod. ci non esclude che l’esercizio dei poteri o delle funzioni dell’amministratore di fatto possa verificarsi in concomitanza con l’esplicazione dell’attività di altri soggetti di diritto, i quali – in tempi successivi o anche contemporaneamente – esercitino in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzion (Sez. 5, n. 12912 del 06/02/2020, COGNOME, Rv. 279040 – 01).
Quanto alla circostanza che la Corte territoriale non abbia motivato in ordine alla qualità di amministratore di fatto fino al 6 maggio 2008, tralascia il ricorrente di considerare che il motivo di appello metteva in dubbio tale qualità solo nel periodo successivo a tale data, non anche in relazione a quello precedente, cosicchè correttamente la Corte di appello non ha dato risposta a una censura inesistente (cfr. fol. 3 e 4 dell’atto di appello) che, riproposta ora, risulta inedi per l’esposto principio
Ne consegue la complessiva infondatezza dei motivi.
4. Il quinto motivo risulta del tutto generico.
A ben vedere, come rileva la Procura AVV_NOTAIO e la stessa Corte territoriale, il motivo di appello si limitava a lamentare il valore esiguo dei beni mobili.
La doglianza ora in esame è in parte inedita, oltre che non decisiva: a ben vedere rinvenuto o meno il libro dei cespiti, non è mai contestata l’esistenza dei beni nel patrimonio aziendale. La affermazione di responsabilità dell’imputato si fonda sulla preesistenza dei beni nel patrimonio aziendale – per la quale sarebbe stato rilevante il ritrovamento del libro dei cespiti se ne avesse negata l’esistenza – e sulla circostanza che i beni non siano stati rinvenuti e non ne sia stata indicata la destinazione, come rileva la Corte di appello in sentenza al par. 2.4, richiamando un consolidato principio.
Infatti, nel caso in esame da parte del COGNOME alcuna spiegazione in ordine alla destinazione aziendale di tali beni risulta offerta, né richiamata neanche dal ricorso.
E in tal senso assolutamente consolidato è l’orientamento che trae la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita dalla mancata dimostrazione, ad opera dell’amministratore, della destinazione dei suddetti beni (Sez. 5, n. 8260/16 del 22 settembre 2015, COGNOME, Rv. 267710; Sez. 5, n. 19896 del 7 marzo 2014, COGNOME, Rv. 259848; Sez. 5, n. 11095 del 13 febbraio 2014, COGNOME, Rv. 262740; Sez. 5, n. 22894 del 17 aprile 2013,
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COGNOME, RV. 255385; Sez. 5, n. 7048/09 del 27 novembre 2008, COGNOME, Rv. 243295; Sez. 5, n. 3400/05 del 15 dicembre 2004, COGNOME, Rv. 231411).
Solo nel caso in cui vi sia una indicazione specifica della destinazione aziendale dei beni da parte del fallito, il giudice non può ignorarne l’affermazione, quando però le informazioni fornite alla curatela, al fine di consentire il rinvenimento dei beni potenzialmente distratti, siano specifiche e consentano il recupero degli stessi ovvero l’individuazione della effettiva destinazione (Sez. 5, n. 17228 del 17/01/2020, Costantino, Rv. 279204 – 01; mass. conf. n. 19896 del 2014 Rv. 259848 – 01). Ma nel caso in esame non risulta alcuna informazione fornita alla curatela da parte di COGNOME.
Anche il riferimento alla esiguità del valore dei beni, non si confronta con il principio per cui integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione la dismissione di beni strumentali obsoleti distaccati dal patrimonio sociale in assenza di utile o corrispettivo, trattandosi di beni la cui consistenza economica, sebbene minima, esigua o ridottissima, è idonea comunque a costituire garanzia per i creditori (Sez. 5, n. 31680 del 03/06/2021, COGNOME, Rv. 281768 – 01).
Per altro, nel caso in esame, anche il riferimento all’ammortamento e alla riduzione di valore resta del tutto ipotetico, in quanto non è dato sapere quando i beni furono sottratti alla loro destinazione aziendale e, quindi, come osserva la Corte di appello, con quale valore furono ceduti a terzi.
Il sesto motivo non è consentito perché richiede una rilettura delle emergenze probatorie non ammessa in questa sede di legittimità.
D’altra parte, la Corte di appello afferma che la valutazione del consulente di parte si basi sul medesimo materiale disponibile per il consulente del pubblico ministero: la critica a questa affermazione, da parte del ricorrente, non si accompagna ad una denuncia di travisamento specifica, difettando l’allegazione degli elementi che consentano a questa Corte di verificare l’errore nella sentenza impugnata.
Difatti, il ricorso per cassazione che denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità e in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto è alla stessa precluso (Sez. 6, n. 29263 del 08/07/2010 – dep. 26/07/2010, Cavanna e altro, Rv. 248192), dovendo allegare gli stessi, al fine di rendere specifica la doglianza.
Quanto al settimo e ottavo motivo, relativamente alla condotta sub n. 9 dell’imputazione, la Corte di appello esclude che si verta in tema di restituzione di mutuo operato dal socio in favore della società.
A ben vedere, tale esclusione non risulta manifestamente illogica, in primo luogo perché è il socio che ottiene (preleva) denaro della società in data 17 giugno 2008 per 350mi1a euro.
Ciò che accade il 22 settembre 2008 è la restituzione, solo parziale, operata grazie alla escussione da parte della banca di un pegno su polizza intestata sempre a COGNOME.
Pertanto, la Corte di appello applica il principio per cui integra il delitto bancarotta fraudolenta per distrazione qualunque operazione diretta a distaccare dal patrimonio sociale, senza immettervi il corrispettivo e senza alcun utile, beni ed altre attività, così da impedirne l’apprensione da parte degli organi fallimentari e causare un depauperamento del patrimonio sociale, in pregiudizio dei creditori (Sez. 5, n. 36850 del 06/10/2020, Piazzi, Rv. 280106 – 01).
Nel caso di specie è certo che la società sia stata depauperata e che abbia ricevuto in seguito meno di quanto aveva consegNOME a COGNOME: non si tratta di finanziamento soci, nella forma del mutuo, come evidenzia la Corte di appello, perché per essere tale il finanziamento deve essere del socio verso la società che deve procedere alla restituzione, ma nel caso in esame il ‘movimento’ è inverso, determinando per la società la perdita di una consistente liquidità per alcuni mesi (in sé già pregiudizievole) e il recupero di parte della stessa solo grazie all’iniziativa della banca nei confronti del socio beneficiato.
E’ corretto, allora, escludere che tale vicenda possa essere qualificata finanziamento del socio e come bancarotta preferenziale che, come la Corte evidenzia, può aversi solo in caso di restituzione dalla società al socio di versamenti operati a titolo di mutuo, tanto più che, come rileva la Corte di appello, i termini dell’asserito accordo e della garanzia non sono noti.
Il motivo è quindi infondato.
Quanto al nono e decimo motivo, la Corte territoriale conferma la qualificazione giuridica della bancarotta documentale generica.
Il ricorrente continua a dolersi, come con l’appello, dell’omessa motivazione del dolo specifico, ma il dolo richiesto per la bancarotta valutata dai Collegi di merito è quello generico (tra le altre: Sez. 5, n. 18634 del 1/2/2017, COGNOME, Rv. 269904; Sez. 5, n. 26379 del 5/3/2019, COGNOME, Rv. 276650; Sez. 5, n. 33114 del 8/10/2020, COGNOME, Rv. 279838), in ordine al quale non manifestamente illogica è la motivazione impugnata.
Va evidenziato in primo luogo che viene sostanzialmente abbandonata dal ricorrente la doglianza relativa alla violazione dell’art. 522 cod. proc. pen.: a ben vedere, pur se la contestazione indica la condotta a dolo specifico, come rileva la Corte di appello, l’imputato ebbe modo di difendersi dall’ampia condotta emersa anche nel corso del giudizio, a seguito del rinvenimento di alcune scritture, che erano però tenute fraudolentemente e che determinavano l’impossibilità di ricostruzione dei movimenti patrimoniali della società.
In tal senso, l’attribuzione già nella sentenza di primo grado al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione non determina la violazione dell’art. 521 cod. proc, pen., qualora la nuova definizione del reato appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, o, comunque, l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine alla stessa (Sez. 6, n. 11956 del 15/02/2017, B., Rv. 269655 – 01; mass. conf. N. 1697 del 2013 Rv. 258941 – 01, N. 48677 del 2014 Rv. 261356 – 01).
A fronte di tale diversa qualificazione giuridica, nel caso in esame la stessa è stata assunta dalla sentenza di primo grado e poi da quella del secondo grado, consentendosi così all’imputato l’esercizio consapevole del diritto di difesa in merito, legittimata dal riferimento, contenuto nell’imputazione, proprio alla bancarotta documentale generica che implica l’impossibilità (o la maggiore difficoltà) di ricostruzione del patrimonio e del movimento di affari, oltre che dal rinvenimento di alcuni libri contabili, evento noto all’imputato.
Per altro, quanto alla responsabilità del delitto, COGNOME quale amministratore di fatto è stato correttamente ritenuto responsabile della bancarotta documentale. In primo luogo perché chi ricopre le funzioni di amministrazione, di fatto e anche in via non esclusiva, ha comunque il dovere di adempiere agli obblighi nell’interesse della società: infatti, in base alla disciplina dettata dall’art. 2639 cod civ., l’amministratore “di fatto” di una società è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore “di diritto”, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, è penalmente responsabile per tutti i comportamenti a quest’ultimo addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall’art. 40, comma secondo, cod. pen.( Sez. 5, n. 26542 del 19/03/2014, Riva, Rv. 250844; Sez. 5, n. 15065 del 02/03/2011, Rv. 250094). Tanto più che fa gli indici sintomatici della amministrazione di fatto sussisteva anche il mantenimento dei rapporti con il commercialista, da parte di COGNOME, anche dopo il trasferimento delle quote alla proprietà esterna.
Ciò esclude che i poteri di regolare tenuta residuino solo in testa all’amministratore di diritto.
La motivazione della Corte di appello sul dolo generico richiesto si rinviene ampiamente al fol. 18 della sentenza, collegato anche all’evasione fiscale totale e continuativa di COGNOME, il che concreta la prova della volontà di tenere in modo frammentario e non aggiorNOME le scritture contabili così da non consentire la ricostruzione dei movimenti finanziari e patrimoniali, prova del dolo generico richiesto che è anche sostenuta anche dalle condotte distrattive, il che esclude la riqualificazione in bancarotta semplice e rende infondati i presenti motivi.
Quanto ai motivi undicesimo e dodicesimo la Corte di appello al par. 2.3 rende conto della natura propriamente distrattiva delle cessioni dei due immobili da parte di NOME a RAGIONE_SOCIALE, operata da COGNOME quale procuratore AVV_NOTAIO della prima.
Indici sintomatici della stessa, in ragione dell’assenza di convenienza per la venditrice NOME, risultavano l’assenza di versamento del prezzo e di azione per il recupero dello stesso, tranne che per 50mila euro dell’immobile di minor pregio, l’assenza di acconti e di garanzie riguardo al versamento dello stesso, l’esistenza di una clausola contrattuale per cui l’inerzia dell’amministratore (di fatto e di diritto), in caso di mancato pagamento del prezzo nei trenta giorni dalla scadenza fissata per il pagamento, valeva come quietanza dello stesso, clausola di assoluto favore della acquirente RAGIONE_SOCIALE. Si tratta di condizioni e condotte che correttamente la Corte territoriale qualifica come distrattive, in sintonia con il consolidat principio per cui integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione qualunque operazione diretta a distaccare dal patrimonio sociale, senza immettervi il corrispettivo e senza alcun utile, beni ed altre attività, così da impedirne l’apprensione da parte degli organi fallimentari e causare un depauperamento del patrimonio sociale, in pregiudizio dei creditori (fra le tante, Sez. 5, n. 36850 del 06/10/2020, Piazzi, Rv. 280106 – 01).
Inoltre, la Corte di appello analizza le informazioni, provenienti dalle indagini difensive, in modo puntuale e non manifestamente illogico (fol. 15 e s.).
D’altro canto, le intenzioni di COGNOME, come anche quelle dei COGNOME, proprietari subentranti nella NOME e acquirente tramite RAGIONE_SOCIALE, restano nell’ambito dei motivi dell’agire, ma non possono neutralizzare il fatto nella sua oggettività, che al di là delle persone fisiche e delle loro intenzioni, vede NOME danneggiata dalla perdita di immobili di assoluto valore senza alcun corrispettivo e senza garanzia, anzi con rinuncia al credito.
Pertanto, le doglianze riproposte con i motivi in esame risultano sostanzialmente reiterative di quelle già adeguatamente vagliate dalla Corte di merito, oltre che sollecitanti un giudizio di fatto, di rivalutazione delle emergenze probatorie, non consentito in questa Sede.
I motivi sono quindi generici oltre che manifestamente infondati.
Quanto al trattamento sanzioNOMErio, come osserva la Procura AVV_NOTAIO, il tredicesimo motivo è aspecifico in quanto non si confronta con la motivazione impugnata: è di tutta evidenza che essendo contestata l’aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta, il delitto estinto per prescrizione, non essendo il più grave andava a rifluire in quell’aggravamento, già neutralizzato con la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche.
Ne consegue che, non avendo avuto alcun effetto di aggravamento in concreto della pena la sussistenza del delitto sub n. 11, la circostanza che la Corte d’appello abbia dichiarato l’estinzione del reato non determini alcuna riduzione della pena medesima.
Nel resto il motivo, sulla misura della pena e sul mancato riconoscimento della attenuante del risarcimento del danno risulta assolutamente generico, trattandosi di pena base determinata in misura pari al minimo edittale e comunque, a segutio della riduzione ex art. 62-bis al di sotto della media edittale (cfr.Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283), tanto più che il parametro valutativo è desumibile dal testo della sentenza nel suo complesso argomentativo e non necessariamente solo dalla parte destinata alla quantificazione della pena (Sez. 3, n. 38251 del 15/06/2016, Rignanese, Rv. 267949).
D’altro canto, la Corte di appello chiarisce la ragione per la quale non vi è stata una riduzione per le prevalenti attenuanti generiche nel massimo, con motivazione congrua e non manifestamente illogica. Infine, l’invocata attenuante del risarcimento del danno oltre che genericamente prospettata, risulta anche integrare una doglianza inedita, in quanto non formulata con l’atto di appello.
Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso, con condanna alle spese processuali del ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 21/05/2024