Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 52120 Anno 2019
Penale Sent. Sez. 5 Num. 52120 Anno 2019
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 07/10/2019
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOMECOGNOME nato il 17/10/1965 a Battipaglia COGNOME NOME COGNOME nato il 29/04/1949 a Milano
avverso la sentenza del 26/09/2018 della Corte di Appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio limitatamente alle pene accessorie ed il rigetto dei ricorsi nel resto; udito il difensore, Avv. NOME COGNOMEin sostituzione dell’Avv. COGNOME e
Avv. NOME COGNOME che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa il 26/09/2018 la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano che aveva dichiarato COGNOME NOME e COGNOME NOME COGNOME responsabili dei reati di bancarotta fraudolenta
patrimoniale, per avere, in qualità di amministratori della “RAGIONE_SOCIALE“, dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Milano del 09.12.2013, distratto i beni della società per un valore di C 144.800,00, convogliandoli sul conto corrente della “RAGIONE_SOCIALE“, costituita ed amministrata dai medesimi COGNOME e COGNOME, e di bancarotta documentale semplice.
In particolare, è stato accertato che la società fallita, il cui amministratore di diritto è stato dapprima COGNOME e, dal 15.6.2010, COGNOME, era stata costituita nell’aprile del 2009 per proseguire l’attività della “RAGIONE_SOCIALE“, che, in ragione della scarsa credibilità bancaria degli odierni ricorrenti, aveva difficoltà nell’accesso al credito; la costituzione della RAGIONE_SOCIALE veniva dunque agevolata dall’apporto economico del socio COGNOME (estraneo alla RAGIONE_SOCIALE), che conferiva C 150.000,00; la somma veniva tuttavia stornata sul conto corrente della s.a.s., ed utilizzata per saldare i debiti di quest’ultima, che emetteva fatture per il mobilio, il materiale tecnico, il portafoglio clienti ed altri beni, un importo complessivo di C 144.800,00; valore che risultava, però, eccessivo rispetto alla reale consistenza, valutata nella somma di C 76.000,00.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di COGNOME Luigi, Avv. NOME COGNOME COGNOME deducendo tre motivi di ricorso.
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al ruolo di amministratore di fatto: contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Appello, COGNOME avrebbe riferito che l’unico amministratore della società è sempre stato COGNOME anche dopo il subentro formale di COGNOME; la cessione delle quote di COGNOME a COGNOME e COGNOME risale al 25.11.2010, 5 mesi dopo la nomina di COGNOME quale amministratore di diritto, avvenuta il 15.6.2010; egli aveva dunque ereditato situazione e posizioni di cui non era a conoscenza, e non vi è stato alcun periodo di gestione di fatto indipendente dalla sua nomina formale.
La Corte sarebbe incorsa in un travisamento anche delle dichiarazioni del COGNOME, che era a conoscenza delle ragioni della costituzione della RAGIONE_SOCIALE e delle dinamiche dalla cessione dei beni e dei clienti in quanto egli era anche socio della RAGIONE_SOCIALE, nonché della risposta fornita dal curatore al PM, che ha dichiarato di avere interloquito “con tutti e due”, senza intendere che entrambi fossero amministratori di fatto della società.
2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle condotte distrattive ed alla loro imputazione al COGNOME: escludendo che COGNOME fosse
amministratore di fatto prima dell’assunzione della carica formale nel 2010, le fatture relative ai beni distratti risalgono tutte al 30 giugno 2009.
Inoltre, il curatore ha riferito di non sapere nulla dell’effettiv risanamento dei debiti della s.a.s. mediante gli importi erogati dalla s.r.l. a saldo delle fatture, ma il mobilio della sede sociale e la clientela della s.a.s. erano stati effettivamente utilizzati dalla s.r.I.; sicché l’acquisto, seppur eccessivo, delle famose palline di Natale non può essere ritenuto di per sé un atto distrattivo, essendo destinate alla manifestazione canora Ambrogino d’Oro per gli anni 2009-2011.
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla bancarotta documentale semplice: l’affermazione di responsabilità sarebbe fondata sulla dichiarazione del curatore, secondo cui i crediti della società nei confronti dei clienti risultavano improvvisamente abbattuti; la Corte sarebbe incorsa in un travisamento, in quanto il curatore aveva esaminato soltanto due conti correnti, e non anche il conto presso l’UBI Banca, dove risultano proprio gli incassi dei crediti verso i clienti.
3. Ricorre per cassazione altresì il difensore di COGNOME NOME COGNOME, Avv. NOME COGNOME deducendo due motivi di ricorso.
3.1. Violazione di legge in relazione ai reati di bancarotta fraudolenta e semplice, in quanto la sentenza non avrebbe valutato la conformità della decisione al diritto.
Quanto alla bancarotta documentale, l’irregolare e incompleta tenuta delle scritture non avrebbe di fatto impedito la ricostruzione dell’attività economica, come sostenuto dalla stessa curatrice, Avv. NOMECOGNOME che ha affermato di avere ricostruito tranquillamente la situazione patrimoniale dell’azienda, grazie alla ridotta attività ed al comportamento collaborativo del COGNOME. Peraltro COGNOME è stato amministratore dall’aprile 2009 al 15 giugno 2010, ed il fallimento è stato dichiarato oltre tre anni dopo, il 9.12.2013; in ogni caso sarebbe stato applicabile l’art. 131 . pen. bis cod
Quanto alla distrazione, contesta l’assunzione del ruolo di amministratore di fatto successivamente alle dimissioni, evidenziando che anche il teste COGNOME aveva riferito di una attività del COGNOME limitata ai rapporti commerciali con i clienti; le condotte contestate sarebbero dunque ascrivibili al solo amministratore di diritto COGNOME Non sarebbe emerso un agire colposo del COGNOME, tale da integrare la bancarotta semplice (patrimoniale), e, con un diffuso, sebbene astratto, richiamo ai più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità, sostiene che non si sia verificato un pericolo concreto per le
ragioni creditorie, avendo COGNOME concesso tutte le garanzie e le fideiussioni richieste dalla banca creditrice, contestando altresì la sussistenza del dolo, in mancanza di indici di fraudolenza delle condotte.
3.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al ruolo di amministratore di diritto e di fatto: il teste COGNOME, commercialista della s.r.lRAGIONE_SOCIALE fino all’amministrazione COGNOME, ha dichiarato di avere operato una stima del valore totale della s.a.s. di C 118.145,00 (C 26 mila per cespiti, ed C 92.145 per avviamento), prudenzialmente ridotta di 40 mila euro; sicché il pagamento da parte della s.r.l. alla s.a.s. degli importi contestati sarebbe di C 138 mila a fronte di una contestazione di C 144 mila.
Quanto alla bancarotta documentale, COGNOME era stato amministratore fino al giugno 2010, e la risposta del curatore al PM di avere interloquito “con tutti e due” non significava che entrambi erano stati amministratori della fallita.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili, ma deve essere rilevata l’illegalità delle pene accessorie ex art. 216, u.c., I. fall.
2. Il ricorso di COGNOME NOME contesta, con i primi due motivi, il ruolo di amministratore di fatto affermato dai giudici di merito, sostenendo che la gestione della società sarebbe stata circoscritta al periodo successivo a quello in cui ha assunto la qualità di amministratore di diritto (il 15 giugno 2010), e lamentando il travisamento della prova con riferimento alle dichiarazioni di COGNOMEsocio degli odierni ricorrenti), dello stesso imputato COGNOME e del curatore Avv. NOMECOGNOME
2.1. Le doglianze proposte con il primo motivo sono tuttavia inammissibili, non ricorrendo i presupposti del lamentato travisamento, risolvendosi le censure in una non consentita lettura alternativa degli elementi di prova, basata su estratti, parziali ed arbitrariamente selezionati, delle prove dichiarative.
Al riguardo, infatti, giova rammentare che, ai fini della configurabilità del vizio di travisamento della prova dichiarativa, è necessario che la relativa deduzione abbia un oggetto definito e inopinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della dichiarazione e quello tratto dal giudice, con conseguente esclusione della rilevanza di presunti errori da questi commessi nella valutazione del
significato probatorio della dichiarazione medesima (Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272406).
Tuttavia, premesso che l’esame nel giudizio di legittimità del travisamento della prova, quale ulteriore criterio di valutazione della contradditorietà estrinseca della motivazione, deve riguardare uno o più specifici atti del giudizio, non il fatto nella sua interezza (Sez. 3, n. 38431 del 31/01/2018, Ndoja, Rv. 273911), nel caso di specie, il ricorso non deduce una palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco delle dichiarazioni e quello tratto dal giudice, limitandosi ad estrapolare estratti parziali del testimoniale per sostenere un presunto errore nella valutazione del significato probatorio delle dichiarazioni, a proposito del “fatto” del ruolo gestorio svolto dal COGNOME anche prima di assumere la qualifica di amministratore di diritto.
Del resto, con riferimento al richiamo parziale ed arbitrariamente selezionato delle dichiarazioni asseritamente travisate, va rammentato che, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 165-bis disp. att. cod. proc. pen., introdotto dall’art. 7, comma 1, d. Igs. 6 febbraio 2018, n. 11, trova applicazione il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, che si traduce nell’onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, COGNOME, Rv. 276432, in una fattispecie in cui è stato ritenuto inammissibile il ricorso, contenente un limitato stralcio di una testimonianza ritenuta decisiva, con il quale si era dedotto il travisamento della prova dichiarativa).
2.2. Ciò posto, i primi due motivi propongono doglianze eminentemente di fatto, che sollecitano, in realtà, una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità, sulla base di una “rilettura” degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944); infatti, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alle categorie del vizio di motivazione e della violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., sono in realtà dirette a richiedere a questa Corte un inammissibile sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dalla Corte territoriale (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, COGNOME, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, COGNOME, Rv. 214794).
In particolare, con le censure proposte il ricorrente non lamenta una motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica – unici vizi della motivazione proponibili ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen. ma una decisione erronea, in quanto fondata su una valutazione asseritamente sbagliata in merito al significato probatorio delle dichiarazioni del curatore, di COGNOME e dello stesso COGNOME e, di conseguenza, al ruolo di amministratore di fatto svolto da quest’ultimo nel corso del ciclo imprenditoriale della fallita, anche prima di assumere la qualità di amministratore di diritto.
Il controllo di legittimità, tuttavia, concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicché il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.
2.3. Pertanto, nel rammentare che la Corte di Cassazione è giudice della motivazione, non già della decisione, ed esclusa l’ammissibilità di una rivalutazione del compendio probatorio, va al contrario evidenziato che la sentenza impugnata ha fornito logica e coerente motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti, con argomentazioni prive di illogicità (tantomeno manifeste) e di contraddittorietà.
Invero, quanto a Frojo, la Corte territoriale ha evidenziato che: lo stesso imputato ha spiegato le ragioni della costituzione della s.r.l. (determinata dalla sua mancanza di credibilità bancaria e da quella, sopravvenuta, del COGNOME, che richiedevano la creazione di uno schermo societario più affidabile) e del suo diretto coinvolgimento nella gestione della società (ed in particolare nella decisione di fatturare le attività e i cespiti della RAGIONE_SOCIALEr.lRAGIONE_SOCIALE e n destinazione dell’apporto economico del COGNOME al saldo dei debiti della s.a.s.); il coimputato COGNOME ha riferito che COGNOME si era sempre interessato alla gestione della RAGIONE_SOCIALE, occupandosi dei conti correnti, anche quando non era formalmente amministratore di diritto; il curatore ha riferito di avere interloquito con entrambi gli odierni imputati in ordine alla gestione della società fallita, riferendosi alla conoscenza dei vari aspetti della vita societaria.
Ne consegue che anche il secondo motivo di ricorso deve ritenersi assorbito, essendo immune da censure l’affermazione del ruolo di amministratore di fatto del Frojo, anche prima del 2010, e dunque anche
all’epoca del saldo delle fatture del giugno 2009 concernenti le “famose palline di Natale” (ma non solo) pagate dalla s.rRAGIONE_SOCIALElRAGIONE_SOCIALE alla s.a.s.
2.4. Le doglianze proposte con il terzo motivo, concernenti la bancarotta semplice documentale, sono inammissibili, in quanto anch’esse calibrate su una non consentita lettura alternativa degli elementi di prova, diretta a sollecitare una rivalutazione del merito, sulla base, peraltro, di circostanze (l’esistenza di un terzo conto corrente della società dal quale sarebbero emersi gli incassi dei crediti verso clienti che risultavano “abbattuti”) neppure menzionate nella motivazione della Corte distrettuale e non dedotte, in ossequio all’onere dell’autosufficienza del ricorso, sulla base di specifici atti, dal ricorrente.
In ogni caso, appare assorbente rilevare che, al di là della parcellizzazione valutativa proposta dal ricorrente, il reato di bancarotta documentale semplice è stato ritenuto sussistente non già sulla base dell’esame di un’unica posta di bilancio, bensì sulla base della lacunosità delle scritture e sulla incompletezza dei libri contabili, che non consentivano la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, anche per la contraddittorietà con gli estratti conto disponibili.
3. Il ricorso di COGNOME NOME COGNOME è inammissibile.
3.1. Le doglianze, proposte con entrambi i motivi, concernenti il ruolo di amministratore di fatto, sono inammissibili, perché, oltre a dedurre motivi non consentiti, sono manifestamente infondati.
Nel richiamare quanto già evidenziato infra § 2.2. e 2.3., e premesso che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento enti intomatici di elem s dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero i qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare -, che costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, n. 8479 del 28/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269101), il concreto ruolo gestorio di Gorni è stato affermato, dalla sentenza impugnata, sulla base di una serie di indici univoci: oltre ad essere stato amministratore di diritto dalla costituzione della società, nell’aprile del 2009, fino al giugno 2010, il socio di capitali COGNOME ha riferit che, alla dismissione formale della qualifica di amministratore di diritto (legata
alla sopravvenuta perdita di credibilità bancaria), non ha fatto seguito una dismissione sostanziale, avendo il COGNOME continuato ad amministrare attivamente la società ed a mantenere i rapporti con i clienti; ed anche il coimputato COGNOME lo ha indicato quale gestore della fallita, riferendo, in termini conformi al COGNOME, dei motivi sottesi alla dismissione formale della carica.
La doglianza del ricorrente appare, dunque, del tutto generica ed assertiva, non confrontandosi concretamente con il tessuto argomentativo della sentenza impugnata, oltre che basata su una non consentita rilettura degli elementi di prova.
Peraltro, giova evidenziare che le condotte distrattive contestate, concernenti il pagamento dei beni della società di persone sulla base di una oggettiva ipervalutazione del compendio aziendale, risalgono al giugno del 2009, allorquando il COGNOME rivestiva ancora la carica di amministratore di diritto.
3.2. Le censure concernenti la sussistenza della bancarotta fraudolenta patrimoniale sono inammissibili, perché del tutto generiche, risolvendosi in un richiamo, diffuso, quanto astratto, dei più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità.
La doglianza secondo cui non si sarebbe verificato un pericolo concreto per le ragioni creditorie, oltre a non risultare essere stata dedotta con l’atto di appello, come si evince dalla non contestata sintesi dei motivi (Sez. 2, n. 9028 del 05/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259066: “E’ inammissibile, per difetto di specificità del motivo, il ricorso per cassazione con cui si deducano violazioni di legge verificatesi nel giudizio di primo grado, se l’atto non procede alla specifica contestazione del riepilogo dei motivi di appello contenuto nella sentenza impugnata, qualora questa abbia omesso di indicare che l’atto di impugnazione proposto avverso la decisione del primo giudice aveva anch’esso già denunciato le medesime violazioni di legge”), è, oltre che tardiva, manifestamente infondata, avendo la Corte territoriale evidenziato che gli esborsi in favore della società semplice hanno comportato l’esaurimento dell’intera liquidità della società di capitali, con conseguente stato di decozione.
Oggetto di mero richiamo risulta, infine, il profilo della prova del dolo, sulla base degli indici di fraudolenza della condotta, che, per la sua genericità, non appare suscettibile di sindacato di legittimità.
Quanto, infine, all’oggetto della distrazione, il ricorrente sostiene che, in realtà, il valore dei beni ceduti sarebbe prossimo (C 138.000,00) a quello contestato nell’imputazione (C 144.000,00): oltre a proporre non consentite
doglianze di merito, la deduzione è altresì manifestamente infondata, perché ricomprende nel calcolo un valore di C 60.000,00 privo di causale, senza confrontarsi con la sentenza impugnata che, sul punto, ha evidenziato che la consistenza della società semplice – C 26.000,00 quali cespiti, ed C 50.000,00 quale avviamento, in esso comprese le giacenze (id est: le “famose palline di Natale”) – era pari a circa C 76.000,00; un valore, dunque, di gran lunga inferiore (di C 68.800,00) rispetto ai versamenti eseguiti dalla fallita (pari ad C 144.800,00).
3.3. Le doglianze concernenti la bancarotta semplice documentale sono manifestamente infondate, in quanto, premesso che, ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 217, comma 2, I.f., non è necessaria l’impossibilità di ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (Sez. 5, n. 55065 del 14/11/2016, Incalza, Rv. 268867) – che pure è stata affermata dal curatore fallimentare -, il reato di bancarotta documentale semplice (pure oggetto di riqualificazione dell’originaria imputazione di bancarotta fraudolenta) è stato ritenuto sussistente sulla base della lacunosità delle scritture e sulla incompletezza dei libri contabili, che non consentivano la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, anche per la contraddittorietà con gli estratti conto disponibili, ed a prescindere dalla presentazione del bilancio del 2009 (rivendicata dal ricorrente COGNOME), che non rientra nell’oggetto del reato (Sez. 5, n. 42568 del 19/06/2018, E, Rv. 27392503).
4. Non dipendendo l’inammissibilità dei ricorsi dalla tardività (Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, COGNOME, Rv. 265106), va rilevata d’ufficio l’illegalità delle pene accessorie irrogate ai ricorrenti.
Invero, la sentenza n. 222 del 05/12/2018 della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».
Si verte, dunque, in una ipotesi di pena illegale rilevabile d’ufficio dal giudice di legittimità, in quanto, indipendentemente dal fatto che le pene concretamente irrogate rientrino nella cornice edittale della norma così come manipolata dal giudice delle leggi, il procedimento di commisurazione si è basato su una norma dichiarata incostituzionale (cfr. Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, COGNOME, Rv. 264205; Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, COGNOME, Rv. 264857).
Alla luce del dictum della Corte costituzionale, rileva il Collegio che, limitatamente alla durata delle pene accessorie di cui all’ultimo comma dell’art. 216 I. fall., la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano, che dovrà rideterminare detta durata sulla base degli ordinari criteri commisurativi (Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, Suraci).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni sulla durata delle pene accessorie di cui art. 216, ultimo comma, legge fall., con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.
Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi.
Così deciso in Roma il 07/10/2019
Il Consigliere estensore
NOME COGNOME
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